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L’Italia di Bearzot ha un posto nella storia del calcio

Se vogliamo fare una classifica tra gli eventi che hanno ispirato la letteratura e la cinematografia sportiva, la vittoria dell’Italia ai Mondiali del 1982 rientra nell’immaginario collettivo in un podio ideale assieme all’Italia-Germania 4-3 dell’Azteca e il match di pugilato tra Mohammed Alì e George Foreman a Kinshasa.

Rispetto agli altri due eventi, il Mondiale di Spagna non è rappresentato da un’unica partita o un’unica sfida, bensì da una concatenazione di eventi in campo e fuori che lo ha reso ancora di più un soggetto ideale per della magnifica narrativa. Ma oltre alle connotazioni letterarie e aneddotiche di quel Mondiale, è opportuno rivisitare quell’impresa nel contesto dell’evoluzione tecnica e tattica del calcio.

La vittoria dell’Italia di Bearzot rappresentò un passaggio impattante sul gioco del calcio negli anni successivi. La sfida degli anni ’70 con il calcio totale olandese e la fantasia al potere brasiliana da una parte ed il calcio più classicista italiano e tedesco dall’altra, fu vinto da quest’ultimi mettendo un punto ad un’epoca calcistica.

Il calcio italiano rivisto da Bearzot

Enzo Bearzot prese le redini della nazionale italiana dopo la fine dell’era Valcareggi, quella che ci portò alla finale del mondiale del Messico nel 1970 e la vittoria dell’Europeo di due anni prima (un successo bissato solo un anno fa nella notte di Wembley). 

Ma già in quel Mondiale, il goal subito in finale per mano di Carlos Alberto aveva mostrato i limiti di un sistema basato su marcature rigide a tutto campo che portava la squadra a disordinarsi sul rettangolo di gioco. Il raggiungimento della finale, tuttavia, unito al successo del 1968, era bastato a non porsi la necessità di cambiare qualcosa nel modo di pensare calcio da parte dell’Italia.

Così, il mondiale del 1974 in Germania mostrò quanto in quei 4 anni il calcio italiano fosse rimasto intrappolato nei suoi successi passati, mentre il mondo ammirava estasiato l’arancia meccanica olandese. In un calcio fatto di forme sinuose, l’Italia continuava a restare fedele alla propria rigidità tipica delle prospettive dei suoi quadri rinascimentali.

Con l’arrivo del tecnico friulano sulla panchina, arriva un passo in avanti a livello tattico: la risposta “reattiva” al calcio fluido proposto dalla scuola olandese e brasiliana è quella della zona mista, utilizzata da diversi allenatori in Italia ed in Europa allo scopo di adeguare la fase difensiva all’impossibilità di seguire a tutto campo gli avversari senza lasciare spazi attaccati da altri giocatori.

Con il passaggio alla zona mista si toglie ai difensori l’onere di inseguire i propri uomini a tutto campo per farlo, invece, in zone specifiche,  permettendo di non perdere il contatto con il proprio uomo in marcatura quando necessario – un aspetto su cui i difensori italiani eccellevano – ed allo stesso tempo mantenere una certa compattezza posizionale evitando di spostare troppo le pedine a difesa dell’arrocco.

La zona mista diventerà l’evoluzione del “Sistema” italiano basato sul catenaccio e prenderà il nome di “Gioco all’italiana”. In linea con la tendenza politica di quelle stagioni, l’Italia di Bearzot sceglie una soluzione di compromesso per non restare indietro a livello calcistico.

Si riconosce la necessità di dare maggiore importanza all’occupazione degli spazi sul campo, ma allo stesso tempo senza cedere del tutto alle sirene della zona pura che si affaccerà con insistenza solo qualche anno dopo nel calcio italiano.

L'atteggiamento offensivo dell'Italia di Bearzot in occasione del goal di Tardelli
L’iconico goal di Tardelli mostra anche un passo in avanti a livello offensivo, con 6 giocatori in attacco di cui due difensori (Scirea e Bergomi).

