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Dopo aver trascorso gli ultimi due anni in Cina alla guida del Dalian Yifang, Rafa Benitez ha deciso fosse ora di ricominciare a confrontarsi con il calcio del vecchio continente. Lo farà tornando a Liverpool, la città che più di tutte lo ha reso grande, regalandogli immense soddisfazioni. Con una sola eccezione, questa volta non sarà alla guida dei Reds, bensì dei Toffees.

Due passi

I rapporti tra vicini sono sempre piuttosto complicati, spesso e volentieri conflittuali, anche qualora l’apparenza sembri voler lasciar intendere altro. “L’erba del vicino è sempre più verde” non è certo un modo di dire entrato a caso a far parte della cultura popolare, e le sue svariate trasposizioni di a livello cinematografico ne sono chiara testimonianza.

In terra anglosassone la struttura dell’enunciato cambia leggermente forma, conservando però lo stesso principio “The grass is always greener on the other side of the fence”, più chiaro di così. Ed è per l’appunto in Inghilterra che si trova una delle coppie di vicini più famose di sempre, con circa 129 anni di storia alle spalle conditi da accese rivalità e scontri sanguinosi. In questo caso a separare il vicinato oltre la recinzione ci pensa lo Stanley Park, una linea verde che si estende per poco più di un chilometro nello spazio tra le due abitazioni separando Anfield, casa del Liverpool, da Goddison Park, dimora dell’Everton.

Passare da una sponda (o da un fronte) all’altra richiede una sostanziosa dose di audacia – coloro che hanno indossato entrambe le casacche possono essere infatti contati sulle dita delle mani – men che meno se ti chiami Rafael Benitez e hai il tuo nome inciso nella storia del Liverpool. Non c’è dunque da meravigliarsi se, quando si è iniziato a parlare concretamente dello spagnolo come possibile nuovo tecnico dei Toffees, quelli che ora sono i suoi nuovi vicini di casa non l’abbiano presa proprio bene.

Basti pensare che quello di Benitez sarà soltanto il secondo caso in cui un tecnico si troverà ad aver allenato entrambe le squadre del Merseyside (cosa che ovviamente non basta a giustificare lo scabroso spettacolo rappresentato di sopra). Normalmente in termini pratici si tratterebbe di soli “due passi” da uno stadio all’altro, eppure all’ex Inter dovrà essere sembrato di attraversare la via della seta a piedi prima di giungere sulla sponda blu di Liverpool.

Benitez, i motivi di una scelta

Mai come quest’anno con la fine dei campionati ha preso il via una girandola di allenatori dalle proporzioni smisurate, che ha trovato nel campionato nostrano il proprio epicentro, ma che ha finito inevitabilmente per colpire con decisione anche le arie circostanti. Uno dei tanti terremoti succedutisi ha visto Zidane lasciare la panchina del Real Madrid, scatenando una tumultuosa ricerca del nuovo allenatore, conclusasi con il ritorno di Carlo Ancelotti sulla panchina dei Blancos.

Di colpo l’Everton si è dunque ritrovato, ad appena un anno dal suo arrivo, a dover rimpiazzare un allenatore di caratura internazionale come l’italiano, il quale era stato ingaggiato con la speranza di  portare avanti un progetto pluriennale che potesse permettere al club di compiere gli step in avanti necessari per elevare il proprio status sia a livello nazionale che continentale. Riuscire a trovare un elemento che riuscisse a soddisfare tali requisiti, con la giusta esperienza in Premier League, e soprattutto disposto a calarsi in una realtà sì ambiziosa, ma ancora priva di garanzie nella possibilità di lottare ai vertici come quella dell’Everton non era certo impresa facile.

Ecco dunque che una figura come quella di Rafa Benitez è apparsa calzare a pennello per le esigenze del club. Bisognava per l’appunto trovare qualcuno pronto a dedicarsi a pieno e a credere davvero nel progetto, in cui lo spagnolo ha intravisto l’opportunità di poter rilanciare la propria carriera dopo le ultime annate non vissute propriamente al top. Si può dunque azzardare che le parti non abbiano poi impiegato troppo tempo nel riporre da parte il passato e raggiungere un accordo. D’altronde è palesemente chiaro come oramai oggigiorno passare sotto le armi di quello che fino ad un giorno prima era il nemico sia sempre più consuetudine.

