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Serie A – Operazione Malinconia

La nostalgia ha la chiusura di un cerchio nella propria natura. La radice del termine affonda nel greco νόστος, “ritorno”. Sarebbe lo stato d’animo causato da un qualcuno o un qualcosa che è lontano, che aspira a porre la parola fine a una trama lunga, dalla sceneggiatura cinematografica, ricca di colpi di scena, ma che possiede un fotogramma definitivo e titoli di coda. Può esserci un plot twist impronosticabile, un’ultima scena memorabile, una conclusione che nessuno dei dialoghi, delle inquadrature e delle stagioni di Serie A potevano comprensibilmente suggerire.

Gli influssi romantici di epoca recente hanno affievolito il significato di un altro lemma che genera una smorfia sui volti umani. Ora si utilizza per indicare un ricordo che rende tristi, ma la malinconia è sostantivo dotato di una potenza rara. Sino al Rinascimento con μελαγχολία ci si riferiva a una vera e propria malattia psichica. Da Ippocrate fino al Cinquecento, la “bile nera” simboleggiava uno dei quattro umori coi quali l’equilibrio organico prendeva forma. La mescolanza di accidia, depressione e meditazione la rende una caratteristica naturale dell’essere umano, così viscerale da non poter essere estorta in alcun modo.

Lo sport, il calcio, la nostra squadra del cuore sono le sedi più innocue dove sfogare questo innato dispiacere per un desiderio inappagato. La fede e la passione che alcuni degli idoli ricevono e riescono a restituire sono talmente intense che non può essere messo un punto. Si è destinati a perpetrare la speranza di un riconciliarsi, un riappacificarsi, un passo indietro per riprendere un cammino interrotto bruscamente. Una questione di amori, giri e retorica che nemmeno Antonello Venditti è riuscito a colmare. Storie iperboliche, irrealizzabili, ma alimentate costantemente dall’emergere dell’affetto di tifosi e giocatori. Relazioni durate troppo poco, troppo, abbastanza per lacerarsi fragorosamente anche oltre il necessario. Il limite tra calciomercato, fantasie invernali ed estive e speculazioni giornalistiche, le uniche operazioni i cui costi non rischierebbero di minare gli apparenti equilibri economici del pallone tricolore sono i ritorni. Quelli romantici, che superano il mantra delle minestre riscaldate o della beneficienza. Il minimo salariale di Criscito al Genoa e la rescissione di contratto pagata di tasca propria da Lucas Perez per tornare all’amato Depor per riportarlo in Segunda sono storie commoventi. Ma proprio perché avvenute sono nostalgiche, non malinconiche. La “bile nera” trova espressione in idoli del passato ancora sotto i nostri occhi, che potrebbero rinunciare ad aspirazioni economiche o di prospettiva professionale per scrivere l’epilogo migliore. Il più giusto. Se ogni squadra di Serie A potesse scegliere di riaccogliere tra le proprie braccia solo uno dei beniamini del recente passato, ancora in attività? Quale icona farebbe vacillare anche i più scettici? Chi farebbe alternare pensieri tipo “Sì, ma tanto non tornerebbe mai” a illusori “Mettendo a posto un paio di tasselli, chiarendo un paio di cose, sai che potrebbe funzionare davvero”?

UN SOFFIO DI FIATO

La carriera ad alti livelli di Alejandro Dario Gomez, per tutti Papu, o l’era Gasperini sul trono di Zingonia? Quale dei due regni terminerà per primo? Dalla risposta al quesito dipende il ritorno del 10 più grande della storia orobica. Non ci si dovrebbe aspettare lo stesso dominio esercitato sui sistemi difensivi dell’intera Serie A e nelle notti europee: senza la creatura plasmata dal Gasp e con qualche anello aggiunto al tronco, Papu non potrebbe garantire gli stessi numeri e le stesse abbacinanti prestazioni dei precedenti alla Dea. A sentirlo parlare, a guardare il luccichio negli occhi quando ne parla, il desiderio dell’enganche di Buenos Aires è quello di tornare a Bergamo. Più che per dimostrare di essere ancora decisivo dopo anni opachi a Siviglia, più che provare chi fosse il vero colpevole della rottura definitiva (ammesso che abbia senso cercarlo nell’evoluzione dei rapporti umani), a Gomez basterebbe un saluto.

