Al Milan non esistono estati tranquille. I tifosi rossoneri sono sempre stati vittime di immensi periodi di incertezza nei periodi estivi recenti. Dai calciatori fino alla proprietà: pensiamo all’estate del rinnovo di Donnarumma, oppure al tradimento di Çalhanoğlu. I mercati faraonici delle «cose formali», le consuete perdite a parametro zero dei pilastri della formazione, il dietrofront su Ralf Rangnick. Fino all’esilio di Paolo Maldini, licenziato da Gerry Cardinale senza troppe carinerie, quindi alla cessione di Sandro Tonali. Difficilmente non si trova qualcosa da raccontare nell’universo milanista.
Alzi la mano chi a fine campionato non ha mai buttato un occhio sulle rose delle squadre retrocesse alla ricerca dell’occasione di mercato più vantaggiosa o che ammirando un calciatore non ha mai esclamato – vedendolo scivolare in fondo alla classifica – “questo non è da Serie B”.
Vi rispondo io: nessuno.
Proprio per questo oggi propongo un simpatico giochino per ingannare la noia di queste giornate afose. Facciamo finta che le squadre retrocesse [Spezia, Sampdoria e Cremonese], in virtù della retrocessione, siano costrette a svincolare i loro tesserati, liberandoli a parametro zero. I club di A, incluse le promosse dalla B, prenderanno parte ad un draft a chiamata in cui, partendo dall’ ultima classificata fino al Napoli campione d’ Italia, sceglieranno uno dei giocatori liberi come rinforzo in vista del prossimo campionato.
A Cremona è da qualche tempo che si sogna ad occhi aperti. Lo scorso anno, di questi tempi, si sognava la Serie A e proprio come in un evento onirico, appariva come qualcosa di troppo bello per essere vero. In quest’annata, durante i freddi martedì e mercoledì sera di Coppa Italia, si è sognato di arrivare a giocarsi un derby tutto lombardo in una finale di un trofeo, sfuggita ad un passo dal traguardo. Ora, la Cremonese sogna un’altra volta, un’altra impresa. Qualcosa di forse ancora più epico, poiché più improbabile. Una salvezza distante ben 6 lunghezze, con due squadre appaiate a questa distanza, sopra i grigiorossi e con solo tre giornate da giocare.
Sotto la pioggia incessante che accompagna l’intera sfida tra Frosinone e Reggina, Fabio Grosso segue gli ultimi istanti di gara con un velo di commozione che da lì a pochi secondi tracimerà in un pianto liberatorio. Nel momento in cui l’arbitro fischia la fine dell’incontro e decreta la promozione del Frosinone in Serie A, Grosso si porta le mani al volto e realizza l’impresa appena compiuta.
All’83esimo minuto di Inter-Genoa, nell’agosto del 2021, il pubblico di San Siro sfrigolava come un soffritto in padella a cottura inoltrata, creando un’ambiente che ricordava gli istanti precedenti ai primi ingressi in campo di Gabigol qualche anno prima. A prepararsi al suo debutto non c’era però un brasiliano col fisico da veneziano e la barba tracciata col righello, ma un olandesone di un metro e novanta dalle spalle larghe e l’espressione corrucciata. Forse è proprio grazie a quell’espressione, risentita ma affabile, che a primo impatto la tifoseria nerazzurra lo aveva preso in simpatia.
Dopo appena un minuto dal suo ingresso in campo nella coppa europea più importante e prestigiosa, Dusan Vlahovic, sembrava aver già fugato ogni dubbio. L’uomo del destino era lui: l’attaccante perfetto per la versione peggiore della Juventus di Allegri; spietato sottoporta, potente fisicamente e soprattutto autosufficiente. Appena trentadue secondi in campo contro il Villarreal nell’andata degli Ottavi di Champions League dello scorso anno, e aveva già timbrato il cartellino trasformando un semplicissimo lancio senza particolari pretese, in vero e proprio oro. La doppia-sfida contro gli spagnoli, terminerà poi nel peggiore dei modi, ma l’impressione che lasciava la situazione, era che finché la Juventus fosse riuscita a mettere a disposizione di Allegri calciatori così forti e in grado di “cavarsela da soli”, difficilmente i bianconeri sarebbero sprofondati. La stagione 2022-2023 doveva essere la consacrazione del serbo, che con un mercato di un certo tipo, avrebbe sprigionato tutta la sua potenza offensiva. Invece, ad oggi, ci si trova a commentare una stagione piuttosto incerta del numero nove bianconero.
“L’Aquila” Mike Maignan ha smesso di volare; la sua leadership, il carisma innato con cui guidava in modo ossessivo la retroguardia rossonera appaiono come un lontano ricordo. L’ultima presenza del francese risale a Milan-Napoli del 18 settembre: da lì in poi, di Maignan si è saputo poco o nulla, quasi come si trattasse di un disperso. Theo Hernandez vive le partite a testa bassa, battendo il cinque agli avversari come un piccolo chierichetto; sembra non reagire più a tutto ciò che accade in campo, ha un approccio quasi stoico, e nemmeno le provocazioni nei derby, che fino a pochi mesi fa lo facevano scattare nervosamente, sembrano poterlo scalfire. Dal ritorno al Mondiale il bilancio è disastroso: sostituito dopo 45 minuti a Lecce, non convocato a Roma contro la Lazio per sospetto affaticamento muscolare, e diverse prestazioni gravemente insufficienti.
