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Il numero 9 è tornato?

Siamo alle battute finali di Manchester City-Borussia Dortmund, partita valevole per la seconda giornata della fase a gironi della Champions League; la partita è ferma sull’ 1-1 dopo che il Dortmund era passato in vantaggio e letto perfettamente le trame di gioco della squadra di Guardiola. Sullo sviluppo di un’altra azione statica della squadra inglese, Cancelo con una trivela mette in mezzo all’area un pallone molto alto che sembra destinato sul fondo; ma a correggere la traiettoria ci pensa il giocatore con la maglia numero 9 del City che con un gesto acrobatico difficilissimo da spiegare riesce a depositarlo in rete.

Questo numero 9 ha un nome che dovrebbe suonare familiare a tutti: Erling Braut Haaland.

Ma perché stiamo raccontando di questo gesto tecnico dell’attaccante norvegese? Forse perché vogliamo appiopparvi un altro profilo sull’ex attaccante di Salisburgo e Dortmund? La risposta è no: Haaland è solo un punto di partenza per raccontare come il calcio di oggi stia cercando di tornare alla centralità della punta per alimentare le proprie fortune offensive, e quale miglior esempio per spiegare questa tendenza se non con l’allenatore che aveva difatti eliminato il centravanti che decide di affidarsi ad un numero 9? 

Il centravanti non è più lo spazio?

Il calcio è fatto di innovazioni intorno alle quali nascono delle contromisure che poi generano ulteriori innovazioni, e così via in un lungo circolo che spesso tende a ruotare su se stesso riproponendo strategie o tattiche che la storia aveva messo nel ripostiglio negli anni precedenti.

Il Barcellona di Guardiola ed il gioco di posizione hanno rivoluzionato il calcio e come ogni rivoluzione qualcuno ne ha dovuto pagare le conseguenze. In questo caso la vittima è stata il centravanti, vecchio grimaldello utilizzato dagli allenatori per abbattere le resistenze delle difese avversarie e reso vetusto dalle nozioni esportate in altri contesti dal juego di position.

Il centravanti è lo spazio

Con questa affermazione, una delle tante che ben rappresentano la specificità dei princìpi tattici che hanno preso piede nell’ultimo decennio, ben si spiega come lo scopo del gioco del calcio non sia demandato alla qualità realizzativa di un solo giocatore, ma alla situazione che permette alla squadra di arrivare al tiro in modo tale da elevare la probabilità di segnare. Per questo motivo il ruolo del centravanti con la maglia numero 9 stava diventando un mestiere arcaico, come un venditore di ghiaccio dopo la commercializzazione dei frigoriferi.

Ma l’evoluzione tattica del calcio in questi anni ha cercato e trovato delle contromisure alle rotazioni posizionali ed alla creazione di spazi da attaccare a turno: il ritorno delle difese a cinque e dei blocchi bassi a difesa dell’area di rigore hanno mostrato i limiti di un calcio composto prevalentemente da calciatori che danno priorità alla ricerca del pallone rispetto alla ricerca della porta. 

La partita di andata tra Manchester City ed Atletico Madrid, quarto di finale della scorsa Champions League, ha mostrato chiaramente quanto questa contrapposizione rischiasse di rendere le partite delle mere esercitazioni attacco contro difesa, anziché uno spettacolo rivendibile ad un pubblico ed a dei tifosi oltre a rendere meno efficace questa tipologia di gioco.

Rissa al termine di Atletico-Manchester City
La rissa finale di Atletico Madrid-Manchester City come immagine di un doppio confronto ricco di tensione (Foto: Shaun Botterill/Getty Images – OneFootball)

Oltre alle contromisure tattiche dettate dalle difese avversarie, anche la nouvelle vague del calcio iper-verticale di matrice tedesca – basato sul sovraccarico di giocatori rispetto al pallone anziché al riempimento di specifiche zone del campo – ha reso lo spettacolo calcistico più godibile rispetto al gioco di posizione e, in aggiunta, ha ridato vita al ruolo del numero 9, restaurandolo come si fa con dei preziosi arredamenti di antiquariato. 

Haaland ha rappresentato la sublimazione di tutto questo, portando Guardiola ad accorgersi che lo spazio è ormai stato chiuso, per cui bisogna tornare indietro ed affidarsi al centravanti.

