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Danilo Budite

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Berna. 4 luglio 1954. I tifosi prendono d’assedio le tribune del Wankdorfstadion. La pioggia non frena l’entusiasmo degli spettatori europei che finalmente possono tornare ad assistere alla finale di un Mondiale. Sembra passata un’eternità dall’ultima volta. Da Parigi. Allora in campo c’erano Italia e Ungheria e a decidere i match furono Colaussi e Piola, due reti a testa. Era un’altra vita. Un altro mondo. L’Europa era sull’orlo del più grande conflitto mai visto. L’umanità avrebbe conosciuto di lì a breve i drammi più grandi della sua storia. I fascismi. L’olocausto. La bomba nucleare. Come tutte le cose, però, anche quell’incubo è giunto alla sua fine e ora la speranza è tornata a riempire i cuori delle persone che lì, sulle seggiole di quello stadio, si apprestano finalmente a godersi una bella partita di calcio. Non tutto è cambiato, in realtà, rispetto all’ultima volta. Ora l’Europa è divisa in due certo. Ora la Germania unita non esiste più. Ora le guerre si combattono in luoghi remoti del mondo. Tutto è molto diverso, ma una cosa è rimasta immutata dal 1938. L’Ungheria è ancora lì, in finale, desiderosa di conquistare lo scettro del calcio europeo,

Era il 14 ottobre 1894, quando un pasticciere quarantenne, un certo Domenico Melegatti, il cui cognome avrebbe riecheggiato nel tempo, ha cambiato per sempre la tradizione dolciaria italiana. A lui si deve infatti l’invenzione di un dolce che, negli anni a seguire, avrebbe contrassegnato in maniera iconica ogni natale degli italiani. Stiamo parlando, naturalmente, del pandoro, o quantomeno della sua ricetta moderna. Il dolce infatti esisteva già, si chiamava nadalin, ed era sempre originario di Verona e legato al natale. La sua nascita risale al milleduecento e fu adottato per festeggiare il primo natale sotto la celebre famiglia della Scala, dinastia che per più di 100 anni ha regnato in città.

Le origini di questa ricetta si rintracciano però addirittura ai tempi dell’antica Roma. Ne fa menzione il celebre scrittore Plinio il Vecchio, che cita un cuoco capace di preparare un dolce che ricalca in pieno il pandoro. Così, il famoso impasto natalizio arriva fino al 1894 e all’invenzione di Melegatti, il cui riconoscimento ufficiale arriva però solo nel 2012 . Cosa succede allora nel 1894? Domenico deposita il brevetto del pandoro, la cui caratteristica forma di stella a otto punte viene realizzata dal pittore Angelo Dall’Oca Bianca.

Da quel momento, il pandoro diventa uno dei grandi simboli di Verona, al pari di Romeo e Giulietta o dell’Arena. Un vero e proprio patrimonio della cultura culinaria italiana, un retaggio immenso lasciato da Melegatti e dalla città scaligera. Un simbolo, come detto, di Verona, come lo squadrone di Osvaldo Bagnoli, capace di vincere un clamoroso scudetto nel 1985, quasi 100 anni dopo la creazione del celebre dolce. Così, dalla cucina al rettangolo verde di gioco, la suggestione di oggi riguarda Verona, le sue tradizioni e i suoi trionfi. Dall’iconico pandoro alla leggendaria vittoria del campionato.

Le premesse per il trionfo del Verona

Dal 1894 cambiamo l’ordine dei due numeri centrali e spostiamoci nel 1984. È l’estate degli europei francesi, vinti proprio dalla nazionale transalpina, guidata da uno spettacolare Platini, che in finale contro la Spagna va a segno insieme a Bellone e regala il primo successo della storia alla sua Nazionale. È un’estate anonima per l’Italia del calcio che a quel torneo, da campione del mondo in carica,  nemmeno prende parte a causa di un disastroso percorso di qualificazione. Quarto posto alle spalle di Romania, Svezia e Cecoslovacchia. Davanti solo a Cipro, con cui gli azzurri hanno raccolto la loro unica vittoria di questo cammino. Insomma, è un’estate travagliata per il calcio italiano, che con la Roma aveva anche carezzato il sogno di vincere il massimo trofeo continentale. Un’estate dal morale basso, ma illuminata dal sensazionale arrivo a Napoli di Diego Armando Maradona. Uno scossone per tutto il movimento.