Benitez festeggia la vittoria della Champions League insieme a Gerrard
Ripensando a determinate immagini appare alquanto strano immaginare lo spagnolo come allenatore dell’Everton. (Foto: Rebecca Nadin/Imago Images – OneFootball)

Benitez – Everton, le prospettive di un matrimonio

Come già accennato in precedenza l’Everton è una società che punta fortemente a tornare in alto, come del resto dimostrano gli investimenti effettuati nelle recenti campagne acquisti. Dal 2016 ad oggi infatti la società non ha mai sborsato un ammontare al di sotto degli 80 milioni di euro per singola annata, raggiungendo il picco nel 2017 sfondando il muro dei 200 milioni (cifra in buona parte legata ai circa 85 incassati dalla cessione di Lukaku al Manchester).

Cifre non certo creanti scalpore dato lo strapotere economico dettato dai club della FA nell’ultimo decennio, ma che certo contribuisce a rendere bene l’idea di quale sia la visione dalle parti di Goddison Park. Un progetto che ha però fino ad ora faticato a prendere piede, compresa l’ultima stagione in cui nonostante un inizio promettente, i Tooffees hanno finito per chiudere il campionato in decima piazza e mancando dunque l’accesso all’Europa, inizialmente considerato come l’obbiettivo minimo prefissato data la rosa a disposizione.

L’Europeo ha per il momento congelato il mercato, risulta quindi ancora difficile ipotizzare al completo la rosa che Benitez potrebbe ritrovarsi. In ogni caso non dovrebbe esserci la partenza di nessuno dei pezzi pregiati, condizione ineccepibile se si vuol puntare ai piani alti della classifica. Al di là di quelle che potrebbero essere gli arrivi o le partenze, l’organico attuale si mostra già di per sé funzionale alle idee del nuovo allenatore, vista la predilezione di questo a giocare con il 4-2-3-1, stesso modulo adottato dal suo predecessore.

La qualità certo non scarseggia tra i calciatori presenti in gruppo, cui però è sempre sembrato mancare qualcosa nei momenti decisivi della scorsa stagione (ma anche in quelle passate), e che ancora si fa fatica a capire se sia stato qualcosa di riconducibile ad una lacuna sotto l’aspetto tecnico o mentale. A Rafa andrà il difficile compito di capire dove e come migliorare questa macchina, capace già di dare dimostrazione di tutto il suo potenziale, seppur solo a scatti.

Richarlison e Calvert-Lewin festeggiano un gol

Il sodalizio tra l’allenatore madrileno e i Blues del Merseyside resta però pieno di incognite. L’Everton ha centrato la qualificazione in Europa solo in un’occasione negli ultimi dieci anni, mentre dall’altro lato l’ex Liverpool nelle recenti esperienze non è apparso più in grado di incidere come in passato. Una sorta di scommessa da ambo i lati, dato che nessuna delle parti in causa offre garanzie certe per quelli che si prospettano dover essere i traguardi in ballo.

L’idea è quella di ritrovare la stabilità e la continuità che il club aveva raggiunto sotto la guida di David Moyes, capace di portare la squadra addirittura sino alla qualificazione in Champions – e che di recente ha cercato di ripetere l’impresa con il West Ham. In tal senso Benitez ha dimostrato per l’appunto a Liverpool di poter portare avanti proficuamente un progetto a medio-lungo termine, per le cui basi sarà però necessario partire sin da subito con una prima stagione di alto livello.

Complicato ipotizzare fino a dove questo matrimonio possa spingersi, i cui frutti potrebbero allo stesso tempo rivelarsi successi eclatanti o tonfi clamorosi. A prescindere da ogni discorso la possibilità di vedere questi due vecchi nemici all’opera è ovviamente una delle prospettive più intriganti in vista della prossima stagione di Premier League, avendo suscitato già un ampio richiamo mediatico. Ai posteri l’ardua sentenza, magari Liverpool si rivelerà ancora una volta un porto fertile per Benitez, o magari chissà, un domani non troppo lontano entrambi potrebbero rimpiangere di aver oltrepassato quella linea verde.