Una nuova classificazione per i numeri 9

La storia del calcio ha visto diversi numeri 9 lasciare il segno in un’era calcistica: abbiamo visto e/o letto delle imprese di Gerd Muller negli anni ‘70, quelle di Paolo Rossi negli anni ‘80 e quelle di Pippo Inzaghi negli anni ‘90 e ‘00. Tutti giocatori il cui obiettivo unico era quello di recapitare il pallone alle spalle del portiere avversario, in un ruolo che li rendeva estranei a tutto ciò che non riguardava la finalizzazione dell’azione. 

Non saprebbe dribblare nemmeno una sedia

La famosa affermazione di Jorge Valdano relativa all’ex centravanti di Juventus e Milan ci permette di riassumere al meglio cosa rappresenta la categoria dei numeri 9 dell’era pre-guardiolana, ossia giocatori specializzati nel fare un’unica cosa – segnare – ma affinando al meglio tutte le conoscenze del gioco per poter usare al meglio la profondità, l’elemento vitale per questo tipo di giocatori. 

Filippo Inzaghi che esulta per il suo ultimo goal con la maglia del Milan
Filippo Inzaghi è stato ultimo esempio di numero 9 deputato alla sola finalizzazione (Foto: ALBERTO LINGRIA/AFP via Getty Images – OneFootball).

Nel calcio odierno, tuttavia, giocatori di questo genere andrebbero considerati come limitati, in quanto a ciascun elemento della squadra viene richiesta una serie di compiti che non può essere limitata ad una sola giocata, ossia l’attacco della profondità. Non è un caso, infatti, che un giocatore che avrebbe potuto portare avanti la tradizione di cui sopra in relazione agli anni ‘10 di questo secolo è finito totalmente ai margini del grande calcio: sto parlando proprio di lui, Mauro Icardi.

Nell’ex giocatore dell’Inter, infatti, è mancata la capacità di adattare il suo stile di gioco alle necessità del calcio moderno, così negli ultimi anni al PSG sono diventate oggetto di discussione – ed anche di retorica da meme –  le passmaps in cui egli risulta totalmente estraneo al gioco senza compensare questa estraneità alla manovra con un apporto in fase di finalizzazione.

Per questo motivo per il ruolo del centravanti si è resa necessaria una rivisitazione in cui al numero 9 viene richiesta non solo la capacità di trovare la porta, ma anche quella di essere presente nello sviluppo dell’azione, o giocando più palloni o creando con il movimento maggiore spazio per i compagni.

In questo modo diversi allenatori hanno ottenuto dai loro attaccanti uno sviluppo dei propri compiti, convincendoli della necessità di questo adattamento darwiniano per non rischiare l’estinzione.

Questo processo ha portato gli analisti del gioco a creare diverse mappature dei profili di numeri 9 emersi in queste ultime stagioni, per questo motivo troviamo sul mercato diversi studi a riguardo: vi è quello svolto dalla start-up italiana Soccerment con la consulenza prestigiosa di Antonio Gagliardi – oggi assistente di Pirlo al Karamguruk ma fino a pochi mesi fa nello staff della Nazionale azzurra – così come quello della testata sportiva americana The Athletic, o quella dell’osservatorio CIES o del blog The Mastermindsite.

Queste analisi sono accomunate tutte dal fatto di aderire su una generica tripartizione: il finalizzatore che ha nella profondità la propria priorità, il giocatore che diventa punto di riferimento per i compagni per far risalire l’azione o il giocatore che si muove sul fronte d’attacco per giocare più palloni.

Il numero 9 mobile

Nelle varie definizioni date dagli studi di clustering sopra menzionati, una menzione specifica viene riservata alla categoria di centravanti che prima di tutti hanno trovato modo di collocarsi all’interno dei meccanismi del calcio di posizione.

Lewandowski che esulta con la maglia del Barcellona
Anche il Barcellona, club dove il mito del falso nueve è nato, ha deciso di investire su Robert Lewandowski (Foto: Alex Caparros/Getty Images – OneFootball).

Il prototipo del numero 9 contemporaneo è un essere mitologico che sa essere tanto finalizzatore quanto rifinitore: deve saper occupare l’area di rigore e vedere la porta tanto quanto muoversi sul fronte d’attacco e giocare la palla per i propri compagni e mandarli in porta.

Non è facile trovare attaccanti così completi in giro per il mondo, ed è per questo che i principali club mondiali investono milioni su milioni per accaparrarsene le prestazioni; stiamo parlando di nomi come quelli di Lewandowski, Kane o Benzema, tutta gente che troviamo spesso sul tabellino dei marcatori tanto quanto nel cuore dell’azione delle rispettive squadre, colorando di rosso intenso la trequarti avversaria delle rispettive heatmaps.