Arriviamo così all’alba della stagione 1984-1985, con la Juventus campione d’Italia in carica, le milanesi che cercano stabilità e la Roma intenta a riprendersi dalla delusione della sconfitta in finale di Coppa dei Campioni all’Olimpico contro il Liverpool. Il Verona, quell’estate, è solo un piccolo satellite in un universo sconfinato. Gli scaligeri, però, provano a farsi notare piazzando due colpi molto interessanti. Dal Kaiserslautern arriva Hans-Peter Briegel, campione d’Europa nel 1980 proprio in Italia con la Germania Ovest. Dal Lokeren giunge invece Preben Elkjær Larsen, attaccante seguito anche da Milan e Real Madrid.

Due acquisti di rilievo, in un campionato però dal livello altissimo, difficile da impressionare. Il Verona ai nastri di partenza non era sicuramente nel novero delle favorite, ma talvolta alcune condizioni favorevoli possono creare degli scenari veramente inaspettati.

Una squadra operaia

Negli anni ’80 la Serie A è ciò che di meglio il calcio mondiale ha da offrire. Eppure, all’alba della stagione 1984-1985 le incertezze sono più di quante possono sembrare. La Juventus è reduce dalla vittoria dello scudetto, ma la sua testa è all’Europa e il focus è sulla Coppa dei campioni, diventata ormai una chimera. La Roma ha preso una botta enorme, invece, proprio dalla finale di questa competizione, persa in casa ai rigori in modo dannatamente beffardo, ed è in un momento di smobilitazione. Milan e Inter da anni sono incompiute . Il Napoli ha sì acquistato Maradona, ma è una squadra completamente in costruzione.

In questo contesto si muove il Verona di Osvaldo Bagnoli, nel pieno di un bel processo di crescita. Il tecnico era arrivato alla guida degli scaligeri nel 1981, dopo due anni di B col Cesena, e al primo tentativo ha riportato la squadra nella massima serie. L’impatto con la Serie A è strepitoso: Bagnoli costruisce una squadra “operaia”, con un credo tattico basato sul catenaccio all’italiana, in un’accezione però molto aggressiva e compatta. Nella stagione 1982-1983 il Verona arriva quarto in campionato e secondo in Coppa Italia, l’anno dopo chiude al sesto posto e vive anche l’esperienza di giocare la Coppa UEFA. Nell’estate del 1984 i gialloblù sono una squadra in crescita, con un’ossatura ben delineata, arricchita dall’arrivo dei due grandi talenti stranieri.

Il presidente Celestino Guidotti, storico patron di quel Verona, allestisce una rosa competitiva, senza voli pindarici, ma con colpi mirati e in linea col credo tattico del mister. Punta su giocatori vogliosi di riscatto, confeziona a Bagnoli una rosa corta e funzionale, capace di sfruttare il suo giropalla lento e le repentine verticalizzazioni che chiede ai suoi.

In porta c’è Garella, il “portiere più forte del mondo. Senza mani, però” come lo ha definito il mitico Gianni Agnelli. Davanti a lui il libero Tricella, capitano di quel Verona, uno degli artefici della promozione in A. Il centrale di quella squadra è Silvano Fontolan, mentre sugli esterni ci sono Ferroni, arrivato nell’estate 1983 dalla Samp, e Marangon, il terzino playboy che ha vestito anche le maglie di Roma e Napoli. Antonio Di Gennaro in regia, vicino a lui il pupillo di Bagnoli, Volpati, e a completare il reparto di centrocampo Briegel. Davanti Cavallo pazzo Elkjær Larsen insieme ai due ex juventini Fanna e Galderisi. Questi erano gli unici due membri dell’undici titolare ad aver già vinto il campionato, con la Juventus, ma da comprimari. Poco spazio per Fanna, mentre Nanù è ricordato per una clamorosa tripletta al Milan nella stagione 1981-1982. Per il resto, però, poca roba.

Verona
Osvaldo Bagnoli, il grande artefice del trionfo del Verona
(Photo by Claudio Villa/Getty Images – One Football)

Una partenza col botto

Questo è il Verona che si presenta ai nastri di partenza del campionato 1984-1985. L’esordio è subito avvincente: la sfida col Napoli di Maradona. Nemmeno mezz’ora e Briegel timbra subito il cartellino, mentre qualche minuto dopo replica Galderisi. Nella ripresa i partenopei accorciano le distanza, ma Di Gennaro a un quarto d’ora dalla fine ristabilisce le distanza. I gialloblù vincono e replicano anche con Ascoli e Udinese. Poi all’orizzonte c’è un filotto di partite infernali, che però la squadra di Bagnoli supera alla grande.

Il primo banco di prova è a San Siro contro l‘Inter e il Verona esce dal Meazza con un buon  0-0. Una settimana dopo al Bentegodi arriva la Juventus di Trapattoni e i gialloblù s’impongono 2-0, con la rete dell’ex Galderisi e il famosissimo gol di Elkjær Larsen con annessa la perdita dello scarpino durante l’azione. Il ciclo terrible si completa con lo 0-0 all’Olimpico contro la Roma e col 2-1 interno sulla Fiorentina firmato ancora da Nanu Galderisi.