Nella storia della Coppa del Mondo tanti calciatori si sono messi in evidenza, utilizzando il palcoscenico più importante di tutti come trampolino di lancio. Talvolta persino non raggiungendo mai più il livello espresso in quelle sette (o meno) partite. Nonostante i numerosi casi di fallimenti più o meno eclatanti, noi commentatori e appassionati continuiamo ad entusiasmarci e i direttori sportivi a cadere nel tranello. Non sempre però si tratta di bluff, e allora ci si può fregiare della scoperta di un talento accecante, o piuttosto domandarsi cosa nel club di appartenenza non abbia funzionato. Sofyan Amrabat si trova un po’ nel mezzo di queste due correnti.
Il centrocampista marocchino ha disputato un mondiale eccezionale, risultando tra i migliori in assoluto nel suo ruolo. Al suo rendimento ha corrisposto uno storico traguardo di squadra, quella semifinale mai prima d’ora raggiunta da una nazionale africana. Il suo nome è iniziato a circolare venendo affiancato ai più disparati top club europei. Se però le sue qualità sono indubbie e il mondiale non è stato un miracolo, i suoi trascorsi fiorentini ci dicono che la faccenda è decisamente più complessa.



La svolta veronese
Amrabat deve molto del suo successo all’incontro con Ivan Juric. Cresciuto calcisticamente in Olanda, si sviluppa nell’Utrecht, e dopo tre stagioni (l’ultima estremamente positiva) viene notato dal Feyenoord. L’impatto con la storica società di Rotterdam è complicato nonostante le 33 presenze, e dopo una sola stagione l’idillio si interrompe. Amrabat fa un passo indietro approdando al Brugge, in un campionato leggermente meno competitivo come quello belga.
Nelle Fiandre il nativo di Huizen si afferma, nonostante alcuni problemi fisici, come un centrocampista intenso e abilissimo nel recuperare palloni, seppur non sempre ordinato tatticamente. Condivide il reparto con i più esperti Rits e Vorner, un giocatore dalle caratteristiche più offensive come Vanaken e un box-to-box come Nakamba, ora all’Aston Villa. Il tecnico Ivan Leko lo utilizza talvolta anche come difensore centrale o laterale, evidenziandone duttilità e disponibilità.
Tutto questo è abbastanza per attirare l’attenzione del neopromosso Hellas Verona. La dirigenza vuole costruire una squadra abbastanza giovane, pescando da campionati minori, con la guida della squadra affidata a Juric. La sua filosofia di calcio basata su un 3-4-2-1 fatto di pressione a tutto campo, marcature a uomo e ribaltamenti veloci entra subito in sintonia con le doti di Amrabat.
In una stagione strana a causa dell’interruzione per Covid, il marocchino alza ulteriormente il livello del proprio gioco. In Miguel Veloso trova un compagno di reparto perfettamente complementare, abile nella distribuzione del pallone e nel posizionamento. A lui lascia i maggiori compiti in interdizione, ma anche l’opportunità di rompere i giochi seguendo così la propria vocazione all’istinto. L’affiatamento della coppia in mezzo al campo è una delle principali ragioni per i 49 punti con cui il Verona chiude la stagione. Come per molti prima e dopo di lui, in Italia Amrabat ha l’opportunità di colmare le proprie lacune tattiche, imparando a ponderare maggiormente le scelte e canalizzare la propria energia con maggiore intelligenza.



Wherefore art thou, Sofyan?
Già a gennaio della stagione 2019/20 su di lui si posano gli occhi della Fiorentina, che decide quindi di prelevarlo e lasciarlo altri sei mesi a Verona. Dopo lo sbarco a Firenze però, il calciatore ammirato sulle rive dell’Adige scompare. L’annata è complicata per tutti, con due cambi di allenatore in corsa (Prandelli subentrato a Iachini e poi viceversa) e una salvezza raggiunta con fatica. I freddi numeri non suggeriscono un calo di prestazioni così evidente. L’assenza di un sistema ben collaudato e la faticosa convivenza con Pulgar neutralizzano però le doti migliori del marocchino, esponendone i difetti. In particolare la scarsa attitudine alla regia e un passo che poco si abbina con il ruolo di mezzala.
Come se non bastasse, il ragazzo finisce anche in mezzo a una serie di polemiche di bassa lega che ne minano la serenità. In particolare un battibecco a distanza tra Juric e Pradè, allora DS della Fiorentina, che indirettamente lo scarica sostenendo che i calciatori forgiati dal sistema dell’allenatore serbo facciano fatica al di fuori di esso.
