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Champions League

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Da quando Pep Guardiola ha lasciato la Baviera per accasarsi alla corte degli emiri qatarioti, tante volte abbiamo guardato ai sorteggi di Champions nella speranza di poter vedere prima o poi una contro l’altra City e Bayern, le due formazioni più dominanti dell’intero panorama europeo, nonché le ultime due creature plasmate dal tecnico catalano. Il sorteggio dei quarti di finale di questa edizione della coppa dalle grandi orecchie è venuto incontro finalmente ai nostri desideri ed eccoci qui a commentare la doppia sfida andata in scena tra queste due formazioni.

Se qualificazione sarà, quel settantottesimo minuto di Inter-Porto rischia di diventare uno degli
eventi decisivi. Sospinto da un San Siro in veste da grande occasione, Çalhanoğlu attraversa, saltellando sul piede destro che accompagna il pallone e quello sinistro dietro, trascinato quasi come servisse solo da contrappeso, la trequarti avversaria. Un generoso Otávio si lancia ingenuamente, con la gamba destra lanciata a mo’ di fioretto, alla ricerca del pallone. Ma è completamente in ritardo e prende solo l’uomo. Cartellino giallo. È il secondo. Rosso. Il Porto finirà in 10, ma soprattutto dovrà fare a meno del suo vice-capitano nella ancor più importante gara di ritorno.

L'espulsione di Otavio nella sfida del Porto a San SIro
Quello che potrebbe rivelarsi il momento chiave della doppia sfida tra Inter e Porto (Photo by MARCO BERTORELLO/Getty Images – OneFootball)

Sono bastate quattro partite di Champions League per far partire un processo: le sconfitte di Chelsea, Tottenham e Liverpool ed il pareggio del City sul campo del Lipsia hanno messo sul banco degli imputati la Premier League. Così come una rondine non fa primavera, possono questi risultati negativi fornirci sufficienti prove per affermare che il campionato più ricco del mondo non sia quello tecnicamente più valido?

Cristiano Ronaldo sembra una statua di cera: ha i capelli perfetti, le sopracciglia perfette, la pelle liscia in cui affiorano appena alcune rughe. Non ha più lo stesso fascino belloccio di qualche anno fa ma forse non lo sa. Indossa una giacca che probabilmente un comune mortale non potrebbe neanche vedere, tiene le mani giunte, si accompagna con una gestualità quasi minima. Intorno a lui una stanza che sembra una hall di un albergo.

Can Barça è una casa molto grande. A volte però, più grande è la casa più risulta difficile per chi ci abita prendere le giuste decisioni. E capita che, nonostante i mezzi e le strutture, si commettano degli errori

Basterebbe questa citazione da un articolo di El9Cat dal titolo “la difficoltà di essere profeti in casa propria” per riassumere la situazione che Ferran Jutglà sta vivendo dopo l’esuberante cambio di casacca che lo ha portato dal Barcellona al Club Brugge. E che lo sta facendo diventare in maniera prematura e univoca uno dei più grandi rimpianti della storia recente del club catalano.

L’inizio della Champions League, nella mente dei tifosi italiani, è fissato attorno al 10 di settembre. Le scuole iniziano, le temperature si raffreddano, si iniziano a passare i martedì e i mercoledì sera sul divano. Qualcuno più sfortunato ha visto la sua squadra iniziare – e a volte terminare – il suo percorso in una calda serata di fine agosto, quando ancora le italiane disputavano il play-off. I turni prima? Territorio sconosciuto, che al massimo si incrocia accendendo la tv dell’albergo croato o greco in cui sei in vacanza, che trasmette il preliminare della squadra locale.

La finale di Champions League rappresenta, per attesa e talvolta anche cronologia, l’atto conclusivo di un’intera stagione calcistica. Liverpool e Real Madrid si sfideranno questo sabato allo Stade de France di Parigi, scelto dalla UEFA in sostituzione della Gazprom Arena di San Pietroburgo a causa del conflitto russo-ucraino. Nel calcio è sempre un po’ pretestuoso e presuntuoso parlare di giustizia, ma è indubbio che esista qualche forma di merito nel cammino di entrambe le squadre per continuità, gioco espresso e valori assoluti.

Per tutte le persone, come me, appassionate di calcio e nate nella prima metà degli anni ’90 immaginare una squadra di figurine non è un esercizio complicato. Tutti noi abbiamo vissuto la nostra infanzia col mito di una squadra, formata dalla fame (e dai soldi) di Florentino Perez, che racchiudesse tutti (o quasi) i fuoriclasse dell’epoca in un solo (dream) team. Quella squadra, quel Real Madrid, prese il nome di “Galacticos” e nonostante gli enormi nomi, raccolse meno di altre versioni delle “Merengues”; forse proprio a causa del peso di quella nomea. Il punto più lucente di quella gestione – probabilmente a sentire alcuni madridisti l’unico che vale la pena ricordare – è quello che, esattamente venti anni fa, portò la prima Champions League nella bacheca di Perez. Grazie al gol più bello segnato in una finale, almeno dai tempi in cui ha cambiato nome. Un gol che ha contribuito a mettere a fuoco la grandezza di Zinedine Zidane, il numero 10 più decisivo, in una squadra di numeri 10.

Quando ti viene fischiato un calcio di rigore a favore all’ottantottesimo minuto nel ritorno di una semifinale di Champions League, con la possibilità di portare ai supplementari la contesa, di fronte ai tuoi tifosi, non so se ti passa tutta la vita davanti, ma probabilmente tutta la carriera sì. Chissà quanti ne ha calciati di rigori Juan Román Riquelme nel barrio, quante volte ha spiazzato l’amico di turno nel ruolo del portiere, in qualche potrero trascurato. Si è allenato una vita intera per battere quel rigore, lo stesso che poteva aiutarlo a raggiungere la sua prima finale di Champions League, e poi magari vincerla, per entrare nella leggenda

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