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È ai nastri di partenza una nuova stagione per il calcio femminile. Ricomincia il campionato di Serie A e lo fa con un gran carico di aspettative e novità. Tra tutte, la nuova guida tecnica della Juventus, con l’addio di Rita Guarino e l’arrivo sulla panchina bianconera di Joe Montemurro. Tra la lotta al titolo, la corsa salvezza, cruciale in vista del lancio del nuovo format per la prossima stagione, e le possibili outsiders, proviamo a tracciare una presentazione del campionato di Serie A femminile che ci aspetta.

Alcuni studi di psicologia inglesi hanno dimostrato che esiste una sindrome che si potrebbe chiamare “dell’ultimo minuto”. Essa descrive tutte quelle azioni che vengono svolte allo scadere del tempo, il giorno prima della data di scadenza, una volta che l’ora X è già passata. Lo studio dimostra anche che ci sono delle personalità-tipo che sono tipiche dell’atteggiamento di rimandare fino all’estremo. Fanno così gli adrenalinici – lavoro bene se sono sotto stress – , i perfezionisti – faccio le cose alla fine perché devo curare tutto al dettaglio – , oppure ancora il multitasker – svolgo mille cose insieme e le completo tutte al tempo limite.

Chissà se i dirigenti del Milan rientravano in una di queste macro categorie quando acquistarono il nuovo centrocampista nell’estate del 2011 appena l’ultimo giorno di calciomercato. A giudizio dei tifosi rossoneri però la società non fu né adrenalinica né perfezionista, anzi, si accontentò di un Antonio Nocerino qualunque in mancanza di alternative.

Il Milan post-Berlusconi ha cambiato identità molte volte. La certezza dei rossoneri sembra però essere la presenza fra i pali di Gianluigi Donnarumma, sempre più leader e, rinnovo permettendo, possibile nuova bandiera rossonera.

Una certezza

La filosofia societaria del Milan degli ultimi anni sembra essersi rifatta al celebre passo de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che recita: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Atteggiamento che avrebbe dovuto essere adottato già negli anni d’oro della compagine rossonera, quando sempre più componenti della rosa erano in procinto di appendere gli scarpini al chiodo.

Senatori del calibro di Maldini, Nesta, Gattuso, Ambrosini, Seedorf e Zambrotta erano ormai giunti a fine carriera e piano piano si sono ritirati, ma il ricambio generazionale – oltre a quello ai piani alti della società con la fine dell’era Berlusconi-Galliani che ha scatenato un valzer di presidenti, dirigenti e allenatori – non ha sortito gli effetti sperati. I nuovi innesti hanno fatto precipitare il club in una spirale fatta di piazzamenti in campionato al di sotto delle aspettative, assenza dalle principali competizioni europee e difficoltà nel trovare nuovi riferimenti con cui costruire un progetto solido e duraturo. L’unico punto fermo, seppur con qualche ostacolo, sembra essere Gianluigi “Gigio” Donnarumma.

Donnarumma
Gigio (Foto: Marco Bertorello/AFP via Getty Images – OneFootball)

Donnarumma il predestinato

Da quando ha indossato i guantoni in occasione della partita di campionato vinta contro il Sassuolo per 2-1 il 25 ottobre 2015, Donnarumma non ha più smesso di difendere i pali del Diavolo. Ironia della sorte, la sera del 21 luglio 2020 – a 21 anni, 4 mesi e 26 giorni – toccherà quota 200 presenze in maglia rossonera proprio contro i neroverdi.  Lo scenario muterà, poiché questa volta si giocherà al Mapei Stadium, ma il risultato e il portiere titolare del Milan saranno gli stessi.

Il destino ha condotto spesso Donnarumma a bruciare le tappe: le buone prestazioni collezionate con il settore giovanile rossonero gli avevano riservato un posto in Primavera già a 15 anni. Essendo aggregato ai futuri titolari del Milan, nel campionato 2014/2015 era già stato convocato in Prima Squadra durante la partita contro il Cesena. La squalifica di Diego López e il forfait di Michael Agazzi costrinsero Christian Abbiati a scendere in campo. Gigio quindi si accomodò in panchina agli ordini di Filippo Inzaghi. L’attuale allenatore del Benevento, per uno scherzo del destino, non lo ebbe mai a disposizione in qualità di tecnico della Primavera, poiché l’annata precedente Donnarumma militava tra le file dei Giovanissimi.

A pagare le conseguenze dell’ascesa del giovane di Castellammare di Stabia nella stagione successiva fu in primis il titolare designato Diego López il quale, nelle prime uscite, aveva dimostrato poca affidabilità. Approccio che convinse Siniša Mihajlović a ribaltare le gerarchie e a schierare la promessa sedicenne. Scelta non condivisa dal patron Berlusconi: come rivelato in seguito dal tecnico serbo, durante la settimana dell’esordio di Donnarumma il patron rossonero si recò due volte a Milanello per convincerlo a puntare ancora sull’estremo difensore spagnolo, rischiando così di ritrovarsi senza mister: dare retta al presidente avrebbe significato fare le valigie.

L’intuizione di Mihajlović prevalse e si impose a tal punto che lo sbocciare del talento cristallino di Donnarumma comportò un’altra sistemazione per Diego López, che, successivamente, lo definirà la più grande forza della natura che abbia mai visto fra i pali:

Ha un talento incredibile, già a 16 anni aveva enormi doti fisiche e sta battendo tutti i record di precocità. Viste le sue qualità, quando è venuto fuori, è stato difficile per me riuscire a ritagliarmi uno spazio, così ho scelto l’Espanyol.