Dopo sette giornate, la squadra di Bagnoli ha attraversato l’inferno e ne è uscita indenne, con dodici punti su quattordici disponibili e appena tre gol subiti. La difesa si caratterizza subito come l’elemento di forza della squadra e nelle successive due gare infatti Garella non viene mai superato, col Verona che prima vince a Cremona e poi impatta sulla Sampdoria.

Gli ultimi due big match del girone d’andata arrivano a cavallo della fine di novembre e dell’inizio di dicembre. Il Verona supera anche queste due gare alla grande, prima vincendo 1-2 in casa del Torino con le reti di Briegel e Marangon, poi con l’ennesimo pareggio a reti bianche contro il Milan di Nils Liedholm. A questo punto, la strada verso il titolo di campione d’inverno è tutta in discesa.

Il giro di boa

Dopo il pari col Milan, il Verona vince all’Olimpico con la Lazio grazie a un autogol di Podavini, ma poi rallenta bruscamente. Il pareggio con il Como chiude il 1984, quello con l’Atalanta apre il 1985. Poi arriva il primo ko stagionale: il 13 gennaio sul campo dell’Avellino. All’autogol di Volpati rimedia Marangon, ma a cinque minuti dalla fine Colombo firma la beffa e fa conoscere per la prima volta al Verona l’amaro sapore della sconfitta.

La sconfitta non fa perdere la vetta al Verona, che si laurea così campione d’inverno, ma fa avvicinare paurosamente l’Inter. Il pareggio con il Napoli della prima giornata del girone di ritorno, infatti, porta all’aggancio in classifica dei nerazzurri. La favola Verona sembra raffreddarsi, con un rendimento in calo e all’orizzonte nuovamente quel ciclo intenso di gare. Chiunque, se dovesse scommettere le sue mille lire, le metterebbe sull’Inter di Castagner, La squadra di Bagnoli però sa reagire e prima batte 2-0 l’Ascoli, poi nella storica giornata del 10 febbraio 1985 si riprende la vetta.

A Udine va in scena un match a dir poco rocambolesco. In venti minuti i veneti vanno avanti di ben tre reti, con le firme di Briegel, Galderisi ed Elkær Larsen. Sembra l’ipoteca sul match, ma nel secondo tempo si concretizza la clamorosa rimonta dei friulani, che all’ora di gioco riportano il risultato sul 3-3. Il Verona però non ci sta e tempo quattro minuti torna avanti di due lunghezze con le firme ancora del tedesco e del danese. Il pirotecnico 3-5 del Friuli fa da eco al pareggio dell’Inter contro l’Avellino, giudice di questo campionato. All’alba dello scontro diretto e del ciclo infernale di big match, la squadra di Bagnoli è nuovamente avanti e quella gara con l’Udinese è destinata a diventare la copertina del trionfo scaligero.

Verona
A distanza di anni, gli eroi del leggendario scudetto del Verona
(Photo by Dino Panato/Getty Images – One Football)

Fuori dall’inferno

Il 17 febbraio 1985 allo stadio Bentegodi si sfidano Verona e Inter. I gialloblù devono fare i conti con molte assenze e con la voglia di rivalsa dei nerazzurri, che al 39′ sbloccano il match con la rete di Spillo Altobelli. Sembra l’inizio di una tragedia, ma ancora una volta i gialloblù sanno risorgere e a inizio secondo tempo pareggiano con Briegel. L’1-1 finale sa di ossigeno puro per il Verona, che però è atteso ancora da sfide molto probanti.

La squadra di Bagnoli nel turno successivo impatta sulla Juventus con Di Gennaro che pareggia il vantaggio di Briaschi. Poi, il Verona ottiene quattro punti fondamentali battendo di misura la Roma con la rete di Elkær Larsen e rifilando un tris a domicilio alla Fiorentina. I veneti superano così questo ciclo infernale e si lasciano alle spalle l’Inter, che intanto è stato sopraggiunto da un sorprendente Torino, chiamato a vestire il ruolo dell’antagonista principale in questo finale.

I veneti superano agevolmente la Cremonese e pareggiando ancora con la Sampdoria, poi rimediano la seconda sconfitta del loro campionato, proprio contro il Torino che con Serena e Schachner si porta a casa una vittoria che sembrava poter riaprire ogni discorso per il titolo. La settimana successiva però il Verona resiste a San Siro col Milan, portando a casa un prezioso 0-0, come all’andata, e poi batte la Lazio in casa, mettendo di fatto in cascina lo scudetto.