(Foto: Emilio Andrioli – Getty Images/OneFootball)

Un giro di campo. Qualche lacrima versata al Gewiss. In fin dei conti aveva lui la fascia al braccio nella notte di Kharkiv. Può il capitano degli anni migliori della storia della Dea non ricevere il giusto tributo dal popolo che accoglie tutt’ora la cognata e il procuratore e un ristorante da lui creato? Nel travagliato rapporto che intesse un simbolo con la maglia che l’ha reso iconico Gomez non è l’unico esempio nel nostro campionato. Con storie differenti, dinamiche ed epiloghi alterni, la Torino granata e la Roma giallorossa possono avere voce in capitolo. Marco Benassi e Andrea Belotti da una parte, Alessandro Florenzi dall’altra. Date loro un solo minuto. Un attimo ancora.

ANDRÀ TUTTO BENE

Le storie dei bomber di provincia e della loro provincia sono innumerevoli. I più pane al pane vino al vino azzarderebbero Massimo Coda alla Cremonese, a trascinare i grigiorossi alla salvezza dopo averla vissuta negli anni di Lega Pro. I più piccoli gradirebbero rivedere la calamita posta sulla fronte di Milan Djuric su ogni campanile alzato all’Arechi, torre magnetica della cavalcata di Nicola e Sabatini. Gli inguaribili romantici, che darebbero una seconda occasione anche a Jack lo Squartatore, saliverebbero all’idea di vedere riuniti, nello stesso ufficio, il trio Silvio Berlusconi-Adriano Galliani-Mario Balotelli, con tutta l’atmosfera cinepanettoniana che ne scaturirebbe. Chi ha parzialmente colmato questa lacuna nel calcio tricolore è Francesco Caputo. Il ritorno a casa di Ciccio a Empoli realizza forse il lato sbagliato della medaglia della carriera del bomber di Altamura. In Toscana si è consacrato, dimostrando di essere all’altezza della A.

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(Foto: Emilio Andrioli – Getty Images/One Football)

Ma c’è un’immagine ben impressa in tutte le nostre menti di Caputo che esulta dopo un gol in Serie A. No, non è il gesto della birra Pagnotta. È lo sguardo tra il terrorizzato e il dissimulatore con cui mostra una scritta rossa su un foglio bianco passatogli dalla panchina. La maglia è quella neroverde del Sassuolo, dove Caputo si è confermato sui gradini scavalcati in precedenza. Forse perché viviamo ancora tutti quegli attimi, come se si fosse cristallizzato un prima, un durante e un dopo quei mesi tremendi, è così sbagliato aspirare di rivedere un centravanti dall’infinita gavetta farsi strada tra la nebbia di una notte invernale in Emilia?

FILOSOFIA PRATICA

Ci sono squadre di Serie A estremamente legate al sentimento del territorio, che rispecchiano in campo l’atmosfera che si respira per le strade della città di appartenenza. Esistono società dalla mentalità radicata che, indipendentemente da presidenti, allenatori o giocatori, si manifesterà in eterno, in campo e dietro la scrivania, come se ci fosse un’identità morale prima ancora che tecnica da trasmettere ai successori. Pochissime sono le realtà che, se venisse chiesto di delinearne un giocatore tipo, potrebbero pareggiare la potenza identitaria di Empoli.

(Foto: Gianni Verri – Getty Images/One Football)

Se si fosse costretti a creare in laboratorio il profilo ideale per raccontarne l’unicità, quello degli azzurri sarebbe il perfetto connubio tra la mentalità, l’estetica e la concretezza. Riunire in un corpo tutte le anime del gioiellino toscano? Un centrocampista centrale con tendenze offensive, possibilmente italiano e passato per un minimo periodo dal settore giovanile, la cui influenza in campo è dettata dalle infinite connessioni create coi compagni; un pizzico di disprezzo per l’atletismo e la componente atletica del pallone, come se la corsa e l’intensità possano turbare la pura realizzazione estetica del gesto; l’atteggiamento frizzante di chi, magari transitato da quelle parti ancora ai tempi delle comproprietà e dei cartellini venduti al 50%, è già andato e tornato ma non sembra essersi mai allontanato dalla pianura del Valdarno. Vero: potevamo semplicemente scrivere Riccardo Saponara e risparmiare qualche secondo della giornata, ma il gusto del dettaglio abbellito ha preso il sopravvento. Ricky non ce lo vieterebbe, in fondo in fondo.

P.S. Si potrebbe accentuare la percentuale di barocco e trasformare Empoli in Firenze e Saponara in Lucas Torreira, ma un anno di Serie A sotto la Fiesole è oggettivamente troppo poco, anche per malinconici incalliti come noi.