Donnarumma Sassuolo
Donnarumma in quel Milan-Sassuolo (Foto: Claudio Villa/Getty Images – OneFootball)

Un rinnovo tormentato

Nonostante la rivoluzione ai vertici della società, Donnarumma diventa la punta di diamante del Milan. È il gioiello rossonero, ma è anche il pupillo di Mino Raiola. Quest’ultimo non vede di buon occhio il nuovo direttore sportivo Massimiliano Mirabelli e ritiene il disegno cinese senza fondamenta. La volontà della società è rinnovare il contratto del numero 99 – in scadenza il 30 giugno 2018 – per farne la colonna portante del nuovo progetto.

Al compimento della maggiore età, ha inizio il tira e molla tra il potentissimo agente italo-olandese e la nuova dirigenza. Si aprono mesi roventi di trattative saltate e fratture apparentemente insanabili: il 15 giugno 2017, in conferenza stampa, l’amministratore delegato Marco Fassone annuncia l’intenzione di Donnarumma di non rinnovare. Tre giorni dopo, al debutto contro la Danimarca all’Europeo Under 21 in Polonia, alcuni tifosi di un Milan Club locale espongono uno striscione con scritto “Dollarumma” e lanciano dei dollari finti in campo. L’11 luglio 2017, contrariamente a quanto ci si aspetti, la fedeltà calcistica prevale sul denaro e la passione all’interesse. Il calciatore non asseconda il suo manager e firma il rinnovo contro la sua volontà.

Donnarumma rimane l’unica costante quando la cordata cinese neo-proprietaria del club decide di rifondare la squadra: nell’estate 2017 la spesa folle di Fassone e Mirabelli – poco più 240 milioni di euro – è l’emblema della trasformazione. La rosa a disposizione del tecnico Vincenzo Montella si amplia con undici nuovi giocatori: tra questi Antonio, fratello maggiore che Gianluigi, fin da piccolo, ha osservato parare proprio come lo zio. A quanto pare, essere una saracinesca è sempre stato un affare di famiglia.

L’intricatissima trama della telenovela rinnovo resterà nella mente di una frangia di sostenitori rossoneri anche nei mesi successivi: la sera del 13 dicembre 2017, in occasione del match di Coppa Italia contro il Verona, verrà contestato con fischi e insulti. Sarà mostrato persino uno striscione che lo esorterà ad andarsene. Donnarumma, che esponendosi contro il proprio procuratore ha ribadito il proprio amore ai colori rossoneri, inizierà a sentire la pressione del beniamino non più amato. Partita dopo partita, però, imparerà a rispondere sul campo.

Qualche dollaro di troppo (Foto: Rafal Rusek/PressFocus/Newspix/Imago Images – OneFootball)

La consapevolezza raggiunta

Il terremoto che vedrà riformato il Consiglio d’Amministrazione rossonero negli anni a venire, il valzer degli allenatori, le cessioni e i nuovi acquisti non scalfiranno il ruolo di Donnarumma, sempre più leader di una squadra di cui diventa l’unica certezza, confermandosi tra i migliori portieri italiani in circolazione.

All’inizio era normale ascoltare quelli più grandi di me. Ora non è tanto per l’età, ma sono tra quelli che giocano da più anni al Milan e quindi ho un ruolo importante nello spogliatoio. Mi faccio sentire e do qualche sgridata a qualcuno quando devo.

Parole di chi ha assunto consapevolezza del proprio ruolo. L’esperienza, infatti, lo sprona a rimanere attento e a non compromettere l’intera partita per una rete subita, annullando lo scoramento e privilegiando la concentrazione:

Gli errori a volte fanno parte del gioco e purtroppo, quando sbaglia un portiere, c’è una rete dietro. Ma sbagliando si impara e cercherò di sbagliare il meno possibile. Gli errori capitano e devi essere bravo ad andare avanti anche in partita.

Donnarumma diventerà una bandiera rossonera?

Se a 21 anni e 361 giorni hai già collezionato 200 presenze in Serie A entri di diritto nella storia, anche perché sei il giocatore più giovane a tagliare un simile traguardo nell’era dei tre punti a vittoria. Se stabilisci il primato con la stessa squadra che ti ha lanciato e in uno dei derby più sentiti degli ultimi anni, potresti avere tutte le carte in regola per essere consacrato uno degli ultimi baluardi del calcio nostalgico delle bandiere.

Ultimamente il Milan è in calo: i 15 punti racimolati nelle ultime nove partite hanno quantificato le evidenti difficoltà di inizio 2021 e la sonora sconfitta contro i nerazzurri avvenuta la scorsa domenica ha suscitato non pochi mormorii tra i tifosi: molti supporters hanno iniziato a mettere in discussione i ruoli all’interno dello spogliatoio, invocando a gran voce la consegna della fascia da capitano proprio a Donnarumma.

Un traguardo che l’estremo difensore si era già prefissato nel corso di un’intervista a La Stampa, pubblicata la vigilia del match contro la Juventus del 22 ottobre 2016, a circa un anno di distanza dal suo esordio in Serie A. Si era dato come tempo dieci anni, ne sono passati quasi la metà.

Il modo in cui ha voluto incoraggiare la squadra il giorno dopo la partita contro l’Inter, invocando la compattezza del gruppo, fa pensare che possa diventare il perno della corazzata rossonera. E, più di ogni altra cosa, che non abbia intenzione di cambiare aria proprio ora che il Diavolo potrebbe di nuovo figurare nel calcio che conta. La trattativa per il rinnovo del contratto, a 4 mesi dalla scadenza, non è ancora decollata: i contatti tra dirigenza ed entourage del giocatore sono fittissimi, ma manca l’intesa su cifre e clausole.