Il trionfo del Verona

A tre giornate dalla fine, si aspetta solo l’ufficialità di quel clamoroso successo. Questa arriva il 12 maggio 1985, alla penultima di campionato, col Verona che pareggia 1-1 sul campo dell’Atalanta con Elkær Larsen che nella ripresa rimonta il vantaggio bergamasco. La festa può partire per gli scaligeri, che conquistano così il primo storico scudetto della loro storia. Nell’ultima giornata la squadra di Bagnoli rifila un poker all’Avellino, croce e delizia di questo trionfo gialloblù, una delle due squadre capace di fermare l’avanzata di Verona, ma decisiva nel togliere punti all’Inter in un momento delicato della stagione.

Quel mitico Verona è una squadra destinata a restare nella storia degli annali del calcio italiano. Una compagine artefice di un successo inaspettato, intenso e tremendamente netto. Dall’inizio alla fine la squadra di Bagnoli ha dimostrato compattezza e convinzione, riuscendo ad affrontare anche i momenti più difficili. Gli strappi di Fanna e di Elkær Larsen sono stati decisivi, così come gli 11 gol di Galderisi e l’immensa classe di Briegel. A fine anno, Cavallo Pazzo si piazzerà addirittura al secondo posto della classifica del pallone d’oro, alle spalle di un certo Michel Platini, vincitore quell’anno con la sua Juventus della tanto agognata Coppa dei Campioni, passata però tragicamente alla storia per la tragedia dell’Heysel.

Un successo dolce, che ha reso eterna quella squadra operaia, che ha fatto del tradizionale stile italiano il proprio marchio di fabbrica. Catenaccio e contropiede, l’equivalente calcistico di pasta, mafia e mandolino: il Verona di Bagnoli è una squadra profondamente italiana nelle idee e nell’applicazione e con questa struttura ha confezionato una delle imprese più grandi della storia del nostro calcio.

Lo scudetto del Verona è diventato il simbolo della tradizione calcistica italiana. Un po’ come il pandoro, l’altro grande prodotto veronese che ha finito per dominare tutto il paese. Forse, alla fine, Melegatti e Bagnoli non sono poi così diversi: entrambi hanno regalato una dolcezza infinita alla città di Verona.

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San Lorenzo, io lo so perché tanto

Di stelle per l’aria tranquilla

Arde e cade, perché sì gran pianto

Nel concavo cielo sfavilla

Questa è la prima strofa di una delle più celebri poesie che compongono l’immenso patrimonio artistico italiano. È il toccante incipit di X Agosto, in cui Giovanni Pascoli annuncia il motivo per cui, nella notte di San Lorenzo, il cielo “piange” le proprie stelle. Per il poeta quella notte offre un ricordo doloroso, quello della morte del padre, ucciso in circostanze misteriose proprio nel giorno di San Lorenzo. Un evento che sconvolge per sempre la vita di Pascoli e segna in maniera indelebile tutta la sua futura poetica. Il motivo per cui il cielo riversa in terra le proprie lacrime.

Il 24 luglio del 1991 un esploratore americano di nome Hiram Bingham e la sua squadra di spedizione posano il loro sguardo sulla magnifica Machu Picchu, la maestosa città perduta degli Inca. L’archeologo, professore di Yale, aveva attraversato nelle settimane precedenti la terribile foresta pluviale, muovendosi da una valle posta a nord-ovest della città di Cuzco, in Perù, alla ricerca di questo antico e prestigioso sito archeologico.

La scoperta di Machu Picchu ha reso Hiram Bingham uno degli esploratori più famosi di sempre, incensato da National Geographic che al tempo diede notevole rilevanza a quell’evento. Voci di corridoio narrano addirittura che Bingham sia il riferimento storico intorno a cui è stato costruito il celebre personaggio cinematografico di Indiana Jones. Che ciò sia vero o no, resta la testimonianza dell’enorme portata mediatica che ha avuto la scoperta di questa antichissima città in Sudamerica.

Che poi il termine scoperta non è propriamente corretto. Le popolazioni locali conoscevano benissimo il sito, Machu Picchu era tutt’altro che una “città perduta”, com’è poi passata alla storia. Tuttavia, le cronache degli invasori spagnoli non vi facevano alcun riferimento e gli europei non avevano idea della sua esistenza. Bingham ha avuto il grande merito dunque di mostrare l’esistenza di Machu Picchu agli occhi del mondo, ma tecnicamente non l’ha scoperta.