Benitez in una delle sue ultime apparizioni inglesi sulla panchina del Newcastle
Con l’esperienza all’Everton il tecninco spagnolo potrebbe rilanciare alla grande la propria carriera, o in caso contrario, rischiare di comprometterla irrimediabilmente. (Foto: Shaun Brooks/Imago Images – OneFooball)

 

“Good, better, best, Never let it rest. Until your good is better, and your better is best”. L’idea di evoluzione è incastrata nelle pieghe temporali del calcio, essendo sostanzialmente il motore che manda avanti le ruote della storia. Il calcio ha avuto ed avrà le sue innovazioni che nascono da nuovi strumenti, nuovi giocatori, nuove menti che ragionano dietro a questo sport. Siamo in un momento in cui essere specializzati in una determinata caratteristica è meno conveniente del sapersi muovere in posizioni di campo diverse con tutto il carico di problemi ed opportunità che ne consegue.

Quando a vent’anni si trovava a giocare tra i dilettanti con indosso la maglia del Weston Super Mare probabilmente nessuno, lui compreso, avrebbe mai potuto immaginare che più o meno a cinque anni di distanza si sarebbe ritrovato a giocare sotto i riflettori della Premier League. Oltretutto non come semplice comparsa, ma come una delle sorprese maggiormente intriganti del campionato, e per di più in un ruolo diverso rispetto a quello da sempre ricoperto. Oggi Ollie Watkins ha 25 anni e ha ancora tanto da dimostrare.

Dopo l’ottimo avvio di stagione che aveva visto per diverse giornate il Tottenham addirittura al comando della classifica, l’ormai ex squadra di Mourinho si è andata pian piano arenando verso piazze che avrebbero potuto mettere a rischio la partecipazione non solo alla prossima Champions League, ma anche all’Europa League. Una piega nell’andamento che ha poi portato all’ancora fresco esonero del tecnico portoghese. Una chiusura anticipata, postasi sulla falsariga di luci ed ombre che ha condizionato le ultime annate dello Special One, e che adesso apre nuovi dubbi sulla sua figura.

Natale 2019 è stato molto dolce per i tifosi dei Gunners: l’arrivo di Mikel Arteta sulla panchina che per 22 anni era stata proprietà di Arsene Wenger aveva l’odore di riproposizione di una nuova era, un approccio molto simile a quello che aveva portato nel nord di Londra, nel 1996, il tecnico alsaziano. L’esperienza dello spagnolo come calciatore sotto lo stesso Wenger e come assistente di Pep Guardiola ha creato un’aspettativa da incrocio genetico simile a quella che ci siamo immaginati quando abbiamo saputo che Andre Agassi e Steffi Graf avevano messo al mondo un erede, oppure quando la stessa cosa era accaduta con Sergio Aguero e Giannina Maradona.

Effetti del Genio, Erik Lamela

Di fronte ai capolavori, la reazione degli uomini è spesso quella di un’esaltazione mista allo spavento. L’espressione assunta da Sergio Reguillón in seguito al gol di rabona del Coco Lamela contro l’Arsenal ricorda l’Urlo di Munch. Il terzino degli Spurs è esultante ma al tempo stesso pallido: le mani nei capelli e l’espressione di terrore manifestano la condizione di un uomo che ha appena assistito a un miracolo inatteso.

In effetti, quando Lucas ha scaricato il pallone per l’argentino, nessuno aveva percepito il minimo pericolo; anzi, Lamela sembrava in controtempo. Poi, dal nulla, il tempo all’Emirates si è fermato e il genio, travestito da Erik Lamela, si è palesato ricordandoci quanto l’imprevedibilità sia in grado di sconvolgere equilibri sottili. 

Calcio e Arte

L’esecuzione è di una bellezza disarmante: l’ex Roma pianta a terra la gamba destra e la avvolge col piede sinistro, che con un tocco di punta da biliardo imprime un effetto a rientrare al pallone. La sfera passa tra le gambe di Thomas Partey, nell’unico pertugio disponibile, e si insacca all’angolino. Se l’aspetto estetico del gol non può certo passare in secondo piano, quel che sorprende della rabona di Lamela è la sua efficacia: il Coco sembra aver trovato un compromesso tra “bello” e “utile”, dimostrando come l’unico modo per ottenere la migliore resa, talvolta, sia quello di ricercare la bellezza.