I tifosi si chiederanno se l’ambizione sovrasterà ancora una volta il business. Se a convincere Donnarumma a restare e a diventare una bandiera del Milan basteranno le voci dei suoi sostenitori, lo dirà solo il tempo: al massimo Maldini e Massara potranno provare a rinchiuderlo a chiave dentro Casa Milan.

Nel 2008, con un certo Gennaro Gattuso, l’espediente funzionò: il passaggio al Bayern Monaco del centrocampista calabrese era ormai imminente, ma Galliani e Ancelotti, non ancora rassegnati, lo blindarono dentro al museo del Milan. L’episodio suscitò un ripensamento in Ringhio, che decise di rimanere ed ebbe il tempo di aggiungere un altro Scudetto in bacheca prima di ritirarsi. La fine della carriera per Donnarumma è ancora molto lontana, ma ricordare l’episodio non potrebbe essere un ottimo pretesto per convincerlo a restare?

Sorriso da blindare (Foto: Alessandro Sabattini/Getty Images – OneFootball)

Gli stadi chiusi ed un calcio senza tifosi

In Splendori e miserie del mondo del calcio Eduardo Galeano scrisse che “giocare senza tifosi è come ballare senza musica”. Circa un anno fa, la pandemia scombussolò gli equilibri delle nostre vite e, spegnendo il coro del tifo, costrinse il mondo del pallone a una danza silenziosa, nel triste scenario degli stadi chiusi.

Quello che in un primo momento sembrava un provvedimento momentaneo, è oggi una realtà assodata, e il frastuono di voci che rimbombava negli stadi, appare come un’eco lontana. Sorge spontaneo chiedersi se, parafrasando Galeano, il ballo rappresentato dal calcio possa effettivamente avere la medesima resa con e senza la musica prodotta dai suoi aficionados. Dopo quasi dodici mesi di partite a porte chiuse, è giunto il momento di fare un primo bilancio: quali sono stati gli effetti dell’assenza di pubblico sul gioco?

Quello post-pandemia è senza dubbio un calcio più freddo, asettico, scevro delle sue magiche componenti rituali: il gremirsi dello stadio nel prepartita, con quel calore di passione che cresce a ogni giro di lancetta, le coreografie, le bandiere, le urla entusiastiche ma anche gli insulti rabbiosi, sono tutte pratiche liturgiche a cui lo sport più popolare del mondo ha dovuto rinunciare. Oggi i calciatori scendono in campo, disputano la loro partita e tornano a casa. Sono costretti a danzare con la stessa convinzione di prima, pur dovendosi immaginare un sottofondo musicale non più presente.

Quando dopo il periodo di pausa dovuto all’esplosione del virus la Bundesliga annunciava il suo ritorno col big match Bayern Monaco-Borussia Dortmund del 26 maggio, lo scetticismo era inevitabilmente diffuso: parte dei tifosi si mostrava disinteressata all’idea di un calcio monco, apatico, privo dello spirito dionisiaco incarnato dal rombo del tifo che risuona negli stadi. Le riserve iniziali appaiono ormai superate, e i calciofili sembrano essersi abituati a questa formula resa inevitabile da cause di forza maggiore: il calcio rappresenta per molte persone un piglio fondamentale a cui aggrapparsi, quasi una religione in cui riversare le proprie speranze e sfogare le proprie frustrazioni.

È per questo motivo che, nonostante la situazione di emergenza, il mondo del pallone – dopo alcuni mesi burrascosi – è andato avanti, rappresentando uno dei pochi segnali di continuità con il passato pre-pandemia. Il calendario è fitto sino all’inverosimile, gli stadi sono vuoti, le casse dei club piangono, ma il gioco, imperterrito, resiste e continua ad appassionare milioni di devoti. La sopravvivenza nel periodo delle fatiche pandemiche è l’ennesima dimostrazione della potenza irrazionale di questo sport; lo stesso sport che, negli anni della prima Guerra Mondiale, fece addirittura interrompere il conflitto tra unità tedesche e britanniche, le quali, dopo aver sancito la Tregua di Natale nel 1914, si dilettarono in una leggendaria partita di calcio nei pressi di Yrpes prima di tornare alle armi. Lo stesso facevano i Greci con la cosiddetta “ἐκεχειρία” (letteralmente, “mani ferme”), una tregua vigente nel periodo delle Olimpiadi, durante il quale cessavano inimicizie private e pubbliche. La storia dimostra che lo sport è parte integrante del patrimonio culturale di un paese, e forse si dovrebbe smettere di sottovalutarlo.

Per capire concretamente se e come il fútbol sia cambiato in assenza dei tifosi, occorre analizzare alcuni numeri. Un primo dato che spesso si ricollega all’assenza di pubblico è quello dei gol realizzati. Nella stagione 2019/2020, quella dell’esplosione del virus che ha reso inevitabile la disputa a porte chiuse delle ultime tredici giornate, sono state siglate 1154 reti. Si tratta di un numero considerevolmente più alto rispetto alle due annate precedenti, quando il conto si fermò a 1017 (2017/2018) e 1019 (2018/2019) gol segnati.

Per quanto un campione di sole tredici partite non sia sufficiente per dedurre una tendenza statistica, si può ipotizzare che parte dell’incremento realizzativo sia da ricollegare alla novità di un calcio a porte chiuse e alla minor attenzione difensiva dovuta alla condizione fisica precaria accusata dalle squadre dopo i mesi di stop. Altri sostengono invece che l’esplosione di reti sia dovuta a un fattore prettamente psicologico: la fase difensiva, fondata sulla concentrazione dei singoli interpreti, accuserebbe un difetto di attenzione per via dell’effetto di straniamento provocato dal silenzio tombale di uno stadio vuoto, che, privato delle voci dei tifosi, non incentiverebbe i giocatori a stare sul pezzo con la stessa efficacia di prima.