Gabriel Jesus da numero 9 mobile si apre e crea spazi per i compagni
Gabriel Jesus con questo tipo di movimenti in ampiezza sta facendo le fortune dell’Arsenal in questa prima fase di stagione.

La loro compatibilità rispetto al calcio posizionale sta nel fatto che sono parte attiva delle rotazioni di cui è parte questo tipo di gioco, per cui nel momento in cui essi si spostano lateralmente o vengono incontro creano uno spazio che viene occupato da un loro compagno di squadra. Per questo motivo si tratta di merce davvero preziosa per un allenatore: numeri 9 che sanno segnare ma capaci di rinunciare a quell’egoismo che pervade l’attaccante tradizionale.

Questa è senza dubbio l’evoluzione dei falsi nueve, anzi, giocando con le doppie negazioni li possiamo definire dei falsi falsi nueve. Non è un caso che diverse squadre nell’ultima sessione di mercato si siano svenate per cercare questo tipo di profilo: lo abbiamo visto con Gabriel Jesus all’Arsenal e con Darwin Nunez al Liverpool, per il quale i Reds hanno deciso di investire 100 milioni di Euro.

La punta che ama la profondità

Lo spazio è l’elemento distintivo del calcio degli ultimi anni: ogni allenatore cerca di trovare la strategia migliore per crearlo, che sia quello necessario ad arrivare ad un tiro da posizione favorevole o che sia quello necessario ad innescare rapide combinazioni che servano a superare la difesa avversaria.

Lo scopo del gioco del calcio è quello di segnare, un compito inizialmente richiesto al numero 9, mentre la fluidità del calcio attuale ripartisce l’onere e l’onore su tutta la squadra, per cui l’attaccante diventa non più solamente l’elemento finale del processo ma una parte di esso. 

Per questo un compito che può essere richiesto all’attaccante è quello di lavorare sulla profondità, ossia l’ultimo spazio che divide la porta avversaria dai suoi difensori. Questo spazio viene concesso o meno in base alla strategia dell’altra squadra: se questa sceglie di posizionarsi vicina alla propria area di rigore la profondità è ristretta, mentre si dilata se la linea difensiva viene posizionata più in alto. 

Compito di questo tipo di attaccante è quello di sfruttare la profondità quando concessa dalla difesa, costringendo quest’ultima ad abbassarsi creando spazio nella zona antistante – definita di rifinitura – che, se mal presidiata, può creare golose occasioni di tiro da fuori area o per giocate comode in verticale.

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Oltre a questo, l’attaccante che ama la profondità deve svolgere il compito principale del numero 9, ossia muoversi alle spalle della linea difensiva e segnare, magari sfruttando proprio l’assist del compagno di squadra che ha aiutato a liberare dilatando la zona di rifinitura. Vi sembra di vedere i movimenti e le giocate di Haaland ed Immobile? Non vi state sbagliando, stiamo parlando proprio di quel tipo di attaccante.

Quale può essere il limite designato per questi giocatori? Si tratta di giocatori che, appunto, sono a loro agio sulla profondità e, per questo, sono poco propensi ad abbassarsi in altre zone del campo o farlo con costrutto. Si discute tanto dei problemi di integrazione di Ciro Immobile con i meccanismi della Nazionale, così come si temevano difficoltà di idoneità di Haaland nel sistema di gioco del City, preoccupazione che sembra già svanita di fronte a quanto stiamo vedendo in questa prima parte di stagione.

Il numero 9 fisico è tornato utile

L’attaccante quello alto, quello che ha creato la categoria dei numeri 9 di provincia, oppure quello che ha dettato un’epoca nel calcio inglese basato sul kick and rush e tanto amato da chi ama raccontare il calcio in maniera nostalgica, non è sparito dal mondo del calcio contemporaneo: l’evoluzione della tattica oggi ha offerto loro una possibilità di reinserimento. 

Il cambiamento del calcio stava rischiando di portare all’estinzione questa categoria di attaccanti, soprattutto perché eliminando dal contesto di gioco il lancio lungo per l’attaccante a vantaggio di una risalita del campo più graduale e tecnica, il vantaggio di avere questi numeri 9 sembrava essere nullo, fino al punto di diventare quasi d’intralcio per un certo tipo di calcio.

L’esempio più concreto di questo lo abbiamo vissuto la scorsa stagione con la clamorosa salvezza ottenuta dalla Salernitana: il centro di tutto ciò ha il nome di Milan Djuric, centravanti della squadra campana – ora al Verona – esattamente il prototipo di quell’ attaccante da servire con lanci lunghi e cross.