Realizzare un gol simile richiede un talento senza confini, e l’Argentino non è nuovo a questo tipo di prodezze – si ricordi il gol segnato, sempre in rabona, in Europa League contro l’Asteras Tripolis -, ma non è da sottovalutare il processo che ha spinto Lamela a tentare un colpo di tale calibro. La tipica perifrasi con cui si commentano prodezze simili (“È già difficile pensarlo questo gol, figurarsi farlo”) nasconde un’ingenuità: colpi di genio simili non si pensano.

Supporre che tra l’istinto e l’atto che hanno condotto Lamela a compiere il suo capolavoro vi sia stato un intermezzo di riflessione, equivale ad affermare che Federer debba pensare prima di un rovescio, che Fontana abbia dovuto contemplare ogni sua tela prima di squarciarla con un taglio, o che Bowie abbia dovuto fare brain-storming prima di scrivere Space Oddity. Simili colpi di genio non sono prevedibili, accadono e basta, e sono il frutto istintivo di riflessioni – nel caso di Fontana e Bowie – e ripetizioni del gesto tecnico – nel caso di Federer – durate una vita.

Il prodotto finale in sé altro non è che il momento in cui gli artisti raccolgono i frutti seminati lungo la propria esistenza: non ci si può improvvisare artisti, pensando e producendo un prodigio nel medesimo momento, l’espressione del genio a cui si dà forma va coltivata con tempo e talento. Sebbene calcio e arte siano per certi versi due mondi distanti, il gesto tecnico di Lamela, così come la reazione munchiana di Reguillón, ha tutte le stimmate di un’opera d’arte: emoziona, spaventa, esalta e non si può smettere di guardarla. 

Tutti osservano il gol di Lamela
La splendida traiettoria indovinata da Lamela (Foto: Julian Finney/Imago Images – OneFootball)

Un gol virtuale

Si sa, il genio ha bisogno di libertà per operare. Incatenarlo, equivale ad annullarlo. È per questo motivo che il guizzo strabiliante del Coco sembra così estraneo al suo contesto. Il teatro che fa da cornice alla rabona di Lamela è un Emirates vuoto, desolante. Se la funzione del calciatore è quella di procurare gioie ai suoi tifosi, il gol dell’ex Roma è paragonabile a una mostra d’arte disertata, o a un concerto di una band storica a cui nessuno si è presentato.

La bellezza del gesto resiste, ma il contrasto creato dal contesto innaturale aggiunge una nota nostalgica: il gol l’hanno visto tutti, chi dalla propria TV in tempo reale e chi dal proprio smartphone su suggerimento di un amico. Nessuno, però, potrà mai dire “Ero all’Emirates quando Lamela ha segnato in rabona contro l’Arsenal nel derby di Londra. È come se la presenza dei tifosi rappresentasse un certificato di convalidazione del gesto. Le grandi prodezze necessitano di un pubblico con cui dialogare, e se quest’ultimo manca, non conservano il medesimo valore.

La fruizione telematica del gol di Lamela è assimilabile a un tour virtuale in una sala del Louvre: le opere sono identiche, ma l’esperienza dal vivo è imparagonabile. La vera differenza è che mentre milioni di persone si sono trovate faccia a faccia con la Monnalisa – forse non proprio faccia a faccia, considerata la coda – nessuno, se non gli attori stessi del teatro dell’Emirates, è stato testimone del gol di Lamela. Se fosse stato realizzato a porte chiuse in un passato non troppo lontano, il gol sarebbe diventato una leggenda nebulosa da raccontare ai nipotini; oggi invece, tra Sky Sport, Youtube, Instagram et similia, tutti ne hanno usufruito e lo hanno condiviso come se si trattasse di un prodotto di consumo, ma nessuno l’ha visto. 

Lo scenario del gol
L’Emirates vuoto che fa da cornice al capolavoro del Coco (Foto: Julian Finney/Imago Images – OneFootball)

La rabona di Lamela è un’opera decadente

La pandemia, sulla scia della digitalizzazione, ha radicalmente modificato il nostro rapporto con l’estetica. Quella che prima del Covid-19 era una bellezza fruibile per via diretta – nei musei, negli stadi, e nei teatri -, oggi è una bellezza mediata.