Si tratta di congetture lecite e rispettabili, che però non sono certo da considerare come verità assolute e incontrovertibili. Dalla stagione in corso, la prima disputata a porte chiuse sin dall’inizio, sembra trasparire una conferma del trend di prolificità: finora – 22ª giornata – i gol siglati sono 640: se venisse confermata la media realizzativa di questa prima parte di stagione – circa 29 reti a giornata -, si sforerebbe nuovamente quota 1100 gol, segno che, vuoi per la minor applicazione delle difese a stadi chiusi, vuoi per una Serie A tatticamente sempre più offensivista e meno speculativa, qualcosa sta cambiando.

Stadi chiusi - Juventus-Inter
Scatto tratto da Juve-Inter dell’8 marzo 2020: il primo big match dell’era Covid-19 (Foto: Vincenzo Pinto/AFP via Getty Images – OneFootball)

Il Milan e le pressioni del tifo

Uno dei casi più estremi e dibattuti quando si parla del nuovo calcio a porte chiuse è senza dubbio quello del Milan. La squadra allenata da Stefano Pioli ha inanellato un’incredibile striscia di risultati utili consecutivi proprio dalla ripresa del campionato a maggio, aprendo un vero e proprio ciclo che sta trovando continuità nella stagione in atto. Sebbene parte del merito per la rinascita rossonera venga attribuita all’impatto di Ibrahimovic e al lavoro encomiabile di Pioli, spesso si fa notare come la perentoria crescita di giocatori come Davide Calabria e Franck Kessié sia da addurre alla minor pressione causata dall’assenza di spettatori.

Secondo tale tesi, l’enorme pressione a cui una tifoseria esigente come quella milanista sottoponeva i suoi giocatori, creava un disagio psicologico accentuato dalla giovane età condivisa da gran parte della rosa di Stefano Pioli. L’esempio più lampante per differenza di resa tra calcio pre e post Covid è quello di Davide Calabria. A maggio 2020, il classe ’96 era uno dei giocatori più presi di mira dai tifosi rossoneri: ogniqualvolta il pallone raggiungeva il suo raggio d’azione, dalla severissima tribuna rossa di San Siro si alzava un rumoroso mugugno. Quando si considera il calcio pre-pandemico, non si può ignorare quello che nel gergo viene definito il dodicesimo uomo. Non si può ignorare l’enorme difficoltà che deriva dal giocare in uno dei grandi templi del calcio con un costante e fastidioso brusio di disappunto che accompagna ogni tocco di palla.

In una recente intervista rilasciata ai microfoni di DAZN, Davide Calabria ha dichiarato:

Pensando alla giovane età, forse l’assenza del pubblico ci ha dato una mano, riusciamo a parlarci in campo, comunichiamo meglio.

Spesso si commette l’errore fanciullesco di considerare i calciatori alla stregua di eroi invincibili, lontani dai problemi e dalle insicurezze che affliggono i comuni mortali. Calabria è la dimostrazione di come anche per i giocatori, l’aspetto psicologico, la fiducia di chi li circonda e la consapevolezza in loro stessi siano aspetti imprescindibili. Il terzino italiano rappresenta oggi una delle colonne portanti del Milan di Pioli, e col ritorno del pubblico a San Siro, che ci si auspica sia il più rapido possibile, chissà che non possa chiudere un cerchio consacrandosi definitivamente. Il tifo, dopotutto, altro non è che un cuore che batte seguendo il ritmo dettato dal suo organismo, rappresentato dalla squadra: lento e irritabile quando il rendimento è sottotono, rapido e travolgente quando i giocatori lavorano in modo efficace.

Davide Calabria esultante dopo la rete del momentaneo pareggio contro la Juventus (Foto: Miguel Medina/AFP via Getty Images – OneFootball)

Liverpool: effetti di un festeggiamento mancato

Un altro caso limite interessante da analizzare è quello della clamorosa flessione accusata dal Liverpool di Klopp. I Reds, attualmente sesti in Premier League, hanno subito in questa prima metà di stagione quasi il doppio delle sconfitte accumulate di quante non ne avessero accumulate nelle due annate precedenti: quattro sconfitte in campionato tra le stagioni 2018/2019 e 2019/2020, e sette in venticinque partite in quella in atto.

Se non si può certo ignorare l’estrema emergenza infortuni che sta lancinando i vicecampioni di Inghilterra da inizio stagione – su tutti quello del leader Virgil van Dijk -, all’origine della flessione dei vicecampioni d’Inghilterra sembrano esserci anche cause di natura psicologica legate all’assenza dei tifosi. A questo proposito, lo stesso performance psychologyst del Liverpool, Lee Richardson, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni in un’intervista con The Athletic:

Sì, è l’effetto del pubblico. Si tratta di una delle prime teorie di psicologia sportiva, elaborata a fine Ottocento da Norman Triplett. Il principio è che il pubblico intacca la performance di uno sportivo/atleta. Infatti, Triplett ha scoperto che più l’atleta è abile, più la sua performance trarrà giovamento dalla presenza di pubblico.

Già da queste dichiarazioni emerge un punto fondamentale: l’incidenza del pubblico sulla resa di una squadra sembra essere direttamente proporzionale alla forza, o quantomeno al momento di fiducia attraversato da quest’ultima. Più una squadra è forte, più i tifosi la rendono forte. Ciò suggerisce che in un caso come quello del Milan, quando un domani San Siro potrà tornare a riempirsi, gli stessi giocatori che prima della pandemia pativano la pressione del pubblico, acquisita una nuova consapevolezza grazie alle prestazioni a porte chiuse, potrebbero essere protagonisti di un ulteriore salto di qualità grazie alla spinta dei tifosi stessi. Richardson aggiunge che non si deve fare di questa teoria una legge, in quanto la sua validità dipende dall’intensità di connessione empatica tra tifoseria e squadra:

In una squadra come il Liverpool, è ovviamente un fattore. La connessione emotiva con i tifosi pesa una buona percentuale.