L’AVVENTURA DI UNA NOTTE

Alcune voci di mercato sembrano sempre diverse e sempre le stesse. Pare sempre quel tipo di giocatore con quella formazione calcistica, ovviamente esotica, associata a quei tipi di squadre. Medio-bassa Serie A, incapaci di pareggiare le disponibilità economiche delle grandi ma approdo intriganti per giovani da tutto il mondo, che vedono nel nostro campionato uno sbocco invitante per il calciocheconta. Non ci si può aspettare che si passerà una vita lì: una, massimo due stagioni e, se tutto andrà come deve andare, questo sarà un transito verso un porto più ricco.

Gli Iturbe all’Hellas, gli Allan all’Udinese, estremizzando gli Zarate alla Lazio e i Kovacic all’Inter (i Burgzorg allo Spezia, ma con Delano niente è andato, fino a ora, come sarebbe dovuto andare). Sognare non costa nulla, e Pantaleo Corvino lo sa meglio di chiunque altro. Abituato a condurre sessioni di mercato letteralmente senza budget, è con colpi alla Muriel che è entrato nei cuori di tutte le tifoserie per cui ha lavorato. E allora sogniamo. Sempre a Lecce, sempre all’Ettore Giardiniero-Via del Mare. Convincere quello che pare ormai un ex giocatore di altissimo livello a mettersi il cuore in pace e tornare a correre libero dalle pressioni mediatiche è davvero così folle? Sì, ma è gratis. E allora sogniamo. Davanti a Wladimiro Falcone, da sinistra a destra Antonino Gallo, Samuel Umtiti, Federico Baschirotto e Juan Guillerme Cuadrado.

Cuadrado in Serie A con il Lecce
Un’annata, quella a Lecce, in cui insieme al connazionale Muriel terrorizzarono le difese di mezza Serie A (Foto: Filippo Luini – Getty Images/One Football)

SONO IO IL VOSTRO CAVANI

Quanto è difficile quantificare il valore di un atleta ai nostri giorni? Quanti soldi corrispondere a un uomo, talvolta un marito e un padre, in cambio dell’euforia collettiva generata da un pallone che gonfia la rete? Quanto il discorso si amplifica sempre più ricorrenti sono le voci, gli spifferi, le malelingue, le speculazioni su quello stipendio e su quell’altro conto in banca? Kessié al Milan e Dybala alla Juve sono gli ultimi in ordine di tempo in Serie A: capitani sentitisi delegittimati, per i quali una fascia al braccio non è valso un compromesso sull’ingaggio. Morten Thorsby alla Sampdoria non ha mai indossato il simbolo del comando, ma uno che sarebbe disposto a ridursi gran parte dell’ingaggio per gravare il meno possibile sulle casse sgombre dei doriani non è forse definibile leader al pari di chi scambia i gagliardetti prima del fischio iniziale? Talvolta è il dirigente ad averla vinta, a presumere la ragione anche nel caso in cui avrebbe tutto per passare dalla parte del torto.

Hamsik, Lavezzi, Cavani i tre tenori
I tre tenori in una delle notti più indimenticabili della storia recente del Napoli (Foto by Mike Hewitt/Getty Images-OneFootball)

Il microcosmo partenopeo è epitome del ribaltamento del consueto, del normale. Si finisce per trovare una statuetta del presepe in San Gregorio Armeno di De Laurentiis con in mano un foglio vergato in rosso, col sangue, con una delle dichiarazioni più celebri della sua presidenza. Era Dimaro, estate 2018, e la presunta trattativa per un ritorno del Matador viene così categoricamente smentita. Tra i mille culure di Napoli, però, c’è anche l’irrazionale. Allora perché non ipotizzare un ritorno dell’icona degli azzurri arsenico e champagne, per il quale solo una Coppa Italia è troppo poco per rendere merito a serate iconiche del tifo napoletano? Sei mesi di contratto, un ruolo marginale nel Napoli osimheniano e spallettiano di oggi. Un Napoli, bando alla scaramanzia, che conquisterà la Serie A. Tra lui e Kalidou Koulibaly è ingiusto decidere. Ma se uno e uno soltanto meriterebbe un trofeo ad honorem in maglia napoletana, forse anche perché la distanza temporale aumenta la componente onirica della visione, Edinson Cavani è la malinconia.

Autore

Dalla fine dello scorso millennio inseguo la scia romantica che lascia un pallone che rotola.

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