La chiusura dei luoghi di assembramento ci ha costretto a stabilire un nuovo rapporto con i gesti tecnici che eravamo soliti ammirare allo stadio, così come con i quadri sui quali indugiavamo a una mostra. Il progresso tecnologico ci ha consentito di non rinunciare completamente alla fruizione di tali meraviglie, ma è difficile convincersi che il filtro dei dispositivi virtuali possa restituire la stessa esperienza dialettica offerta dal contatto diretto.

I musei virtuali faticano a entusiasmare persino la generazione dei nativi digitali, e la rabona di Lamela, segnata in un Emirates deserto, sembra assumere un nuovo significato: non più un capolavoro espressionista, bensì l’opera di un grande artista in fase decadente. Esteticamente impeccabile, ma mancante del calore umano che nessuna riproduzione virtuale è in grado di comunicare. Ecco che, forse, si è individuata una differenza ontologica che rende un gesto artistico irreplicabile per via telematica: il rapporto con lo spettatore.  

Lamela esulta e Reguillón non ci crede
Reguillón con le mani nei capelli corre al fianco di Lamela (Foto: Julian Finney/Imago Images – OneFootball)

In serata andrà in scena il ritorno degli ottavi di Champions League che vedrà opporsi Liverpool e Lipsia, nella competizione che, data la vittoria per 2-0 dell’andata, rappresenta attualmente l’unico raggio di luce rimasto nell’ombroso momento che stanno attraversando gli uomini di Klopp. Sei sconfitte nelle ultime sette partite di campionato, e altrettante negli ultimi sei match disputati tra le mura amiche di Anfield – record negativo nella storia del club – con una classifica che sta assumendo connotati piuttosto preoccupanti. Un periodo di crisi meritevole di un’occhiata tutt’altro che superficiale.

Sopravvissuto a Jorge Mendes

Il 30 luglio 2016, il Wolverhampton annuncia sul proprio sito ufficiale la cessione del club al gruppo cinese Fosun, pronto a fare investimenti importanti per riportare stabilmente il club delle Midlands in Premier League. Con una mossa molto singolare nel panorama calcistico inglese, la nuova proprietà decide di delegare la gestione sportiva del club ed i relativi investimenti ad un’agenzia di procuratori, la Gestifute di Jorge Mendes.

Il potentissimo procuratore portoghese da quell’estate decide di rendere il Wolverhampton il club di sviluppo dei propri assistiti: oggi la rosa è composta per gran parte da giocatori portoghesi o provenienti dall’ambito di influenza di Mendes a cui si aggiunge il deus ex machina sul campo, ossia l’allenatore Nuno Espirito Santo, il cliente numero 1 di Jorge Mendes. Da quel 2016, solo un giocatore è ancora parte della rosa del Wolverhampton, resistendo al repulisti della nuova gestione tecnica del club: si tratta del capitano Conor Coady, oggi anche unico giocatore inglese della rosa assieme al centrocampista Morgan Gibbs-White e all’altro difensore centrale Max Kilman.

Nel calcio contemporaneo, in cui contano le caratteristiche del giocatore ancor prima del ruolo, la storia calcistica del centrale difensivo dei Wolves rappresenta l’esempio più calzante di come determinati compiti ed altrettante funzioni non debbano necessariamente essere appannaggio di uno specifico ruolo, ma possono e devono coniugarsi con il contesto di squadra.

Un centrocampista di prospettiva

Oggi conosciamo Conor Coady come un centrale difensivo di ottimo livello e con caratteristiche molto specifiche, quasi assimilabili a quelle di un libero vecchio stampo: non è un portento in marcatura, ma sa farsi valere sulle palle alte e soprattutto in impostazione. Tutto questo è figlio della sua evoluzione come calciatore, che ha contaminato il suo modo di intendere il ruolo di centrale difensivo.