Un altro “punctum dolens” spesso trascurato quando si considera l’involuzione del Liverpool di Klopp è quello rappresentato dalla Premier conquistata nell’ultima stagione: quella del titolo nazionale era un’ossessione con cui i Reds convivevano dal 1990, anno di conquista dell’ultimo trofeo. Il fatto di aver dovuto festeggiare un’impresa di simile portata in assenza degli stessi tifosi e della stessa Kop -la leggendaria curva di Anfield – che hanno avuto un ruolo decisivo nel conseguimento di tale conquista, sembra aver provocato nei giocatori la stessa amarezza di un urlo di gioia strozzato in gola. Per lo straordinario lavoro fatto da Jurgen Klopp in quasi cinque anni, per cicatrici mai rimarginate come quella dello scivolone di Steven Gerrard contro il Chelsea che costò ai Reds il titolo nel 2014, per la cifra astronomica di 99 punti fatti, il Liverpool e i suoi tifosi meritavano un’altra celebrazione. Riguardo a questo punto, lo stesso Lee Richardson afferma:

Avrebbero dovuto correre sul prato di Anfield esponendo il trofeo di fronte agli spalti pieni. È stato un momento non adeguatamente scolpito nel tempo. Non è stato celebrato come avrebbe dovuto.

Ciò dimostra come le ferite psicologiche che segnano una stagione non siano necessariamente legate a disfatte non smaltite, ma anche a trionfi non abbastanza celebrati. Questo senso di insoddisfazione per una festa meritata e attesa per un ventennio, ma poi disertata per cause di forza maggiore, sembra tutt’ora attanagliare l’animo ricco di gloria sportiva, ma povero di memorie di festa dei giocatori allenati dal manager tedesco. Come direbbe Sorrentino, mai sottovalutare le conseguenze dell’amore.

Liverpool - Stadi chiusi
I giocatori del Liverpool festeggiano il titolo nazionale in un Anfield deserto per le norme anti-Covid (Foto: Laurence Griffiths/Getty Images – OneFootball)

I casi di Milan e Liverpool evidenziano l’influenza innegabile del tifo nel mondo del calcio. Ciononostante, per quanto non ci sia “nulla di meno vuoto di uno stadio vuoto”, come diceva Galeano, questo periodo anomalo ha dato dimostrazione del fatto che il mondo del pallone sia in grado di adattarsi a qualsiasi condizione pur di sopravvivere. Dunque, nell’attesa che la musica possa tornare a suonare, non resta che continuare a godere delle danze silenziose dei giocatori, che nel più anomalo dei periodi ci tengono attaccati a quella normalità pre-pandemia che tanto agogniamo e rimpiangiamo. Sì, si può ballare anche a casse spente.

Mbappé danza nel silenzio del Camp Nou, mentre Piqué tenta goffamente di seguirne il ritmo (Foto: David Ramos/Getty Images – OneFootball)

Rafa nel mondo delle meraviglie

Rafael Leao vive in un mondo tutto suo. Basta osservarlo nei classici sopralluoghi prepartita per rimanerne incuriositi: cuffiette alle orecchie – e fin qui è tutto nella norma – sorriso a trentadue denti alla Eddie Murphy e movenze ciondolanti che richiamano le melodie trap del suo recente album di esordio, Beginning. In campo Rafa, almeno all’apparenza, non sembra mutare il proprio registro.

Specie nel corso della sua prima stagione rossonera, molti tifosi gli hanno criticato un atteggiamento indolente, uno scarso impegno che il giovane portoghese manifestava con un linguaggio del corpo pigro e svogliato. Ciò che più destava frustrazione nei tifosi milanisti era il fatto che Leao, non appena riceveva il pallone tra i piedi, palesava un talento abbacinante, che per via della sua scarsa applicazione minacciava di non essere coltivato nel giusto modo.

Rafa vive in un mondo tutto suo, come appare evidente a chiunque lo osservi nelle sue teatrali espressioni facciali o in quel sorriso puerile che lo accompagna anche quando sta realizzando prodezze in campo. Ma è altrettanto vero che, qualunque esso sia, si tratta di un mondo pieno di talento e qualità.

Rafael Leao
Rafael Leao e uno dei suoi soliti sorrisi beffardi durante Milan-Toro di Coppa Italia (Foto: Miguel Medina/AFP via Getty Images – OneFootball)

La prima stagione rossonera

L’attaccante portoghese originario di Almada arriva al Milan nell’estate del 2019, quando il management sportivo allora rappresentato da Boban e Maldini decide di investire ben trenta milioni per il talento reduce da una florida stagione nel Lille dei miracoli che conquistò la qualificazione alla Champions League; l’operazione, che vede il coinvolgimento di Tiago Djalò, che fa il percorso inverso direzione Lille, viene finanziata dalla dipartita di Patrick Cutrone, rampollo del settore giovanile rossonero e promesso sposo al Wolverhampton.

Si tratta di una sliding door estremante significativa per comprendere la genesi del progetto rossonero che in questa stagione sta raccogliendo tutti i suoi frutti: la società meneghina decide di mettere da parte la sua indole negli ultimi tempi nostalgica, spesso troppo rivolta al passato, incarnata dalla passione da capopopolo di Patrick Cutrone, per assecondare un’idea di lungimiranza sportiva, sposando il talento sconfinato di Rafael Leao.