Bearzot verrà seguito anche da gran parte degli allenatori italiani dell’epoca, uno su tutti Giovanni Trapattoni che plasma la Juventus ad immagine e somiglianza di quel pensiero calcistico. Quella Juventus sarà l’ossatura di una squadra che Bearzot inizierà a plasmare con il mondiale di Argentina del 1978 per poi portare avanti il lavoro fino alla kermesse spagnola, il tutto in nome non solo dell’aggiornamento tattico di cui sopra, ma anche in nome di una gestione concettualmente nuova della nazionale.

La nazionale è una squadra o una selezione?

Quando si parla di nazionale di calcio uno dei quesiti ancora insoluti sul tavolo è quello relativo alla sua definizione: da una parte c’è chi ritiene che debba essere una pura selezione dei migliori giocatori appartenenti calcisticamente a quella nazione e chi, invece, ritiene che le nazionali non possano prescindere da un’idea di squadra e che in base a come si voglia costruirla debbano essere scelti calciatori adatti.

L’Italia seguiva prevalentemente la logica di portare in maglia azzurra i giocatori migliori in base alle indicazioni che dava il campionato italiano; si narra anche di come alcuni commissari tecnici nello scegliere i giocatori dovessero applicare una sorta di manuale Cencelli per ben distribuire i convocati tra le tre grandi del calcio italiano a cui aggiungere pezzi da altre squadre. Il termine selezione, quindi, non nasce neanche per caso.

A facilitare questo approccio vi era la totale assenza di varianza tattica nel nostro calcio: qualsiasi giocatore poteva essere eleggibile a coprire uno slot se le sue prestazioni in campionato fossero state superiori alla media. Questo rendeva la nazionale un mero specchio dei valori della serie A, e non facevano eccezione le altre principali nazionali europee.  

Con l’approdo di Bearzot sulla panchina azzurra il paradigma cambia. Il tecnico friulano mette il gruppo al centro di tutto scegliendo un blocco di giocatori di cui fidarsi ed attorno al quale muovere il resto della squadra per tutto il corso del suo mandato. 

Quel blocco era composto dai giocatori della Juventus del Trap: un difensore forte in marcatura (Claudio Gentile), un libero in grado di far partire l’azione con visione di gioco (Gaetano Scirea), un centrocampista in condizione di poter compiere entrambe le fasi (Marco Tardelli), un terzino capace di spingersi in avanti (Antonio Cabrini) ed un attacco che sappia connettersi ed arrangiarsi in alcune situazioni con due attaccanti in grado di muoversi sul fronte d’attacco e di saper trovare la porta (l’identikit di Paolo Rossi e Roberto Bettega).

A questo blocco Bearzot aggiunge elementi come Bruno Conti – uno dei tre giocatori italiani più tecnici mai esistiti? – e Giancarlo Antognoni a coprire la quota fantasia della squadra, un collante come Gabriele Oriali a protezione della difesa e due attaccanti di movimento come Ciccio Graziani e Spillo Altobelli a spalleggiare Paolo Rossi.

Da questo template Enzo Bearzot non si è mai discostato, a nulla sono servite le prestazioni importanti in campionato di altri giocatori del calibro di Evaristo Beccalossi e – soprattutto – Roberto Pruzzo, il miglior cannoniere esistente in Italia ai tempi. Per la prima volta nella storia del calcio italiano, un commissario tecnico decide che la nazionale deve essere una squadra e che quella è la miglior soluzione percorribile per arrivare a qualcosa di buono.

L'Italia di Bearzot che alza al cielo la Coppa del Mondo
Alla fine la scelta di puntare sul gruppo da parte di Bearzot ha funzionato. (Foto: Allsport/Getty Images – OneFootball)

Probabile che l’origine della scelta di Bearzot nasca dalle esperienze complicate del suo predecessore in panchina, chiamato a dover far convivere Mazzola e Rivera in Messico, o raccogliere gli strali pubblici di Giorgio Chinaglia nel mondiale tedesco quattro anni più tardi, preferendo, quindi, avere un gruppo compatto in grado di seguire con continuità un certo tipo di lavoro. 

Fu una scelta molto più rivoluzionaria di quanto non si possa pensare, nel paese dove le decisioni più importanti venivano prese con il compromesso come unica soluzione al tutto. E come possiamo vedere anche nei giorni nostri, proporre qualcosa di nuovo in Italia significa esporsi al fuoco di fila dell’opposizione al cambiamento, e questo spiega il pessimismo, anzi l’ostracismo, nei confronti di quella Nazionale prima di quel Mondiale.

