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La carriera di Dani Parejo è stata per certi versi burrascosa, piena di soddisfazioni certo, ma anche di stop improvvisi e ripartenze inaspettate. Un paradosso per uno che in campo è così cerebrale, preciso, anche un po’ compassato. Al Villareal il centrocampista ormai trentaduenne sta vivendo quasi una seconda giovinezza. Emery lo ha trasformato nel direttore d’orchestra perfetto e perno principale del proprio gioco, in un asse inossidabile che parte da Pau Torres e arriva in avanti a Gerard Moreno. Un sistema che ha portato alla vittoria dell’Europa League e ai quarti di finale di Champions, destando stupore negli appassionati. Per Parejo, che in carriera ha raccolto meno di quanto meritava, l’occasione di potersi mettere in mostra su palcoscenici così importanti rappresenta quasi la correzione di un’ingiustizia.

Il 12 agosto del 1970 è il giorno in cui venne fondato il Paris Saint-Germain, nato dalla fusione tra Stade Saint-Germain e Paris Football Club. Stiamo parlando di un giorno di neanche cinquantadue anni fa, il che ci fa capire quanto sia effettivamente giovane il Paris Saint-Germain rispetto alle grandi squadre che da sempre siedono al tavolo dei migliori, quello a cui sta cercando di accomodarsi il club francese dalla venuta degli emiri ormai una decina d’anni fa. Quando il PSG fu fondato, in una giornata d’estate di mezzo secolo, il Real Madrid aveva già vinto sei Champions League. E oggi, solo il Milan, il Bayern Monaco e il Liverpool hanno vinto più di cinque Champions League in tutta la loro storia. Basterebbe questa introduzione per spiegare la dura legge secondo cui ieri sera il Real Madrid è passato ai quarti di Champions e il PSG è tornato a casa mestamente, ma sarebbe troppo poco.

 

Quello che è successo ieri sera non è la prima volta che lo vediamo in tempi recenti. Le ultime edizioni della Champions League sono state tutte segnate da grandi rimonte, manco a farlo apposta ai danni anche degli stessi Real Madrid e Paris Saint-Germain. È come se negli anni si sia instillato un piacere masochistico in alcune squadre, che perdono le partite d’andata, si infilano in dei vicoli ciechi e apparentemente si uccidono con le proprie mani, prima di rinvenire con un trucco da prestigiatore e umiliare i malcapitati di turno che stavano per batterli. Eppure, quello che è successo ieri sera al Santiago Bernabeu, è unico a suo modo.

 

Per chi ha visto la partita d’andata, i temi di discussione sono stati due: il primo non poteva non riguardare la decisione dell’UEFA di abolire la regola dei goal in trasferta, subito giudicata come errata, poiché ha tolto spettacolarità alle partite d’andata; il secondo tema, invece, riguardava l’opacità della prestazione dei blancos, apparsi incapaci di contenere un Paris Saint-Germain semplicemente sfavillante, il cui alfiere altro non è che l’ultimo figlio della Francia multietnica che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi vent’anni, Kylian Mbappé, un giocatore evidentemente venuto dal futuro, i cui strappi sono fisicamente irreali, capace di giocate proprio come quella dell’andata: una serpentina nemmeno vista da Militão e Lucas Vázquez, un tiro secco e un goal in grado di gelare letteralmente le merengues al minuto novantaquattro.

 

Le premesse sembravano le stesse anche ieri sera, tant’è che quest’articolo inizialmente doveva essere dedicato all’asso francese con il numero 7 sulla schiena – uno che il 7 è destinato a onorarlo per tutto il resto di questo decennio e parte del prossimo, con buona pace del suo legittimo proprietario portoghese, ormai pronto a passare lo scettro -, marcatore del goal del vantaggio parigino alla fine del primo tempo e, in generale, autore di cose difficilmente spiegabili a parole, come certi scatti felini da mal di testa. Solo con una spallata, un contrasto o una scivolata potevi contenere Mbappé ieri sera, e il fatto che non sia neanche più una novità rende allucinante il tutto. Mbappé, di fatto, fa questo: lascia perplessi, e certamente continuerà a farlo anche quando la sua divisa sarà quella della squadra che stava per battere poche ore fa.