Nella sua prima stagione in casa rossonera, l’ex Lille si rivela da subito un giocatore tanto talentuoso quanto acerbo e discontinuo. Giampaolo lo fa esordire da titolare a sorpresa in un derby che segnerà il tracollo definitivo della sua esperienza sulla panchina rossonera, ma il portoghese – schierato da ala sinistra in un 4-3-3 – non passa inosservato: sterzate improvvise, doppi passi con frequenza di gamba supersonica e uno strappo palla al piede da felino condiscono la sua presentazione alla Scala del Calcio. Nel secondo tempo la sapienza tattica di Godin, che sarà abile nell’impedirgli di sprigionare la sua velocità, finirà per rubargli la scena, ma le fiammate del portoghese resteranno uno squarcio di luce nella delusione dell’ambiente rossonero per l’ennesimo derby perso.

Il prosieguo della stagione segue lo stesso copione del derby. Leao, pur in un contesto confusionario e sfiduciato come quello del Milan pre-lockdown, regala sprazzi di classe pura come il capolavoro messo a segno nella disfatta contro la Fiorentina: l’asso portoghese riceve palla sul lato sinistro del campo, fa scorrere la sfera con una finta di corpo e serpenteggia tra Milenkovic e Pezzella con una danza leggiadra prima di concludere in rete con un piattone in diagonale.

A San Siro finisce 1-3 per la Viola, ma la giocata fenomenale di Rafa regala un barlume di speranza ai rassegnati tifosi rossoneri. A colpi come questo, Leao alterna prestazioni irritanti, indolenti, che non rendono merito al suo smisurato talento. Il classe ’99, acquistato come punta di movimento, viene prevalentemente schierato da esterno sinistro, ma dimostra una scarsa propensione all’adempimento dei compiti difensivi: quando è chiamato al pressing corricchia con la flemma di chi sta facendo un favore contro voglia e le volte in cui viene immortalato dalla telecamera regala espressioni svagate, da ragazzo all’ultimo banco con la testa tra le nuvole.

Si sa, quando le cose vanno bene i tifosi sono pronti a essere indulgenti coi propri beniamini e possono tollerare anche atteggiamenti poco consoni; in una situazione di crisi nera come quella del Milan pre-Pioli, gli atteggiamenti superficiali hanno un peso triplicato. È questo il motivo per cui il talentino di Almada fatica a trovare continuità, almeno finché “colui che tutto move” ha deciso di regalare ai tifosi rossoneri una sua seconda epifania, cambiando radicalmente il corso degli eventi.

Leao
Leao se la ride in panchina durante Milan-Lazio del 3 novembre 2019 (Foto: Marco Luzzani/Getty Images – OneFootball)

Zlatan e Leao

Se il ritorno di Zlatan Ibrahimovic a Milano produce nell’ambiente rossonero degli effetti miracolosi, uno dei maggiori beneficiari del tocco divino del fuoriclasse svedese è proprio Rafael Leao. È il 6 gennaio del 2020, giorno in cui si gioca Milan-Sampdoria. Al 55′ scocca l’istante tanto atteso dalla numerosissima cornice di pubblico giunta a San Siro: entra il fuoriclasse svedese, e con lui, senz’altro più inosservato, fa il suo ingresso in campo anche l’attaccante portoghese.

Il primo pallone giocato dal gigante di Malmo viene rivolto proprio a Rafa, la cui conclusione viene deviata. Zlatan sembra aver deciso da subito di prendere sotto la sua ala il classe ’99, smuovendolo dal torpore del mondo delle meraviglie in cui sembra intrappolato e incanalandolo verso quello più duro del calcio dei grandi. Il rapporto simbiotico tra i due riecheggia nel giorno del primo gol della seconda vita milanista di Zlatan: in Cagliari-Milan segnano entrambi, e il destino di Rafa sembra destinato ad assumere una nuova piega.

Se è inevitabile sottolineare l’importanza di potersi quotidianamente confrontare in allenamento con un professionista maniacale come Ibrahimovic, è altrettanto doveroso menzionare lo straordinario apporto di Stefano Pioli nel miglioramento dell’attaccante ex-Lille: l’allenatore, sin dalla prima conferenza, ha speso parole al miele per il ragazzo, sottolineandone le infinite potenzialità di crescita. Allo stesso modo, quando Rafa ha offerto prestazioni deludenti, non si è mai nascosto dietro a una retorica morbida, e ha puntualmente fatto presente che il classe ’99, per le sue qualità, doveva dare molto di più.

Leao terminerà la stagione con sei gol e due assist all’attivo, numeri non esaltanti ma nemmeno disastrosi, considerando che si tratta pur sempre di un ventenne alla prima stagione di Serie A. Ma quella che è probabilmente la miglior prestazione stagionale dell’attaccante arriva proprio all’ultima giornata contro il Cagliari, a chiudere un ciclo di crescita individuale e collettiva aperto dai rossoneri proprio all’andata contro i sardi.

Il Milan corona gli straordinari risultati post-lockdown con l’ennesima goleada, e l’attaccante portoghese, prima di uscire dal campo per un leggero infortunio, si rivela semplicemente devastante: non solo le folate di classe a intermittenza che avevano caratterizzato i suoi primi mesi a Milano, ma anche una maggior partecipazione al gioco corale, un sacrificio non evidentemente nelle sue corde, e giocate da predestinato. Propizia l’1-0 con un gioco di suola con cui elude Cragno prima di spingere il pallone – deviato da un difensore – in porta e colpisce una traversa con una meravigliosa rovesciata che rende omaggio all’iconico gol in cilena realizzato a Torino dal suo idolo Cristiano Ronaldo. La stagione è finita, ma Rafa ha fatto capire che da qui in avanti ha intenzione di fare sul serio. Nel suo cervello sembra essere scattato quel click che ha fatto svoltare innumerevoli carriere sportive, e il merito – almeno in parte – è di Stefano Pioli e Zlatan Ibrahimovic. 