L’Italia dell’82 ha cambiato il calcio?

Nel racconto di quel Mondiale c’è indubbiamente un evento pivotale che cambia tutta la storia: esiste un prima Italia-Brasile 3-2 ed un dopo Italia-Brasile 3-2. Prima di quella partita il futbol bailado della selezione verdeoro sembrava destinato a far muovere il gioco del calcio in una direzione dove si sarebbe giocato per segnare un goal in più dell’avversario anziché subirne uno in meno ed esaltare il valore ludico del gioco ancor prima dell’aspetto competitivo.

Ma, ancora una volta, la particolarità di una competizione come i campionati del mondo riuscì nell’impresa di sovvertire un destino scontato: era già successo alla grande Ungheria nel 1954 ed all’Olanda del calcio totale venti anni dopo. Per la terza volta nella storia dei Mondiali il calcio progressista, tecnico ed innovativo veniva sconfitto da quello più conservativo e conservatore.

Italia-Brasile fu una partita ricca di emozioni e di colpi di scena, una partita talmente presidiata dai racconti che anche chi non l’ha vissuta in prima persona ne conosce ogni piccolo dettaglio. Per questo possiamo dire che quella partita poteva terminare con qualsiasi risultato, ma terminò con la vittoria dell’Italia. Ed alla fine tocca sempre al risultato il compito di lasciare il segno sul prosieguo della storia del calcio. 

L'esultanza della nazionale di Bearzot al fischio finale di Italia-Germania Ovest
La reazione di Gentile al fischio finale di Coelho (Foto: STAFF/AFP/ Getty Images – OneFootball).

Il resto del cammino dell’Italia in quel Mondiale fu praticamente una discesa fino al triplice fischio di Arnaldo César Coelho (un arbitro brasiliano, ironia della sorte) a cui fu corrisposto il triplice “Campioni del Mondo” di Nando Martellini. Fu il trionfo della restaurazione tattica sul calcio totale. La zona mista di Bearzot trovò le contromosse per far emergere i difetti del futbol bailado dei brasiliani, l’equilibrio riuscì a trovare ancora una volta il modo per rendere perdente la fantasia.

Tutti avevano lo stesso sistema e questo si rifletteva rigidamente nei numeri indossati dai giocatori. Il numero 9 era il centravanti, 11 era la seconda punta che attaccava sempre da sinistra, 7 il tornante a destra, 4 il centrocampista centrale basso, 10 il trequartista centrale e 8 il centrocampista di collegamento, solitamente sul centro sinistra, lasciando spazio alla spinta del numero 3, il terzino sinistro. Tutti marcavano uomo contro uomo, quindi era tutto molto prevedibile: il 2 sull’11, il 3 sul 7, il 4 sul 10, il 5 sul 9, il 6 era il libero alle spalle di tutti, il 7 sul 3, l’8 sull’8, il 10 sul 4, il 9 sul 5 e l’11 sul 2

Come descritto ne La Piramide Invertita di Jonathan Wilson, il successo del gioco all’italiana proposto da Bearzot ha determinato una reazione olistica nel mondo del calcio: il sistema basato sul 3-5-2 e la zona mista divenne il riferimento tattico per tutto il decennio, un riferimento talmente forte da rendere il calcio mondiale totalmente omologato a questo tipo di schieramento tattico. 

Gli schieramenti tattici delle squadre dopo il mondiale vinto da Bearzot
Ecco esemplificato il concetto espresso da Jonathan Wilson, magari da osservare con nelle cuffie “Cosa resterà degli anni ’80” di Raf.

Ad inasprire questa sensazione vi è stata la reazione del calcio brasiliano che, a seguito del 3-2 subito per mano dell’Italia, decise di chiudere in un cassetto i propositi di calcio da sambodromo per costruire delle squadre più equilibrate e verticali con due centrocampisti di protezione messi al posto di due fantasisti. La vittoria nel Mondiale del 1994 rappresenterà il momento in cui i brasiliani si scrolleranno di dosso quella delusione per poi cercare di proporre nuovamente il calcio pregno di numeri 10 negli anni successivi, per poi tornare nuovamente indietro dopo la delusione di Germania 2006. Ancora una volta tutto gira intorno al risultato.