Nella prima versione della Salernitana 2021/2022 l’attaccante nativo di Tuzla era utilizzato dal tecnico Castori come via di fuga per una squadra che si difendeva dentro l’area e sperava nella vittoria dei duelli aerei del suo numero 9 per ritardare l’inizio di una nuova azione avversaria. In questo modo, con il centravanti lasciato solo a se stesso, il suo ruolo viene totalmente svilito e reso poco produttivo, soprattutto grazie alla forte attenzione che le squadre pongono oggi alle marcature preventive, un’attenzione molto facilitata dall’avere un unico riferimento da seguire nella propria metà campo.

Con l’arrivo, invece, di Davide Nicola in panchina, bastano pochi accorgimenti per esaltare le qualità di Milan Djuric. Oltre ad una fase difensiva più aggressiva, il tecnico piemontese ha mostrato come si può sfruttare al meglio un giocatore con queste caratteristiche: sostanzialmente se a Djuric viene proposto un sostegno dato da una serie di compagni che gli giocano più vicini in tutte le fasi di gioco, le sue capacità di vincere i duelli aerei si rivelano utili per far giungere il pallone ad un suo compagno nelle vicinanze e permettere la creazione di situazioni da rete potenzialmente pericolose, di cui egli stesso può diventare il finalizzatore se la stessa azione viene rifinita con un cross.

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E allora partendo da questo esempio, possiamo notare come in un calcio dove non si può più attaccare con un solo giocatore, unendo le qualità fisiche del numero 9 con un’occupazione degli spazi aggressiva, si possono trovare soluzioni offensive molto redditizie. 

La squadra sorpresa di questa prima fase di stagione in Serie A, ossia l’Udinese, usa proprio il suo centravanti Beto come supporto per creare combinazioni rapide con l’aiuto di centrocampisti che si inseriscono con movimenti già collaudati in allenamento. La combinazione che si origina dall’esterno per entrare dentro appoggiandosi sul numero 9 della squadra friulana che poi scambia con Deulofeu è un marchio di fabbrica che la squadra di Sottil sta utilizzando con costanza per alimentare le proprie fortune.

Stesso discorso si può applicare con la strategia che Venezia lo scorso anno e Verona quest’anno provano ad utilizzare con Thomas Henry, giocatore che servito sul corpo riesce a collassare l’attenzione della linea difensiva su di se permettendo ai compagni vicino di giocare la seconda palla creando situazioni di potenziale pericolo.

Insomma anche il numero 9 fisico diventa uno strumento per un calcio offensivo ed elaborato e non più un mero strumento per permettere ai propri compagni di liberarsi del pallone quando si trovano in pericolo. Se poi quel giocatore si chiama anche Olivier Giroud, allora ecco che tutto questo lavoro si trasforma in goal e reti decisive per la vittoria di uno scudetto come quello detenuto oggi dal Milan.

Il rapporto tra il calcio italiano ed i numeri 9

L’ascesa del falso nueve nella terminologia giornalistica e nei playbook tattici degli allenatori ha iniziato ad attecchire anche in Italia con l’affacciarsi alla serie A di allenatori dalle idee tattiche più fresche, fino a raggiungere come un’infusione endovenosa la nostra scuola federale per poi dipanarsi sulle nostre nazionali con Roberto Mancini che ha accolto questo concetto nel ciclo che ci ha portato a vincere l’Europeo nel 2021.

Ma anche la nostra nazionale ha pagato lo scotto del cambiamento, e così la difficoltà ad inserire nel sistema un giocatore come Immobile che, con la maglia della Lazio, è in grado di raggiungere costantemente almeno le 30 reti stagionali, è stata pagata con l’esclusione dall’imminente mondiale in Qatar. 

Per questo motivo anche per il calcio italiano è il momento di pensare a come utilizzare al meglio il centravanti ed inserirlo in un contesto di gioco che sia il più propositivo possibile o, quanto meno, che abbia un’idea di come attaccare la linea difensiva avversaria.

Dopo l’epopea dei Paolo Rossi e dei Pippo Inzaghi, accanto ai quali sono cresciuti altri attaccanti come Gianluca Vialli e Christian Vieri, prototipi degli attaccanti completi richiesti dal calcio contemporaneo, il nuovo secolo ha visto emergere profili come quello di Luca Toni, diventato improvvisamente il benchmark del centravanti italiano.