Leao Ibra
Ibrahimovic rincuora Leao dopo Milan-Samp del 6 gennaio 2020 (Foto: Miguel Medina/AFP via Getty Images – OneFootball)

La maturazione di Leao

Nella stagione in atto, Leao sta dando conferma di essere uno dei giovani più promettenti d’Europa. Il portoghese sembra aver finalmente svestito i panni del ragazzo negligente dalle potenzialità non sfruttate e sta offrendo un rendimento che, in rapporto alla sua età, fa sperare in un futuro da fuoriclasse. Se il talento non è mai stato messo in dubbio da chiunque lo abbia visto giocare, quel che sorprende nell’evoluzione del classe 1999 è la rapidità con cui ha saputo smussare i tanti difetti tecnico-tattici che ne contraddistinguevano il gioco: il diciassette rossonero oggi pressa con più convinzione, si presta al sacrificio – per quanto non sia evidentemente nelle sue corde – e aiuta più la squadra anche nelle fasi di gioco in cui gli è richiesto di far salire la squadra o lottare sulle seconde palle.

Una delle tappe fondamentali della quasi repentina maturazione del talento ex-Lille è rappresentata da Sassuolo-Milan del 20 dicembre. Ibra, in procinto di tornare a guidare l’attacco rossonero dopo l’infortunio accusato a Napoli, ha una ricaduta, e di conseguenza tutto il peso dell’attacco rossonero graverà sulle spalle di Leao, finalmente schierato centravanti. Come una madre assegna le chiavi di casa al figlio per responsabilizzarlo, per caricarlo di un peso che non abbia a che fare solo con lui, ma con tutta la famiglia, così Stefano Pioli si è ritrovato a consegnare le chiavi dell’attacco rossonero al giovane attaccante, che – forse per la prima volta – è sceso in campo non solo in quanto responsabile di sé, ma di tutto il nucleo famigliare che ogni squadra di calcio rappresenta.

Leao supera l’ardua prova di svezzamento con la lode: segna dopo soli sei secondi e settantasei centesimi, stabilendo il record di gol più veloce nella storia dei cinque principali campionati, e contribuisce al consolidamento del primo posto dei rossoneri. Da quella partita, Rafael sembrerà tutto un altro giocatore, e se il numero della somma gol e assist è già superiore rispetto a quello della scorsa stagione – finora ha collezionato 6 gol e 5 assist – sorprende l’ibridismo tattico che il portoghese ha mostrato negli ultimi mesi.

Esterno sinistro dalle progressioni funamboliche, centravanti di movimento che attacca la profondità e – complice la positività al Covid di Çalhanoglu – anche trequartista e accentratore del gioco offensivo. I numeri rivelano che il ruolo in cui Leao ha una miglior resa in termini di gol e assist è quello di centravanti: cinque presenze condite da 3 gol e un assist. A seguire il ruolo di esterno sinistro, posizione in cui viene schierato più spesso, in una vera e propria staffetta con Ante Rebic: 2 gol e 3 assist in otto presenze. Infine il trequartista, il ruolo più atipico, che aveva già interpretato nelle giovanili dello Sporting Lisbona e che nelle prestazioni contro Bologna e Crotone ha evidenziato le sue abilità in fase di rifinitura: tante occasioni create al Dall’Ara – più un rigore propiziato – e uno splendido assist a coronare una triangolazione perfetta con Ibrahimovic contro i calabresi.

Da un confronto dell’heatmap del portoghese tra la stagione 2019/2020 e quella in atto emerge come il giocatore, complice il ventaglio di ruoli diversi interpretati negli ultimi mesi, abbia radicalmente centralizzato il proprio raggio d’azione. Lo scorso anno Rafa agiva quasi esclusivamente in fascia sinistra, in una posizione che gli garantiva di sprigionare la sua velocità di progressione per arrivare sul fondo e poi crossare con una giocata che è diventata un suo marchio di fabbrica: finta con sbilanciamento del lato destro del corpo e allungo del pallone col piede sinistro, prima di arrivare sul fondo per crossare, come in occasione dell’assist a Saelemaekers in Milan-Roma o di quello a Ibra nel derby.

L’heatmap della stagione in corso, invece, evidenzia come il ventunenne abbia centralizzato radicalmente il suo gioco, risultando efficace sia quando schierato da trequartista/seconda punta come accentratore del gioco offensivo in grado di far risalire la palla dal centrocampo – aspetto del gioco in cui Çalhanoglu eccelle -, sia come centravanti in grado di svariare su tutto il fronte d’attacco. Un’ulteriore testimonianza dell’alto livello ormai raggiunto dal giovane talento è deducibile dall’analisi dei dati avanzati in relazione ai suoi coetanei compagni di ruolo nei top cinque campionati europei.

Spiccano in particolare i seguenti dati: Rafael – secondo le statistiche di WhoScored -, prendendo in esame prime punte, trequartisti e esterni sinistri d’attacco Under 22 con almeno dieci presenze stagionali, è il 3° giocatore per numero di duelli aerei vinti a partita (1.6 ogni partita), il 5° per dribbling riusciti (1.8 ogni partita) – solo 0.1 in meno di João Felix -, il 9° per numero di passaggi chiave (0.9 a partita). Se le impressioni possono ingannare, il supporto freddo e inconfutabile dei numeri ribadisce come il ventunenne sia uno tra i più interessanti giovani attaccanti del mondo.