Tecnicismi a parte, Machu Picchu è diventato col tempo uno dei siti archeologici più importanti della terra, rientrando nel 2007 anche nel novero delle sette meraviglie del mondo moderno. Il sito di Machu Picchu è senza ombra di dubbio il simbolo del Perù nel mondo, il suo grande orgoglio, la sua punta di diamante. Per parlare della suggestione di oggi partiamo proprio da questa meraviglia, andando a scovare l’equivalente della città degli Inca nel calcio peruviano: la mitica Nazionale degli anni ’70.

Gli anni d’oro del calcio peruviano

Come il Machu Picchu, prima degli anni ’70 chiaramente la Nazionale peruviana esisteva, ma nessuno sembrava accorgersene. Dopo i fasti degli anni ’30, con la partecipazione al Mondiale in Uruguay e la vittoria della Copa America nel 1939, il calcio peruviano era praticamente sparito dai radar, relegato a una dimensione continentale abbastanza anonima. La Blanquirroja aveva fallito ogni tentativo di qualificarsi a un Mondiale da quando questo aveva ripreso a disputarsi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Non sono stati più brillanti i risultati in Sudamerica, con due terzi posti nella Copa America nel 1949 e nel 1955 e nulla di più.

Il vento per gli Incas cambia però con l’approssimarsi degli anni ’70. Un decennio complicato in Sudamerica, segnato da dittature militari e tensioni che riflettono il clima da guerra fredda che domina il mondo in quegli anni. Per il calcio peruviano però è un decennio di rinascita, iniziato il 3 agosto 1969. Nella Capitale Lima, la Blanquirroja si libera dell’Argentina nel match di andata degli spareggi per accedere al campionato del mondo che di lì a poco meno di un anno si sarebbe disputato in Messico. Il possente centravanti Perico Leon firma quella vittoria storica, il germoglio di una speranza che poi si consacra nella gara di ritorno, quando il Perù a Buenos Aires strappa un 2-2 all’Albiceleste e conquista il pass per il Mondiale. Per la prima volta nel dopoguerra.

Quella qualificazione apre di fatto un decennio d’oro del calcio peruviano. Gli Incas tornano a partecipare a un Mondiale e lo rifaranno nel 1978 e nel 1982, ma al di là della semplice presenza, lasciano un segno indelebile nella storia del calcio regalando al mondo una delle selezioni più affascinanti e divertenti che hanno calcato i palcoscenici mondiali.

Perù
Il peruviano Hugo Sotil in azione con la maglia della sua nazionale
(Photo credit should read STAFF/AFP via Getty Images – One Football)

Il trio delle meraviglie

La nazionale peruviana degli anni ’70 si è affermata nel tempo come una squadra di culto. Quella selezione ruotava principalmente intorno a tre figure, che sono diventate delle vere e proprie superstar del calcio sudamericano e non solo. Il capitano di quel Perù è Hector Chumpitaz, uno dei migliori difensori centrali della storia dell’America latina. Con la fascia al braccio ha guidato gli Incas dal 1966 al 1981, disputando due Mondiali e vincendo una storica Copa America. Classe 1944, si afferma come una bandiera dell’Universitario di Lima, dove rimane per ben nove anni, dal 1966 al 1975. La sua leggenda si plasma soprattutto con le sue prestazioni in Nazionale, che gli conferiscono una fama che arriva fino al Vecchio Continente. Basti pensare che nel 1973, in una partita tra selezioni all-star di Conmebol e Uefa, Chumpitaz ha indossato la fascia da capitano dei suoi, segnando anche l’ultimo gol dello spettacolare 4-4 con cui è terminato il match. Prima della vittoria, ai rigori, del Sudamerica.

In quella storica sfida che si è giocata al Camp Nou figuravano anche gli altri due fenomeni peruviani, a segno entrambi quel giorno: Teofilo Cubillas e Hugo Sotil. Questa semplice sfida dà la cifra dell’importanza della Nazionale peruviana, che negli anni ’70 arriva a contendere lo scettro di regina del Sudamerica a Brasile e Argentina, ottenendo infatti da loro, come vedremo, le sconfitte che hanno posto fine alle sue corse mondiali. Cubillas e Sotil sono gli attaccanti di quella mitica nazionale. La Dupla de oro, una coppia gol micidiale. L’intesa tra i due è così importante che, nel 1971, le due squadre per cui giocavano, Alianza Lima e Deportivo Municipal, decidono di creare una selezione delle loro due rose per delle sfide in Europa. Quel team guidato dalla Dupla de oro riesce a battere di misura il Benfica di Eusebio e a rifilare un clamoroso 4-1 al Bayern Monaco di Beckenbauer e Gerd Müller. I due attaccanti, dopo la nazionale, si ritrovano insieme all’Alianza Lima e nel 1977 e nel 1978 e firmano la vittoria di due campionati, ottenuti annientando semplicemente gli avversari.

