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Giovanni Fasano

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Sotto la pioggia incessante che accompagna l’intera sfida tra Frosinone e Reggina, Fabio Grosso segue gli ultimi istanti di gara con un velo di commozione che da lì a pochi secondi tracimerà in un pianto liberatorio. Nel momento in cui l’arbitro fischia la fine dell’incontro e decreta la promozione del Frosinone in Serie A, Grosso si porta le mani al volto e realizza l’impresa appena compiuta.

Quando la sera del 2 settembre 2017 l’Italia di Giampiero Ventura si presenta al Santiago Bernabeu per affrontare la Spagna non ci siamo ancora arresi all’idea di un futuro drammatico per la nostra Nazionale. Gli azzurri scendono in campo con un 4-2-4 iper ambizioso in cui Lorenzo Insigne e Antonio Candreva assistono il duo d’attacco Belotti-Immobile; di contro la Spagna di Lopetegui risponde rinunciando ad una prima punta e utilizzando David Silva come riferimento più avanzato. Alle sue spalle galleggiano la next big thing del calcio spagnolo Marco Asensio e, soprattutto, Isco.

Giacomo Raspadori ha tutto per essere definito un bravo ragazzo. Il look sobrio, il taglio di capelli militaresco, le dichiarazioni stereotipate in cui parla solo di lavorare per migliorare, gli addetti ai lavori che lo chiamano Giacomino, i mister che ne esaltano la professionalità e l’umiltà. De Zerbi in questa  purezza fanciullesca ci aveva visto addirittura un limite: “Gli ho detto che deve venire con me a rubare qualche portafogli” aveva dichiarato a mezzo stampa, sottolineando con una metafora singolare quanto fosse necessario per la sua crescita incattivirsi in campo. Raspadori ha a sua volta confermato di aver colto subito l’antifona, annoverando anche questo tra i tanti insegnamenti ricevuti e appresi dal mister che lo ha fatto esordire tra i professionisti.

Mattia Zaccagni è stato acquistato dalla Lazio nell’ultima ora dell’ultimo giorno del mercato estivo. Il suo nome è spuntato al termine di una giornata convulsa in cui la dirigenza biancoceleste ha mosso mari e monti pur di regalare Filip Kostic a Maurizio Sarri, non riuscendo però a vincere il braccio di ferro con l’Eintracht Francoforte. In quella che è sembrata un’operazione di ripiego, la Lazio ha quindi versato, tra parte fissa e bonus, 9 milioni nelle casse dell’Hellas Verona per assicurarsi le prestazioni del numero 10 scaligero.

Il mercato è entrato nel vivo, il consueto (e ogni anno rinnovato) stormo di presunti insider ha invaso ogni social e un po’ tutti abbiamo attivato le notifiche al profilo Twitter di Gianluca Di Marzio. Mentre le big dividono lo sguardo tra bilanci così in rosso da disincentivare mosse azzardate e ‘occasioni’ su cui fiondarsi, ad alimentare le prime settimane di questa sessione di mercato sono soprattutto le squadre invischiate nella lotta per non retrocedere – senza dimenticare quelle di Serie B con occhi sulla promozione -, impegnate nel puntellare, migliorare o addirittura rivoluzionare rose apparse incomplete o inadatte alla categoria. Parliamo, ad esempio, di chi boccheggia in fondo alla classifica: la nuova Salernitana di Iervolino e Sabatini non ha ancora effettuato il primo acquisto, ma è stata accostata a nomi tra l’interessante e il surreale come Hernanes, Perotti e Falco, rigorosamente in ordine di stranezza. Nel frattempo l’avvilente Cagliari di Mazzarri cerca nuova linfa in Lovato, il Genoa, pur cambiando dirigenza, naviga sempre al ritmo di un acquisto al giorno, mentre il Venezia scommette sul talento impolverato di Cuisance e si regala Nani (sì, quel Nani), confermando l’ambizione di voler conquistare lo scettro di squadra culto dell’anno.

San Siro si esibisce in un ‘nooo’ di disapprovazione quando, al minuto 24 di un Milan-Sassuolo che dopo il gol in apertura di capitan Romagnoli pareva ben indirizzato per i rossoneri, Bakayoko perde un sanguinoso pallone sulla trequarti. Sul passaggio sbilenco del centrocampista rossonero si avventa come un falco Raspadori, che dopo aver lanciato un rapido sguardo al posizionamento dei compagni, serve Gianluca Scamacca, libero di ricevere in posizione centrale, a circa 30 metri dalla porta difesa da Maignan.