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Margini di miglioramento

Non resta che porsi un semplice quesito: cosa manca a Rafael Leao per perfezionare il suo gioco e diventare un giocatore d’élite? Probabilmente solo tempo. Il portoghese ha 21 anni, e nella stagione in atto sta mostrando miglioramenti che, soprattutto in termini di atteggiamento, sembravano impensabili. Uno degli aspetti su cui ha sicuramente margini di miglioramento è la continuità nell’arco dei novanta minuti: troppo spesso l’ex Lille si concede pause nel corso della partita, momenti in cui non sembra nemmeno essere in campo.

Una maggiore consapevolezza delle proprie qualità e della gestione delle energie psico-fisiche -caratteristiche che si acquisiscono con l’esperienza – dovrebbero aiutare il ragazzo nel miglioramento di questo fondamentale. Visto il considerevole miglioramento in termini di prolificità rispetto alla stagione scorsa, la fase di gioco in cui il portoghese è più carente è probabilmente quella difensiva, dove fatica ancora a coordinarsi coi movimenti dei compagni nella prima pressione, spesso esercitata in maniera troppo rinunciataria.

Non è un caso che la spinta offensiva di Theo Hernandez assuma due facce diverse, a seconda che si trovi davanti nel ruolo di esterno sinistro d’attacco Rebic o il numero diciassette rossonero: quando è in campo il croato, il terzino francese sembra sentirsi molto più libero di spingere a tutto gas, sicuro del ripiegamento difensivo del suo compagno di fascia; al contrario, quando lo slot di ala sinistra è occupato da Rafa, Theo, più preoccupato, si dedica maggiormente a compiti prettamente difensivi. Anche questo è un aspetto su cui il talento classe ’99 sta lavorando con efficacia, e la crescente fiducia tecnica e mentale non può che rappresentare un’arma in più per il perfezionamento del suo bagaglio calcistico.

Leao Hauge
Leao esulta con Hauge dopo la rete siglata contro il Torino (Foto: Marco Luzzani/Getty Images – OneFootball)

Fanciullezza

Se la maturazione tecnico-tattica è sotto gli occhi di tutti, si può dire che Rafael Leao non sembri aver mutato il suo approccio fanciullesco al gioco. Sebbene egli interpreti le partite con maggiore serietà, le sue espressioni divertite e sorridenti e i suoi balletti accennati nei sopralluoghi pre-partita continuano a dar sfoggio di una personalità con cui è difficile non empatizzare.

Di recente, come detto, l’attaccante rossonero ha pubblicato il suo primo album, in cui parla dei sacrifici fatti per salvarsi da un quartiere difficile come quello del Bairro do Jamaica – in provincia di Almada – per arrivare a giocare a San Siro, con la stessa spensieratezza di sempre. Il gol siglato a Benevento, forse finora il più bello della sua carriera, è la conferma di come Rafa, dopotutto, dia ancora la sensazione di giocare con la svagatezza di un bambino al campetto con gli amici. Ha appena superato il portiere grazie a un’accelerazione fulminante, quando si prepara a calciare da posizione da posizione quasi impossibile; prova un pallonetto, e ancora prima che la palla scavalchi il portiere con una traiettoria perfetta, sul volto di Rafa si stampa il solito sorriso a trentadue denti, che ce lo fa immaginare bambino, in un campetto di terra dell’oratorio, a fare magie con i coetanei del barrio. 

In un calcio destinato a essere dominato negli anni a venire da uomini-macchina dal fisico scultoreo e dallo stile di gioco severo quanto potente – gli Haaland e i de Ligt -, la “fanciullezza pascoliana” del sorriso con cui Leao accompagna ogni giocata sembra un’eccezione romantica. A farlo risultare unico è proprio la spensieratezza puerile con cui si cimenta in un mondo adulto e istituzionalizzato come quello del calcio. Rafa sembra incarnare la gioia che ogni bambino prova nel giocare a calcio, dal campetto mal ridotto del Bairro do Jamaica in Portogallo a quello in sintetico di un oratorio milanese. Perché come diceva Pascoli, “la sostanza psichica è uguale nei fanciulli di tutti i popoli. Un fanciullo è fanciullo allo stesso modo da per tutto”. È questa, al di là del suo talento, la potenza di Rafael Leao.

Leao sorride ancor prima che il suo geniale pallonetto si insacchi in rete (Foto: Francesco Pecoraro/Getty Images – OneFootball)

Nel tardo pomeriggio odierno, a San Siro andrà in scena quella ch’è senza dubbio la sfida più attesa del weekend, tra la capolista Milan e l’Atalanta di Gasperini. Una partita che potrebbe conferire definitivamente ai rossoneri il titolo di campioni d’inverno, a coronamento di un anno davvero strabiliante. A maggior ragione se si pensa a quanto succedeva più o meno allo stesso punto della scorsa stagione, e contro il medesimo avversario di giornata, seppur a campi invertiti. Il 5-0 subito a Bergamo poco più di un anno fa segnava il punto più basso del campionato rossonero, lasciando presagi di un futuro tetro, invece rivelatosi poi inaspettatamente luminoso. Scopriamo dunque cosa è cambiato nell’ultimo anno all’interno del mondo Milan.

Sul finire del XIX secolo il compositore russo Čajkovskij diede vita a Il lago dei cigni, un balletto destinato a prendersi la scena nelle sale di tutto il mondo. Un centinaio di anni più tardi, un altro cigno, altrettanto candido ed elegante, portò quel balletto al suo massimo splendore decidendo di danzare con un pallone. Il suo palcoscenico non era in legno massello, ma in erba. Il suo pubblico non reggeva un binocolo da teatro, ma sciarpe e bandiere. Questa è la storia di Marco van Basten, il Cigno di Utrecht.

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