Teofilo Cubillas è generalmente considerato il più grande calciatore peruviano di sempre. Il suo nome è legato a quello dell’Alianza Lima, con cui esordisce ad appena 16 anni, laureandosi la stagione successiva capocannoniere del campionato peruviano. Centrocampista offensivo dotato di un talento infinito, Cubillas veste per la prima volta la maglia del Perù nel 1968, giocando nel 1970 un Mondiale incredibile, condito da cinque reti e da un duello tutto latinoamericano con Pelè passato alla storia. Nel 1972 Cubillas viene eletto miglior giocatore sudamericano del mondo. È una superstar e inevitabilmente attira le mire del Vecchio Continente, approdando nel 1973 al Basilea e disputando poi tre stagioni al Porto. Quindi il ritorno in patria, i campionati vinti con l’Alianza Lima insieme a Sotil e gli ultimi mondiali. Al momento del suo ritiro, Teofilo Cubillas è il miglior marcatore della storia del Perù con 26 gol.

L’altro fenomeno peruviano di quegli anni è Hugo Sotil. Attaccante estremamente rapido e dribblomane, el Cholo è uno di quei calciatori genio e sregolatezza molto in voga negli anni ’70. Incontenibile in campo, ma con una vita sfrenata fuori dal rettangolo verde. In patria si afferma con la maglia del Deportivo Municipal, poi nel 1973 arriva la chiamata del Barcellona. Qui gioca al fianco di Cruijff e vince una Liga, ma dopo il primo anno subentrano i problemi. Tra infortuni, stile di vita sregolato e un’intesa che non scocca col nuovo tecnico Rinus Michels, Sotil finisce ai margini della squadra blaugrana e nel 1977 decide di tornare in Perù. Qui si ricongiunge quindi a Cubillas all’Alianza Lima e dopo i due campionati vinti insieme al collega di reparto, cala il sipario sulla sua carriera.

Il ritorno del Perù

Il Mondiale del 1970 rappresenta dunque il grande ritorno in scena della Blanquirroja. In Messico il Perù si presenta come una mina vagante, una nazionale che in pochi conoscono, ma che ha fatto fuori l’Argentina ed è pronta a far conoscere al mondo il suo talento smisurato. L’inizio dell’avventura mondiale è uno schock per gli Incas, che vanno sotto di due reti nell’esordio con la Bulgaria. Poi però arriva la reazione, con Gallardo, Chumpitaz e Cubillas che rimontano lo svantaggio e regalano la vittoria al Perù. Altre tre reti arrivano contro il Marocco, con una doppietta ancora di Cubillas e la rete di Challe. Il tutto in dieci minuti dal minuto 65 al 75. Ancora tre reti nell’ultima giornata del girone, stavolta però segnate dalla Germania Ovest, che supera 3-1 il Perù. Una sconfitta indolore, però, perché la Blanquirroja si qualifica ai quarti di finale.

Un risultato storico, ma qui la corsa del Perù si ferma. Di fronte a Chumpitaz e compagni c’è il Brasile di Pelè, che supera i rivali continentali, ma non senza fatica. Rivelino e Tostao segnano i primi due gol, poi dimezza lo svantaggio Gallardo alla mezz’ora. Nella ripresa ancora Tostao ristabilisce le distanze, ma al 70’ Cubillas accorcia nuovamente. Cinque minuti dopo, però, arriva la rete di Jairzinho a spegnere i sogni degli Incas.

L’avventura al Mondiale si conclude qui per il Perù, contro il Brasile che poi si laureerà campione del mondo in finale contro l’Italia. La selezione sudamericana conquista però l’attenzione del mondo grazie alla qualità del suo gioco e dei suoi campioni. È solo l’inizio del decennio magico degli Incas.

Le difficoltà e il titolo continentale

In realtà subito dopo il mondiale messicano il Perù vive anni difficili. La squadra fallisce la qualificazione ai Mondiali del 1974 e cambia ben tre allenatori fino all’arrivo, nel 1974, di Marcos Calderon Medrano. Il tecnico assume la guida della selezione dopo la dura sconfitta nello spareggio mondiale col Cile e la rivitalizza completamente. Nel 1975 infatti il Perù rientra nella storia dalla porta principale, vincendo la sua seconda Copa America.