Mbappé che scatta, tanto per cambiare. (Foto: GABRIEL BOUYS/AFP via Getty Images – OneFootball)

Dopo l’intervallo, il Real Madrid alza la pressione, inizia a caricare e succede qualcosa. C’è un detto a cui tengo molto, che sento particolarmente mio:”La fortuna aiuta gli audaci”. Sembra sia vero, perché al 61′ Donnarumma fa un pasticcio che sono certo gli sarà costato una nottata insonne – oltre che una mezz’ora buona di forte inquietudine -, un errore non da lui. Con un ambiguo moto d’orgoglio cerca di dribblare Benzema nella sua area piccola, ma gli va male, e nel tentativo di spazzare via la palla la consegna al rapace Vinícius Júnior. Poi, con passo cadenzato, come se non avesse appena rischiato di prendere il goal del pari, ritorna in porta giusto in tempo per vedere la palla arrivare sul mancino di Benzema, che da pochi passi insacca con facilità.

 

In quel momento, il fuoco fatuo che alimenta lo spirito dei giocatori del Real Madrid divampa paurosamente, e rompe la normale andatura dell’incontro. A fine primo tempo, il PSG sembrava già ai quarti di finale di Champions League, ma è bastata una leziosità del suo portiere per rimettere tutto quanto in dubbio. E il Real lo ha capito, perché gli avversari hanno perso la bussola, accusando un crollo psicologico tremendo, di quelli che solo stadi – templi, anzi – come il Santiago Bernabeu sanno dare, nonostante le impalcature (per le ristrutturazioni che sta ancora subendo) a imballarlo. Il fattore tifo ha fatto molto ieri, perché sono certo che a porte chiuse avremmo assistito a una partita diversa almeno in parte.

 

Qualche giorno fa, il 6 marzo, ricorreva il centoventesimo anniversario dalla fondazione del Real Madrid. La storia del Madrid è quella di una squadra che realmente non ha bisogno di presentazioni alcune. Voglio dire, è il Real Madrid. Ci hanno giocato praticamente tutti i più grandi, e così sarà ancora per tanto tempo, forse per sempre. Ci hanno giocato tutti i più grandi, e ci hanno vinto. Il 24 maggio 2014 il Real Madrid si è giocato l’ennesima finale di Champions della sua storia, per la prima volta contro i rivali dell’Atlético Madrid. Quella è stata una partita molto simile a quella di ieri col PSG, perché ci ha ricordato l’importanza capitale dell’esperienza, dell’aver vissuto più e più volte determinate situazioni, dell’esserci già stati su certi palchi. Quando il Real ha riacciuffato la partita prendendola per i capelli all’ultimo secondo dei tempi regolamentari con la leggendaria zuccata di Sergio Ramos, dopo essere stato tutto il match sotto 1-0, si era capito che quella notte il Madrid avrebbe alzato la Coppa dalle grandi orecchie per la decima volta, dodici anni dopo Glasgow 2002 . Perché non possiamo prenderci in giro a riguardo, l’esperienza fa tutta la differenza del mondo. E se il Real Madrid aveva già vinto sei volte l’ambito trofeo al 12 agosto 1970, in nessun universo il Paris Saint-Germain avrebbe potuto superare gli ottavi di Champions League contro i blancos.

Il momento del goal di Sergio Ramos nella finale di Lisbona contro l’Atlético Madrid, assurdo a suo modo come l’1-1 di Benzema di ieri sera. (Foto: Laurence Griffiths/Getty Images – OneFootball)

Mai sottovalutare il cuore dei campioni” dice incredulo Massimo Ambrosini, al commento ieri sera dopo il terzo goal dei padroni di casa. Un monito per tanti, che ammaliati dal luccichio della costellazione PSG avevano già dato per morto un club che la pratica nazionale, quest’anno, l’ha archiviata già alla fine del girone d’andata – addirittura otto i punti di vantaggio sul Siviglia secondo in Liga. Il Real Madrid non è una compagine normale perché è allenata da Carlo Ancelotti, fin troppo screditato nelle ultime stagioni, sebbene abbia vinto la Champions League addirittura tre volte (per ora). Il Real Madrid è tutt’altro che comune, perché ieri sera ha vinto senza Casemiro, senza Marcelo, senza Sergio Ramos, Navas, Cristiano Ronaldo o Gareth Bale. L’età è passata per tutti questi, e per altri è anche cambiata la casacca. Ma il discorso non vale per Toni Kroos, per Karim Benzema o Luka Modrić, per Carvajal o anche per Nacho Fernández.