Ci accorgeremo di questo plafonamento strategico nelle successive competizioni internazionali, con il momento culminante che giunse con il mondiale italiano del 1990 vinto dalla Germania Ovest e l’Europeo del 1992 vinto dalla Danimarca. Ma più che tedeschi e danesi, i veri vincitori di quelle competizioni furono la noia e l’allergia nei confronti di un calcio propositivo.

La storia del calcio, in virtù dei cicli di vichiana memoria, era tornata allo stesso punto degli anni ‘20 del novecento, in cui si decise di modificare la regola del fuorigioco per fermare l’emorragia di 0-0. A cavallo tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90 il calcio si ritrovò nella stessa situazione, e, per ovviare a questa deriva, la FIFA decise di introdurre la nuova regola sui retropassaggi e, poco dopo, l’introduzione dei tre punti a vittoria in tutte le competizioni. Fu quindi necessario un intervento normativo per bandire l’eccesso di prudenza dai campi da gioco.

Dopo quel Mondiale Zico affermò che il calcio era morto, un’affermazione frutto della delusione per l’inattesa eliminazione (una rosicata, per usare termini più di uso comune oggi) ma che dieci anni dopo mostrerà tutto il suo valore. Il calcio non rischiò di morire, ma si era ammalato in maniera preoccupante. E tutto ciò a causa di una partita che poteva terminare con qualsiasi risultato. 

Il lascito di Bearzot alle nazionali contemporanee

Lasciamo in sottofondo le immagini di Dino Zoff che alza la coppa ed il presidente Pertini che dice “non ci prendono più” e torniamo ai giorni nostri. A distanza di 40 anni il calcio si è evoluto e la zona mista è stata soppiantata dalla zona pura e, in un cerchio che non si chiude mai, la marcatura a uomo sta tornando di moda.

Primo piano di Dino Zoff che ha anche ereditato la panchina della nazionale da Bearzot
Dino Zoff da commissario tecnico della Nazionale è stato a pochi secondi da succedere a Bearzot come vincitore di un trofeo internazionale sulla panchina azzurra (Foto: Claudio Villa /Allsport – Getty Images – OneFootball)

Ma cosa è successo alle Nazionali? Il calcio si è mosso ad una velocità talmente elevata da creare un uragano che ha travolto le rappresentative, minacciate costantemente dai club più ricchi che le considerano come un clochard invitato ad un ricevimento reale. 

Gli spazi a disposizione dei commissari tecnici si è compresso a dismisura, e qui è tornato utile il lascito delle scelte di Enzo Bearzot. Non potendo avere tempo per amalgamare tante individualità selezionate qua e là in base alle indicazioni del calcio di club, gli allenatori hanno scelto di virare dalla definizione di selezione nazionale a quella di squadra nazionale, allo scopo di massimizzare la qualità del lavoro svolto a dispetto dei pochi allenamenti a disposizione.

L’esempio di Roberto Mancini che ha costruito un gruppo basato su una certa identità di gioco in linea con i dettami tattici più moderni, è replicato oggi da altri commissari tecnici che stanno costruendo delle nazionali basate su un’identità di gioco precisa i cui interpreti sono chiamati in base alla funzionalità a quel contesto. Un altro esempio ben visibile è quello di Luis Enrique in Spagna o Gareth Southgate in Inghilterra, ma è sufficiente osservare qualsiasi nazionale oggi per notare che la gran parte di esse hanno un’impronta ben definita a livello federale.

E’ anche grazie a Bearzot ed a quella nazionale, quindi, che i commissari tecnici hanno potuto iniziare a fare a meno di giocare al piccolo chimico per centellinare la giusta dose di giocatore per ogni club. E fa sorridere pensare che chi paventa la necessità di tornare alle selezioni innalzi a modello il calcio di Bearzot, l’uomo che quel concetto ha iniziato a cambiarlo.

Autore

Cresciuto con l'amore per la Samp di Vialli e Mancini e della curva Nord dello stadio San Nicola. Da grande trasformo il mio tifo in passione per lo sport, la tattica e la performance analysis. Giochista convinto.

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