Il difensore del Wolverhampton nasce nel settore giovanile del Liverpool come centrocampista centrale che poteva operare davanti alla difesa, ma anche nelle altre posizioni rese disponibili dallo schieramento in campo della squadra. In questo ruolo, raccoglie anche la prima presenza con la maglia dei Reds: fu Brendan Rodgers a dargli la maglia da titolare in una trasferta di Europa League sul campo dell’Anzhi di Samuel Eto’o, allenato da Guus Hiddink.

Le formazioni di quell’Anzhi-Liverpool (Fonte: Transfermarkt)

In quella posizione viene utilizzato anche dalle nazionali giovanili inglesi, dove colleziona 37 presenze fino a capitanare la squadra U20 al Mondiale di categoria nel 2013. Quell’edizione del Mondiale non andò benissimo per la formazione inglese, eliminata ai gironi da Iraq e Cile pur avendo in squadra gente come Harry Kane, Ross Barkley, James Ward-Prowse e John Stones.

La formazione dell’Inghilterra U20 estromessa dal Mondiale di categoria durante la fase a gironi (Fonte: Transfermarkt)

Quel Mondiale verrà vinto dalla Francia, il cui centrocampo era composto dal trio formato da Pogba, Kondogbia e Veretout, mentre l’avventura nel giro delle nazionali per Coady terminerà al fischio finale di Egitto-Inghilterra, partita che decretò la fine dell’avventura inglese nella competizione.

Quella di Anzhi resterà l’unica presenza da titolare con la maglia dei Reds per Coady che, dopo quella stagione, verrà mandato in prestito allo Sheffield United in League One, l’equivalente della nostra Serie C. In quella stagione, l’attuale capitano del Wolverhampton mostra di essere un centrocampista davvero completo – utilizzato in tutte le posizioni a centrocampo -, tanto da chiudere la stagione con 5 reti e 4 assist al suo attivo. Al termine di quell’annata sembrava, dunque, destinato a diventare un centrocampista box to box, con il sogno anche di raccogliere l’eredità di Steven Gerrard.

Ed invece la parabola è diversa: al termine di quella stagione, il Liverpool decide di non puntare su di lui e lo cede all’Huddersfield. Si sale di un gradino nella scala del calcio inglese, i Terriers giocano in Championship: Coady non soffre affatto il salto e diventa indispensabile nel 4-2-3-1 con cui la squadra viene schierata in campo. Rispetto alla stagione precedente, deve occupare posizioni di campo meno avanzate; tuttavia, il suo apporto offensivo resta valido con 3 reti e 3 assist, ma soprattutto arriva il riconoscimento come Miglior Giovane dell’Anno da parte dei tifosi.

Coady
Coady con la maglia dell’Huddersfield (Foto: Ryan Browne/Getty Images – OneFootball)

Al termine della sua seconda stagione da professionista, Coady ha 22 anni e sembra pronto a puntare ad una carriera da centrocampista in Premier League. In quell’estate, il Wolverhampton inizia la sua ultima stagione sotto la gestione societaria di Jack Hayward, l’uomo sotto la cui gestione i Wolves sono tornati ad essere un club competitivo a livello nazionale. Diventerà l’ultimo acquisto della vecchia proprietà, versando nelle casse dell’Huddersfield un corrispettivo pari a poco meno di 3 milioni di euro, decisamente un investimento importante per la Championship inglese.

Sotto la guida del tecnico Kenny Jackett, i Wolves si schierano con lo stesso 4-2-3-1 dell’Huddersfield l’anno precedente, tuttavia la stagione non è esaltante e Coady si mette in evidenza più per le qualità in fase di non possesso, in cui mostra ottimo senso della posizione, che in fase offensiva. Chiuderà la stagione con solo 2 assist a referto ma con buoni valori difensivi: è il segnale che qualcosa sta cambiando per la sua carriera.

La nuova carriera di Coady sotto la gestione Fosun

Arriva l’estate del 2016 e l’era Hayward termina: il fondo Fosun, coadiuvato da Jorge Mendes, acquisisce il club con l’obiettivo di portarlo stabilmente in Premier League, dove poter sviluppare i talenti gestiti dal potentissimo procuratore portoghese. Il mercato porta ad una rivoluzione della rosa e della gestione tecnica: il club spende subito 30 milioni di euro per portare al Molineux gente del calibro di Ivan Cavaleiro ed Helder Costa, oltre al centrale difensivo marocchino Romain Saisse: la squadra è rivoluzionata da 24 acquisti e 26 cessioni, mentre la panchina viene affidata a Walter Zenga, con conseguente benservito a Kenny Jackett.