Quella del 1975 è un’edizione molto particolare della kermesse sudamericana. Innanzitutto non si giocava da 8 anni, poi si presenta con una formula totalmente nuova. Tre gironi da tre squadre, con gare di andata e ritorno, poi le vincitrici accedono alle semifinali, dove si trova già di diritto l’Uruguay, detentore del titolo. Il Perù esordisce nella competizione proprio col Cile, pareggiando 1-1, poi supera di misura la Bolivia 1-0 e nelle gare di ritorno infila un doppio 3-1 ai suoi avversari.

La Blanquirroja vince così il proprio girone e si qualifica alle semifinali. Qui però c’il il temibile Brasile, esecutore del Perù nel 1970 e reduce dal quarto posto del Mondiale tedesco. Nel match di andata a Belo Horizonte però il Perù s’impone con uno storico 1-3, firmato da una doppietta del centravanti Enrique Casaretto e la firma del solito Cubillas. Nel ritorno a Lima la Seleçao vince 0-2, ma non basta: grazie alla regola dei gol in trasferta, il Perù è in finale di Copa America.

Qui la Blanquirroja se la deve vedere con la Colombia, altra outsider del torneo. Il match di andata a Bogotà termina 1-0 per i Cafeteros, ma al ritorno a Lima gli Incas s’impongono 2-0. Con la regola della differenza gol non valida per la finale si procede allo spareggio e il 28 ottobre 1975, a Caracas, un gol di Hugo Sotil regala la storica vittoria al Perù. La Blanquirroja mette in bacheca la seconda Copa America della sua storia, concretizzando quel decennio magico con la vittoria di un trofeo.

La leggendaria stella del Perù Teofilo Cubillas
(Photo credit should read STAFF/AFP via Getty Images – One Football)

Gli ultimi Mondiali e la fine del decennio

La prima parte degli anni ’70 è quella più significativa per il calcio peruviano. Dal 1975 in poi inizia il calo degli Incas, anche se ci sono ancora pagine importanti da scrivere. Dopo la vittoria della Copa America, il Perù riesce a centrare la qualificazione al Mondiale argentino del 1978, ma finirà per dipingere uno dei capitoli più controversi della sua storia. Il Mundial della vergogna, com’è passato alla storia, si gioca in un clima surreale, in un paese segnato da una spietata dittatura militare, col regime politico che condiziona fortemente lo svolgersi della manifestazione.

Il Perù riesce a superare il girone, vincendo contro Scozia e Iran e pareggiando con l’Olanda, finalista quattro anni prima e che avrebbe raggiunto lo stesso risultato anche alla fine di questo Mondiale. La formula di quella manifestazione prevede lo svolgersi di due gironi successivi prima della finale e nella seconda fase il Perù perde contro Brasile e Polonia, prima dell’ultima gara con l’Argentina.

L’Albiceleste ha bisogno di una vittoria rotonda per superare il Brasile e andare in finale. La preparazione a quel match è un tormento per il Perù, che vive qualsiasi tipo di disagio organizzativo e pesanti interferenze per lasciare ottenere ai padroni di casa il risultato necessario. Alla fine, gli Incas perdono col rotondo risultato di 6-0. L’Argentina va in finale, dove batterà l’Olanda e vincerà il Mondiale, ma il match contro il Perù finirà al centro di un dibattito serrato, che porterà poi alla certezza che il risultato di quella gara sia stato combinato, o comunque fortemente condizionato.

L’epilogo del Mondiale del 1978 è molto duro, il Perù ne esce distrutto a livello mediatico e intanto perde pezzi importanti. I grandi trascinatori della prima metà del decennio sono in fase calante. Chumpitaz lascia la Nazionale nel 1981, dopo aver contribuito alla qualificazione per il mondiale spagnolo. Sotil aveva salutato dopo il 1978, dopo un mondiale vissuto da riserva. Rimane Cubillas, secondo migliore marcatore del torneo in Argentina alle spalle di Kempes, alla pari con Rensenbrink.

Il Perù che si presenta in Spagna nel 1982 è una pallida versione della nazionale che aveva incantato e divertito nel decennio prima e infatti l’avventura iberica si conclude immediatamente. Gli Incas chiudono il girone all’ultimo posto, con due pareggi contro Camerun e Italia e la pesante sconfitta per 5-1 contro la Polonia. Questo è l’ultimo risultato del Perù a un Mondiale per ben 36 anni.

La Blanquirroja infatti dopo il 1982 sparisce completamente dalla scena mondiale. Dopo la chiusura di quel decennio magico il Perù fatica a imporsi a livello continentale, finendo in un vortice di anonimato che viene spezzato solo nel 2018, quando gli Incas tornano a disputare un campionato del mondo qualificandosi per l’edizione russa. La storia calcistica del Perù dopo il 1982 torna a farsi scialba e incolore, con quel decennio rappresentato dagli anni ’70 che rappresenta la luce brillante di un passato maestoso. La testimonianza di un’epoca d’oro, come il Machu Picchu.