 

Non è la stessa cosa perché quella coppa loro la conoscono in tutti i suoi angoli: l’hanno sofferta, lottata e vinta tre o quattro volte. Ieri Modrić ha giocato una partita monumentale, da dieci in pagella. Talvolta i giocatori come lui sono poco appariscenti, fanno tanto per la squadra ma poi risaltano meno di quanto meritino – come Verratti, ieri perfetto fino al crollo dei suoi. Ieri no: Modrić fino all’ultimo secondo era a pressare, a rincorrere e recuperare ogni palla, a essere decisivo nella sua metà campo come in quella opposta. Vinícius invece sembrava l’opposto del giocatore immaturo arrivato dal Flamengo nel 2018. Ha cambiato la partita con i suoi allunghi, è stato indispensabile in due dei tre goal della sua squadra, ha macinato chilometri sulla fascia sinistra finché i crampi non l’hanno azzoppato. Valverde e Camavinga, il nuovo che avanza, a loro toccheranno le chiavi del centrocampo madridista tra pochi anni, anche loro sempre pronti, sempre attenti, costantemente sul pezzo.

 

Poi, sua maestà Benzema: per anni, all’ombra di Cristiano Ronaldo, sembrava sì un grande attaccante, ma anche uno dei tanti. Poi lo abbiamo scoperto davvero. La tripletta di ieri non lascia dubbi su chi sia il numero nove migliore del mondo. Decisivo sempre, determinante ovunque, tecnica sopraffina e precisione chirurgica al servizio della squadra. Benzema è pervaso della stessa nobiltà di cui è fatta la camiseta blanca che onora dal lontano 2009, quando arrivò dal Lione con tanto hype addosso e prese in carico un’atipica maglia numero undici. Sembra passata una vita, eppure Benzema è ancora lì a picchiare, sembra fregarsene degli anni che volano. Nelle ultime quattro stagioni è sempre andato oltre i venti goal stagionali, palesando come CR7 limitasse eccessivamente il suo killer instinct. Ieri ha fatto quello che doveva, e ha anche raggiunto quota trecentonove goal col Real, diventando il terzo miglior marcatore di sempre dei merengues. Quanto può essere immenso, infinito un giocatore di calcio?

Benzema indica lo stemma del Real Madrid come fosse un segno d’appartenenza. (Foto: GABRIEL BOUYS/AFP via Getty Images – OneFootball)

È tutta qui la differenza tra chi supera gli ottavi di Champions in rimonta, sorretto dal suo eterno numero nove e i suoi scudieri senza tempo, e chi torna a casa con la coda fra le gambe, conscio di non aver fatto abbastanza, con tutti i rimpianti, i se e i ma del caso. Che non possono reggere, perché il PSG schierava in campo Neymar, Mbappé, Messi, Di María, Verratti, Hakimi, Paredes, Marquinhos, Kimpembé e Donnarumma, tutti insieme, a un certo punto della gara. Tra questi, titolari della Francia campione del Mondo quattro anni fa, addirittura cinque Champions League tra la Pulce, O’Ney e il Fideo, e perfino sette Palloni d’Oro, per non dilungarci oltre. Ma ancora una volta, i soldi non hanno potuto comprare il patrimonio più grande: l’identità.

 

Perché il PSG l’identità l’ha fatta in casa, spendendo tanto – lungi da me far loro la predica per questo – ma vincendo quanto? Non abbastanza, questa è la risposta. E se i giocatori possono farti vendere le magliette, riempirti gli stadi o farti sorridere la domenica, il denaro che li paga e ti permette di schierarli in campo come figurine non potrà mai vincere i titoli che contano, non potrà mai acquistare l’identità e il DNA forgiati dalle vittorie più importanti, quelle di cui si nutre il Real Madrid sin dal principio. La lezione che ha imparato ieri il Paris Saint-Germain forse è addirittura ingenerosa, perché ci è già passato tante volte da queste batoste imbarazzanti, come nel 6-1 col Barcellona del 2017. Nonostante tutto, c’è qualcosa che continua a opporsi tra il PSG e la gloria eterna, e sembra qualcosa di davvero ultraterreno, che non dipende proprio dal campo o da chi lo calpesta. Se esci (male) tutti gli anni dalla Champions League, forse è la dea Eupalla che vuole che tu esca (male) tutti gli anni. E questa lotta maledetta il PSG forse non potrà vincerla mai.