Walter Zenga ha collezionato 22 punti in 17 partite sulla panchina dei Wolves (Foto: Michael Regan/Getty Images – OneFootball)

All’interno di questa rivoluzione, Conor Coady resta sostanzialmente uno dei pochi elementi di continuità rispetto alla vecchia gestione: anche il rapporto con il nuovo allenatore sembra procedere al meglio. Tuttavia, la grande confusione generata dalla rivoluzione nell’organico ha comportato una serie di situazioni di difficile gestione: con una rosa non ancora completa, lacune in alcuni settori e sovrabbondanza in altri, Zenga chiede a Coady di mettersi alla prova come terzino destro.

La heatmap di Coady nella stagione 2016/2017 (Fonte: Wyscout)

La sfida viene accettata, il ragazzo si mette alla prova e dà del proprio meglio ma – come avrà modo di affermare negli anni successivi in alcune interviste – il suo auspicio è sempre stato quello di non dover coprire più quella posizione di campo per non essere costretto a sfidare gli avversari in uno contro uno. Per l’intera stagione, l’attuale capitano dei Wolves si alternerà tra i due centrali di centrocampo ed il ruolo di terzino, consolidando dunque la sua trasformazione in giocatore difensivo.

Dopo la prima stagione sotto la gestione Fosun – terminata decisamente al di sotto delle aspettative -, il piano di Jorge Mendes non si ferma: anche se i Wolves restano in Championship, l’imbarco di elementi dalla scuderia del procuratore portoghese continua in maniera ancora più massiccia, con nomi altisonanti come quelli del centrocampista Ruben Neves e dell’attaccante Diogo Jota, giusto per citarne alcuni, fino ad arrivare alla scelta di affidare la squadra a Nuno Espirito Santo, reduce dalle esperienze sulle panchine del Valencia e del Porto.

Nuno Espirito Santo ha collezionato 186 presenze sulla panchina dei Wolves (Foto: Andy Rain/POOL/AFP via Getty Images – OneFootball)

Allo stesso tempo, altri elementi della vecchia guardia fanno le valigie, ma anche questa volta Conor Coady resta al suo posto e diventa il capitano della squadra che in maniera trionfale porterà a casa la tanto agognata promozione in Premier League. Come nell’anno precedente, tuttavia, la rivoluzione sul mercato comporta un ritiro pre-campionato con una squadra non coperta i tutti i ruoli: Nuno decide che la strategia del suo Wolverhampton sarà incentrata sulla difesa a 3 – che diventa a 5 in fase di non possesso -, mentre la fase offensiva viene affidata alle transizioni ed alle capacità dei suoi elementi offensivi.

I difensori a disposizione, tuttavia, non sembrano tutti adatti ad una linea difensiva di quel tipo, quindi a chi tocca sperimentarsi come centrale nella difesa a 3? Ovviamente la scelta di Nuno ricade su Coady, una decisione che rappresenterà la svolta della sua carriera, rendendolo il giocatore che oggi conosciamo.

Coady
Coady ha raggiunto 262 presenze con la maglia del Wolverhampton (Foto Shaun Botterill/POOL/AFP via Getty Images – OneFootball)

Le caratteristiche di Coady da difensore centrale

Nuno ha voluto provare Coady in posizione di centrale di una difesa a 3 per poter utilizzare al meglio la sua visione di gioco: lo stesso Coady – in un’intervista rilasciata a dicembre 2019 a Sky Sport UK – ha posto l’accento sul fatto che il tecnico portoghese ha ritenuto le sue qualità in impostazione meglio gestibili in una zona di campo meno trafficata rispetto al cerchio di centrocampo.

A rendere singolare il ruolo di Coady è il fatto che la sua posizione è nominalmente al centro della difesa, ma non agisce mai realmente da difensore centrale: in fase di possesso diventa il primo regista della squadra, mentre in fase di non possesso i suoi compagni di reparto si occupano di gestire gli attaccanti avversari, mentre il suo compito è quello di controllare ciò che accade davanti alla propria porta ed intervenire se uno dei difensori ai suoi fianchi perde il duello con il relativo avversario.