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Per molti anni l’Asia ha rappresentato una sorta di movimento minore del mondo del calcio, lontana dalla disciplina tattica degli europei, dal talento dei sudamericani e dalla fisicità degli africani. Una delle prime nazioni asiatiche a riuscire a emanciparsi da questo ruolo minoritario, seppur in maniera controversa, è stata la Corea del Sud. Con essa, il primo grande calciatore a portare l’Asia ai vertici del calcio mondiale è stato Park Ji-Sung.

Una delle prime cose che si possono notare arrivando a Barcellona è sicuramente la peculiare impronta architettonica che la caratterizza. Il profilo energico e colorato della città si fonde alla perfezione col suo carattere gioioso e fresco. Il sole e il mare che si uniscono in una delle città più frizzanti del mondo. Da gustare come una bibita fresca. Barcellona è una carica di energia allo stato puro. È un’esplosione di colori e di gioia e ha un codice estetico tutto suo. Le linee ondulate e irregolari degli edifici. Le facciate vistose e a tratti pacchiane dei palazzi. E soprattutto la mano, onnipresente, di Antoni Gaudi.

Tra le potenze calcistiche europee, un ruolo fondamentale è sicuramente rivestito dalla Francia. Quello transalpino è un movimento peculiare all’interno del mondo del pallone, è forse l’unico grande stato europeo che ha una Nazionale il cui valore trascende quello delle squadre di club. Una dimensione simile più all’Argentina e al Brasile che al resto delle selezioni del Vecchio Continente. Se Italia, Inghilterra, Germania e Spagna hanno almeno una squadra – in molti casi di più – la cui storia supera, o quantomeno eguaglia, quella della Nazionale di riferimento, in Francia non c’è alcun club di questo livello globale. Alcune squadre sono uscite fuori in determinati periodi, dal Marsiglia al PSG degli arabi, ma nessuna ha una tradizione tale da essere comparata a quella della Nazionale francese.

Tra le città più incantevoli e ricce di suggestione dell’Italia, un posto speciale è occupato sicuramente da Palermo. Capoluogo e simbolo di un’isola come la Sicilia che ha sempre costituito una sorta di microcosmo rispetto al resto del paese, come se finisse per costituirsi in uno spazio e in un tempo diverso rispetto al “continente”. Non a caso, la Sicilia ha una storia peculiare che spesso differisce da quella del resto dell’Italia e anche dopo il raggiungimento dell’Unità, l’isola ha continuato a viaggiare sui propri binari. A scrivere le pagine del proprio diario. La Sicilia rappresenta un capitolo a parte nella narrazione italiana, ha i suoi tempi, i suoi modi, le sue tradizioni e tutto un bagaglio emotivo e culturale che differisce in maniera importante dalle altre regioni d’Italia. Palermo si fa simbolo di tutta questa diversità, batte bandiera del retaggio culturale della Sicilia e, all’interno della tradizione stessa dell’isola, assume un ruolo speciale e particolare.

Estate 2009. Il sole, il mare, il calciomercato. Le notizie come in ogni sessione estiva si moltiplicano, si diffondono a macchia d’olio e creano degli intrighi che spesso si risolvono in nulla di fatto. A volte ispirano sogni, suscitano ambizioni, ma provocano anche cocenti delusioni. Quasi sempre permettono di fantasticare, di immaginare scenari incredibili. Alcune volte, finiscono anche per realizzarli. È l’estate del 2009 e la notizia forse più sorprendente che circola in quelle settimane riguarda l’interessamento del Real Madrid per un centrocampista della Serie A, reduce da una stagione pazzesca. Gli spagnoli, stando a quasi l’unanimità delle fonti, hanno messo gli occhi su Gaetano D’Agostino, centrocampista in forza all’Udinese.

Per tutti gli appassionati di calcio, pochi paesi del mondo riescono ad esprimere il fascino che emana in maniera ipnotica l’Argentina. Uno dei poli calcistici più importanti del mondo, patria di alcuni dei massimi esponenti di questo sport e scenario di quella che, con tutta probabilità, è la rivalità più sentita e accesa del mondo: quella, chiaramente, tra River e Boca. L’Argentina è un paese dalle forti passioni. È la terra delle esagerazioni, dei sentimenti che imperversano come tempeste impetuose. Che bruciano come il sole sulle terre selvagge e incontrollabili. È uno stato tormentato, eppure costantemente innamorato. Capace di dimenarsi tra le passioni più asimmetriche, ma di mantenere sempre dritta la propria rotta. Alta la propria bandiera.

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