La stagione successiva è persino peggiore, con sole 23 presenze in campionato. In viola arriva infatti Lucas Torreira, che ci mette ben poco a prendersi il posto di regista davanti alla difesa. Il nuovo tecnico, Vincenzo Italiano, è uno cui piace molto ruotare alcuni degli effettivi, ma con delle idee molto precise, preferendo intermedi veloci o quantomeno con una certa attitudine in zona gol. Questo taglia fondamentalmente Amrabat fuori dai giochi. Solo nel finale di stagione il marocchino torna a vedere il campo con maggiore continuità, complici anche alcuni problemi fisici di Torreira. Un preambolo per ciò che accade nell’annata seguente, quando per l’ex-Arsenal non arriva il riscatto.



Un mediano mondiale
Nonostante le difficoltà iniziali, Italiano ha fatto di Amrabat il suo titolare davanti alla difesa. Le statistiche ne testimoniano la presenza al centro della manovra (95esimo percentile in Serie A per passaggi riusciti, 98esimo per passaggi progressivi, 90esimo per tocchi, il tutto rispetto ai pari ruolo). Anche i numeri difensivi di questo girone d’andata presentano tutti percentuali positive, con un occhio particolare su contrasti e intercetti. L’investitura del tecnico ha sicuramente a che vedere con le difficoltà della squadra in sede di calciomercato, poggia però anche su un cambio di atteggiamento del ragazzo, più sicuro e concentrato in campo.
A questo non si affianca però un miglioramento del contesto, come invece accaduto a Verona e anche con la maglia del Marocco. Il che suggerisce forse l’identikit di un grande giocatore di sistema più che di un pilastro su cui l’intero sistema poggia. Non che si tratti necessariamente di una diminutio. Nella Fiorentina al suo fianco si alternano Barak, Bonaventura, Duncan e Mandragora, oltre a Maleh andato via da poco e Castrovilli appena rientrato. Nessuno di questi ha davvero le caratteristiche del regista, non tanto per qualità tecniche quanto per letture e continuità all’interno della partita. Va aggiunto che la viola in questo momento ha anche serie difficoltà nel trovare la quadra con i suoi giocatori offensivi. Questo porta il centrocampo a soffrire di una certa solitudine.
Durante il mondiale in cui Amrabat ha impressionato, i suoi compiti erano distribuiti su una porzione di campo piuttosto vasta, ma erano relativamente pochi e precisi. Il Marocco ha un tasso tecnico elevatissimo in ogni zona del campo. Difensori molto abili nell’impostazione, esterni sia bassi che alti in grado di creare superiorità numerica in 1 vs 1, mezzali in grado di verticalizzare e scambiare il pallone con rapidità senza disdegnare la quantità. Hakimi, Mazraoui, Saiss, Aguerd, Ounahi, Boufal e Ziyech sono calciatori che si sposano benissimo tra di loro, e si sposano benissimo con Amrabat.
In uno spartito così organizzato per il centrocampista della Fiorentina è quindi più facile fare ciò che gli riesce meglio. Portare raddoppi e recuperare palloni. Ripulirli cercando uno scarico semplice o approfittando di corridoi aperti dai movimenti degli altri. Seguire come un’ombra le fonti di gioco avversarie, che si tratti di Pedri, Bruno Fernandes o De Bruyne.
Nell’ultimo mese si sono alternate le più disparate voci di mercato, anche per il contratto in scadenza nel 2024. Juve, Tottenham, Liverpool, Atletico Madrid, Barcellona sono solo alcune delle squadre che si sarebbero fatte avanti con la dirigenza toscana. Nel frattempo l’impatto di Amrabat sulla Fiorentina non è stato quello atteso quando al suo ritorno è stato accolto trionfalmente in città. L’attenuante, come testimoniano anche le parole di Italiano, è quella di una condizione non ottimale, ma una punta di perplessità è inevitabile. Dando per scontato l’addio a fine stagione, sia il ragazzo che chi vorrà puntare su di lui dovranno ponderare bene la scelta. In gioco c’è la possibilità di trasformarsi in pianta stabile in un mediano di caratura mondiale, o di rimanere un centrocampista qualunque.
Rafael Leao ha iniziato il 2023 come aveva chiuso il 2022: dribblando. Saltando tutti, più volte. Sperimentando nuove forme di dribbling, come il tunnel sul malcapitato Daniliuc all’Arechi in Salernitana-Milan. Per lui è un semplice divertissment. Per chi deve affrontarlo assomiglia più all’emicrania mista alla paura di essere ridicolizzati. Chi guarda da casa, deve rivedere in loop quattro o cinque volte prima di capire come ha fatto, sempre se ci riesce.
La nostalgia ha la chiusura di un cerchio nella propria natura. La radice del termine affonda nel greco νόστος, “ritorno”. Sarebbe lo stato d’animo causato da un qualcuno o un qualcosa che è lontano, che aspira a porre la parola fine a una trama lunga, dalla sceneggiatura cinematografica, ricca di colpi di scena, ma che possiede un fotogramma definitivo e titoli di coda. Può esserci un plot twist impronosticabile, un’ultima scena memorabile, una conclusione che nessuno dei dialoghi, delle inquadrature e delle stagioni di Serie A potevano comprensibilmente suggerire.