La scelta operata dal tecnico del Wolverhampton dopo aver studiato Coady è stata quella di creare un giocatore con i compiti di un centrocampista, ma nella posizione di un difensore centrale: intorno a ciò gira l’intera strategia voluta dal tecnico portoghese, basata su un blocco basso e transizioni. Il capitano dei Wolves utilizza le sue grandi qualità balistiche per operare lanci utili e necessari a spostare il gioco da una metà all’altra del campo, permettendo di attivare la velocità degli esterni – la combo lancio di Coady e galoppata di Adama Traoré è stata l’arma principale dei Wolves nelle ultime due stagioni – fino anche a tentare di lanciare un compagno direttamente verso la porta, con palloni precisi alle spalle della linea difensiva avversaria.

(Fonte dati: Wyscout)

Le statistiche parlano chiaro e rappresentano in maniera ancora più oggettiva le specificità di Coady rispetto agli altri difensori che giocano in Europa: la lunghezza media dei suoi passaggi, la quantità di passaggi lunghi per partita e la relativa percentuale di precisione lo rendono un giocatore davvero unico nel suo genere, che perfettamente si sposa con il tipo di gioco che Nuno Espirito Santo ha progettato per la squadra.

Essendo cresciuto a livello giovanile con i fondamentali di un centrocampista, l’altro lato della medaglia del passaggio a difensore centrale è quella di adattare la sua posizione affinché le scarse capacità in marcatura potessero essere ben nascoste. La soluzione predisposta dallo staff del Wolverhampton è stata quella di esonerare Coady da compiti che potessero mettere in evidenza i suoi limiti difensivi: il ruolo, quindi, all’interno della linea difensiva a 3 – o a 5, come preferite – è quello di occupare la casella centrale della linea e lasciare i compiti di marcatura agli altri due centrali difensivi.

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Come si evince dagli esempi proposti, la sua interpretazione del ruolo è molto diversa da quella dei suoi omologhi: nel calcio contemporaneo è più unico che raro vedere delle linee difensive con un uomo che si occupa solamente della copertura e che, quindi, giochi qualche passo indietro rispetto ai propri compagni di reparto. Pur di utilizzare al meglio le qualità del suo capitano con la palla tra i piedi, quindi, Nuno Espirito Santo ha ripreso i manuali storici di tattica ed ha ricreato la figura del libero: un ruolo in cui Conor Coady sembra trovarsi molto a suo agio ed in cui può sfruttare al meglio il suo punto di forza, l’intelligenza calcistica.

Le prospettive future

Oggi Conor Coady compie 28 anni, la sua carriera è stata un susseguirsi di evoluzioni: il suo arretramento dal centrocampo al ruolo di difensore centrale gli ha permesso di diventare un giocatore professionista di alto livello, fino a tornare a vestire la maglia della nazionale inglese.

Gareth Southgate ne ha osservato molto attentamente l’evoluzione calcistica e, indubbiamente, la sua capacità di adattarsi a diversi contesti tattici ed a diverse posizioni in campo: non è un caso che nelle due apparizioni con la maglia dei Three Lions sia tornato a schierarlo anche a centrocampo – con una difesa a 4 alle spalle – e poi schierato nella sua abituale posizione al centro della difesa a 3.

In un progetto tecnico interessantissimo come quello che la nazionale inglese sta portando avanti –  basato su una fluidità degli schieramenti in campo a seconda della partita – l’apporto di Coady potrà essere molto importante. Non ci sarà da essere sorpresi se lo vedremo come protagonista ai prossimi campionati Europei.

Coady
L’8 settembre 2020 Coady ha fatto l’esordio con la nazionale maggiore inglese (Foto Michael Regan/Getty Images – OneFootball)

La storia, come amava farci ricordare Giambattista Vico, è fatta di corsi e ricorsi storici. Quella calcistica di Conor Coady è un grande cerchio che si è aperto come centrocampista di grande prospettiva dell’Academy del Liverpool: chissà che la prossima sessione di mercato non chiuderà questo cerchio riportandolo nella città e nella squadra dove è cresciuto.

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