Atletico Madrid-Manchester United ha una genesi a dir poco unica. Lo scorso 13 dicembre la UEFA andò incontro ad una delle più grandi figuracce a livello planetario e l’Atletico Madrid fu la squadra che scoperchiò il grande pasticcio, dopo che il sorteggio le aveva messo di fronte il Bayern Monaco di Nagelsmann all’interno di una serie di opzioni che includevano il Liverpool, squadra che i colchoneros avevano affrontato già nel girone eliminatorio. Le immagini non lasciano scampo ai funzionari dell’UEFA, il sorteggio è tutto da rifare.

Le urne dei sorteggi di Champions League sanno essere ironiche e spietate, e neanche questa volta hanno fatto eccezione. Martedì al Parco dei Principi, nel turno di andata valevole per gli ottavi, si sfideranno Paris Saint-Germain e Real Madrid. Una partita attesissima per il valore assoluto delle due squadre, entrambe tra le favorite alla vittoria finale, e per il passato di alcuni dei protagonisti in campo, dall’ex Di Maria a Leo Messi, che al Real con la maglia del Barcellona ha fatto molto male a più riprese. Eppure i riflettori saranno principalmente puntati su un altro uomo di punta dei parigini, Kylian Mbappé.

Dopo la conquista di un titolo francese che rimarrà nella storia, le incognite inerenti a quello che sarebbe stato il cammino del Lille Olympique Sporting Club da campione in carica erano tante. Gli interrogativi non riguardavano solo il lato sportivo, ma anche quello dirigenziale. Il primo aveva una doppia causa: l’addio di Christophe Galtier ed il presunto “esodo” di talenti che avrebbero lasciato la città del Beffroi. Il secondo era invece incentrato sul cambio di rotta iniziato nel dicembre 2020, quello che aveva portato Olivier Létang a diventare presidente del club dopo Gérard Lopez. A sei mesi di distanza, fra traguardi storici e scelte discutibili, risulta ancora faticoso valutare il nuovo LOSC per poterne delineare il percorso futuro. Viaggio tra le mille sorprese che Les Dogues potrebbero regalarci in questa stagione.

Se in giro nei salotti (virtuali e non) in cui si parla di calcio si chiedesse quali sono i campionati che più facilmente sfornano talenti difficilmente il nome della Jupiler Pro League (la prima lega belga) uscirebbe dalla rosa dei primi tre-quattro nominati. Eppure da essa provengono alcuni dei talenti più luminosi dell’ultimo decennio, basti pensare ad uno come Kevin De Bruyne, o a tre nomi molto familiari a noi italiani: Koulibaly, Milinkovic-Savic e Malinovsky provengono non a caso tutti e tre da lì. Le squadre della Jupiler, hanno infatti sia una rete di scouting formidabile che cerca calciatori nei campionati di quarta-quinta fascia o nelle academy in giro per il Mondo, sia settori giovanili di grandissimo spessore per infrastrutture e modo di rapportarsi coi giovani. Proprio a mostrare queste due facce della medaglia è la provenienza del duumvirato in forza al Club Brugge, che in questo momento sta rubando gli occhi di mezza Europa, affettando le difese avversarie sia in campionato che in campo europeo.

È trascorso circa un mese dal primo storico gol di Lionel Messi segnato in Champions League con la maglia del Paris Saint-Germain. Una rete realizzata indossando la maglia numero 30, le stesse due cifre presenti sulla schiena dell’argentino in occasione del primo gol in carriera con la prima squadra del Barcellona. Insomma, un segno della ciclicità del tempo.

Dopo otto lunghi anni di esilio, il Milan si è finalmente riaffacciato alla sua amata Champions League. Per l’occasione, il destino ha offerto ai rossoneri il teatro di Anfield, uno stadio dove nemmeno Paolo Maldini ha mai avuto la fortuna di difendere i suoi colori. Nel prepartita, il dirigente milanista, da sempre maestro zen nella gestione delle emozioni, è apparso visibilmente nervoso. Apprensivo come un padre che accompagna suo figlio ad un incontro importante, Maldini sembrava chiedersi se il suo Milan sarebbe stato all’altezza di quella splendida cornice, di quella squadra travolgente, di quell’atmosfera magica di cui lui si nutriva abitualmente. L’incontro si è rivelato dapprima traumatico, poi illusorio, infine amaro.

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