Un mesetto fa, in una di quelle tipiche serate autunnali di Champions League in cui in 90 minuti è condensato tutto il meglio che il calcio europeo può proporre, Real Madrid e Ajax disputavano la terza gara del loro rispettivo girone. Per entrambe era una partita particolarmente importante: i madrileni andavano in scena a Donetsk dopo l’inattesa sconfitta casalinga contro lo Sheriff; l’Ajax, dopo aver vinto le prime due gara, ospitava all’Amsterdam Arena il Borussia Dortmund, anch’esso a punteggio pieno, nel primo dei due atti che con molte probabilità avrebbero decretato la vincitrice del gruppo C. Dopo un lungo ma placido accerchiamento, il Real sfonda la resistenza ucraina sfruttando un goffo autogol di Kryvstov, mentre qualche minuto prima anche ad Amsterdam un autogol aveva inaugurato quello che sarebbe stato un trionfo storico per i lancieri. La punizione da cui scaturisce lo sfortunato autogol di Reus nasce da un’iniziativa di Antony.

L’Europeo vinto ha messo in luce tutta la bontà del lavoro svolto da Roberto Mancini come commissario tecnico dell’Italia. Gli azzurri hanno trionfato spogliandosi di gran parte dei luoghi comuni con cui veniva storicamente descritta la Nazionale di calcio, dimostrando di poter raggiungere grandi risultati integrando al proprio DNA un’idea di calcio proattiva e improntata sul dominio della gara attraverso il possesso. In quella che possiamo definire la nouvelle vague del calcio italiano sono tanti i giocatori che hanno trovato terreno fertile per affermare il proprio talento nelle più alte sfere del calcio internazionale. Pensiamo in primis a Lorenzo Insigne, la cui reputazione sembrava legata a doppio filo ai risultati sportivi del Napoli, o a Marco Verratti, il cui talento è fiorito troppo lontano dall’Italia per poterlo decantare come invece meritava. In questo scenario quasi fiabesco l’unica nota leggermente stridente è stata rappresentata dal rendimento della prima punta, nello specifico dal rendimento di Ciro Immobile.

Dopo aver realizzato il gol del definitivo 2-1 nell’ultima partita di campionato contro il Getafe, Memphis Depay con la solita aria tra lo strafottente e l’irrisorio corre verso la bandierina per festeggiare e perdersi nell’abbraccio dei compagni. Il gol è uno di quelli che ti restano impressi: ricevuta palla dal compagno di nazionale Frenkie De Jong sul versante sinistro dell’area di rigore, Depay si accentra pettinando la sfera con la suola, abbozza un doppio passo, poi mette in serie un paio di finte per far perdere l’equilibrio ai difensori che lo braccavano e nel momento in cui la finestra di tiro si apre impallina il portiere sul primo palo con il destro. Per concludere la celebrazione Depay si porta gli indici alle orecchie, in quella che, riportando le sue parole, non è un’esultanza che ha come fine unico quello di mostrarsi sordo dinanzi alle critiche ma nasconde un significato più profondo:

Io vivo nella mia bolla e ascolto quello che mi si dice solo se lo ritengo interessante. Se mi si dice cosa fare o me lo si impone, non funziono. Il mio corpo si blocca. Ho bisogno di essere libero dal punto di vista mentale.

L’Italia ha trionfato ad Euro 2020, conquistando un trofeo che le mancava dal lontano 1968. Lo ha fatto assecondando un progetto tecnico ambizioso e rivoluzionario, fuggendo dalla retorica di Nazionale forgiata nella sofferenza e confermandosi, partita dopo partita, impresa dopo impresa, come la squadra più organizzata e meglio allenata. Questo è l’Europeo che ci ha fatto definitivamente innamorare di Jorginho, l’Europeo in cui il nostro cuore ha battuto veloce quanto quello di Chiesa libero di correre in campo aperto, l’Europeo in cui Lorenzo Insigne, in punta di piedi, ha preso posto nel gotha dei numeri 10 italiani.

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