L’attaccante emiliano ha rappresentato l’ascesa al potere di una categoria di centravanti cresciuti nelle serie inferiori italiane a cavallo tra anni ‘90 ed i primi anni del nuovo millennio. Si trattava di attaccanti tutti riconoscibili sia per caratteristiche di gioco che per aspetti estetici: il numero 9 di quegli anni si distingueva per una fisiognomica ben precisa. Alto, robusto, ma soprattutto con una barba poco curata e capelli lunghi o, in ogni caso, ben raccolti all’indietro con grosse profusioni di gel. 

Gli esempi più importanti di questa categoria sono stati Christian Riganò e Gioacchino Prisciandaro, letteralmente due icone della terza e quarta serie italiana, capaci di esaltare tante piazze del Sud Italia a suon di reti e di sponde di testa prima di diventare famosi al pubblico mainstream con le maglie rispettivamente di Fiorentina e Cremonese.

Christian Rigano con la maglia dell'Empoli
Christian Riganò rappresenta il perfetto identikit del modello di numero 9 italiano (Foto: PACO SERINELLI/AFP via Getty Images – OneFootball).

Questi giocatori, dalla cui evoluzione è nato il mito di Luca Toni, hanno rappresentato l’aspetto arcaico del centravanti, ossia colui che deve lottare contro lo stopper avversario per tramutare in gol il possesso della propria squadra, un aspetto che ha portato ogni calciatore alto più di 190 cm ad essere etichettato con queste caratteristiche e sfruttato per tenere in vita un tipo di calcio sparagnino basato su lanci lunghi e tanta lotta, sperando nella vittoria del duello.

Tuttavia, il calcio contemporaneo ed anche l’evoluzione fisica degli esseri umani ha reso questo paradigma presto molto vetusto, per cui assegnare ad un numero 9 alto di statura il solo compito di andare a vincere i duelli aerei rappresenta una visione che rischia di mettere a repentaglio la carriera ad alti livelli di diversi giocatori, oltre che poco produttiva la scelta per il club che sceglie di affidarsi ad un calcio fatto di soli duelli aerei con pochi giocatori portati in attacco.

Gli esempi recenti di Scamacca, Lucca e Pinamonti rappresentano in maniera concreta il rischio a cui andiamo incontro: si tratta di tre giocatori dalla struttura fisica importante che, però, portano nel loro bagaglio tecnico un set di giocate e di movimenti diverso da quello della punta a cui affidare i palloni lunghi e sfidare a duello i difensori avversari. Questo equivoco ha rischiato di rallentare la crescita di questi giocatori che, in questa estate, hanno avuto modo di diventare protagonisti di storie di mercato con i loro trasferimenti al West Ham, all’Ajax ed al Sassuolo.

Anche la serie A, dopo anni di arretratezza, ha finalmente abbracciato l’idea che i compiti del numero 9 sono cambiati, per cui anche nel nostro campionato cominciamo a vedere diversi esempi e situazioni in cui la punta viene sfruttata con compiti diversi che ne mettano in risalto le caratteristiche.

Il numero 9 e la ciclicità del calcio

La storia del calcio ci ha messo sempre di fronte ad una serie di eventi che sembravano porre fine alla carriera di giocatori con caratteristiche molto precipue. Negli anni in cui il 4-4-2 sembrava essere il modello di gioco incontrovertibile era toccato ai fantasisti a finire a rischio estinzione; con la rivoluzione del calcio posizionale, invece, i numeri 10 sono tornati a splendere sui campi da gioco ma, allo stesso tempo, facendo passare come fuori moda i numeri 9.

Le evoluzioni del calcio sono come quelle della moda: un capo d’abbigliamento che siamo stati costretti a riporre nei punti più oscuri dei nostri armadi ad un certo punto torna al centro delle sfilate dei principali stilisti ed allora corriamo a riprenderlo ed indossarlo, compiacendoci di averlo conservato anziché mandarlo in discarica.  

Sta succedendo la stessa cosa con i numeri 9, gli allenatori si sono resi conto che lo spazio non sempre può essere il proprio centravanti, ma allo stesso tempo hanno compreso la lezione che avere un centravanti vero non significa avere una scorciatoia offensiva che porta ad impigrire la manovra offensiva. 

Autore

Cresciuto con l'amore per la Samp di Vialli e Mancini e della curva Nord dello stadio San Nicola. Da grande trasformo il mio tifo in passione per lo sport, la tattica e la performance analysis. Giochista convinto.

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