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Al Milan non esistono estati tranquille. I tifosi rossoneri sono sempre stati vittime di immensi periodi di incertezza nei periodi estivi recenti. Dai calciatori fino alla proprietà: pensiamo all’estate del rinnovo di Donnarumma, oppure al tradimento di Çalhanoğlu. I mercati faraonici delle «cose formali», le consuete perdite a parametro zero dei pilastri della formazione, il dietrofront su Ralf Rangnick. Fino all’esilio di Paolo Maldini, licenziato da Gerry Cardinale senza troppe carinerie, quindi alla cessione di Sandro Tonali. Difficilmente non si trova qualcosa da raccontare nell’universo milanista.

Alzi la mano chi a fine campionato non ha mai buttato un occhio sulle rose delle squadre retrocesse alla ricerca dell’occasione di mercato più vantaggiosa o che ammirando un calciatore non ha mai esclamato – vedendolo scivolare in fondo alla classifica – “questo non è da Serie B”.

Vi rispondo io: nessuno.

Proprio per questo oggi propongo un simpatico giochino per ingannare la noia di queste giornate afose. Facciamo finta che le squadre retrocesse [Spezia, Sampdoria e Cremonese], in virtù della retrocessione, siano costrette a svincolare i loro tesserati, liberandoli a parametro zero. I club di A, incluse le promosse dalla B, prenderanno parte ad un draft a chiamata in cui, partendo dall’ ultima classificata fino al Napoli campione d’ Italia, sceglieranno uno dei giocatori liberi come rinforzo in vista del prossimo campionato.

Questa è la lettera di un’intera generazione di milanisti. Una generazione di ventenni, ancora troppo piccoli per ricordarsi nitidamente dell’ultima Champions vinta ad Atene, ma abbastanza grandi per aver vissuto gli ultimi strascichi nostalgici del Milan di Berlusconi. È una generazione che ha convissuto da subito con un conflitto: da un lato il peso di una storia gloriosa finita da poco, i racconti delle notti di Champions, persino gli sbeffeggiamenti dei fratelli più grandi che “ma è possibile che da quando vieni allo stadio abbiamo smesso di vincere”; dall’altro, appunto, un presente decadente, fatto di squadre inadeguate inevitabilmente schiacciate dal peso di una storia troppo pesante. Noi, appartenenti a quella generazione di milanisti che sembrava maledetta, noi che siamo cresciuti vivendo l’epopea degli scudetti dell’Inter di Mancini, noi che ad Atene non eravamo ancora abbastanza appassionati per gioire, ma a Madrid, quando in finale c’era l’Inter, amavamo il Milan già abbastanza per soffrire. Noi che ci chiedevamo se il nostro turno sarebbe mai arrivato, o se la nostra generazione, come una macchia tragica sul destino del Milan, ne avrebbe segnato la fine degli orizzonti di gloria. Poi, in una giornata torrida di fine Agosto 2010, proprio a pochi mesi dal triplete nerazzurro, sei arrivato tu, e tutto è cambiato. Caro Zlatan, questa lettera è per te, ed è l’unico modo che abbiamo per dirti grazie. Per tutta la tua carriera hai girovagato per il mondo con la tua solita aria da spaccone, dimostrando che a prescindere dalla piazza il tuo talento poteva generare, sempre, più di trenta gol stagionali. Poi sei arrivato da noi, ci hai fatto sentire importanti, ci hai fatto sapere che anche noi potevamo vincere, noi della generazione dei tifosi più sfigati; ma soprattutto ci hai scelto, hai deciso che eravamo la tua isola felice. Da nomade quale sei sempre stato ti sei deciso a trovare casa, e hai piantato da noi le tue radici. Più che per le gioie, più che per i gol, più che per l’umiltà con cui ti sei sobbarcato il peso di un’intera società in crisi tre anni fa, ti ringraziamo per questo: per averci scelto, per esserti fermato così a lungo. Grazie.

Zlatan festeggia lo scudetto con un sigaro in bocca
L’iconico festeggiamento di Ibrahimovic a Reggio Emilia (Foto: Tiziana Fabi – AFP)

“L’Aquila” Mike Maignan ha smesso di volare; la sua leadership, il carisma innato con cui guidava in modo ossessivo la retroguardia rossonera appaiono come un lontano ricordo. L’ultima presenza del francese risale a Milan-Napoli del 18 settembre: da lì in poi, di Maignan si è saputo poco o nulla, quasi come si trattasse di un disperso. Theo Hernandez vive le partite a testa bassa, battendo il cinque agli avversari come un piccolo chierichetto; sembra non reagire più a tutto ciò che accade in campo, ha un approccio quasi stoico, e nemmeno le provocazioni nei derby, che fino a pochi mesi fa lo facevano scattare nervosamente, sembrano poterlo scalfire. Dal ritorno al Mondiale il bilancio è disastroso: sostituito dopo 45 minuti a Lecce, non convocato a Roma contro la Lazio per sospetto affaticamento muscolare, e diverse prestazioni gravemente insufficienti.

Rafael Leao ha iniziato il 2023 come aveva chiuso il 2022: dribblando. Saltando tutti, più volte. Sperimentando nuove forme di dribbling, come il tunnel sul malcapitato Daniliuc all’Arechi in Salernitana-Milan. Per lui è un semplice divertissment. Per chi deve affrontarlo assomiglia più all’emicrania mista alla paura di essere ridicolizzati. Chi guarda da casa, deve rivedere in loop quattro o cinque volte prima di capire come ha fatto, sempre se ci riesce.

Quando parla del proprio talento Menez lo fa come riferendosi alla manna dal cielo nel senso letterale del termine. Qualcosa piovuto inspiegabilmente, donato da Dio per permettere al popolo ebraico di cibarsi in pieno deserto e non morire di fame. Menez più che di fame, rischiava di morire per la fame. Dentro un carcere oppure per strada. Houdini, come verrà soprannominato da Carlo Zampa nella sua parentesi a Roma, non fa prigionieri quando parla del suo passato. O il calcio, oppure la delinquenza. Non ci sono mezze misure per chi viene da uno dei quartieri più poveri di Parigi, dove l’ascensore sociale ha (quasi, a quanto pare) completamente fallito e se sai correre bene puoi fare o il calciatore o lo scippatore. Ma Menez oltre a correre bene aveva qualcosa in più, qualcosa che quell’ascensore poteva farglielo prendere e portarlo a giocare a calcio in mezzo ai grandi.

 

Arrivare a scadenza di contratto, nel calcio attuale, è ormai una pratica diffusa. Questo può avvenire per diversi motivi: mancato accordo con la società detentrice del cartellino, voglia (e agilità) di spostarsi a prescindere dall’offerta o, ancora, mancanza di volontà di entrambe le parti nel rinnovare il contratto in essere. Così si rientra poi nella categoria dei “parametro-zero” dicitura ormai super abusata, che citando l’Enciclopedia Treccani, indica l’acquisizione a titolo gratuito del cartellino di un atleta (da parte di una società sportiva).

Con le sei gemme, mi basterebbe schioccare le dita”. Non c’è probabilmente un villain più iconico di Thanos nell’intera produzione cinematografica del secondo decennio degli anni Duemila. Nessuna missione è tanto inquietante quanto coinvolgente come quella intrapresa dal titano del Marvel Cinematic Universe per perseguire il suo folle piano di sterminare metà della popolazione dell’universo. Una marcia incessante e inesorabile, il cui successo è praticamente annunciato sin dall’inizio. Non c’è un momento, durante quello che è l’atto conclusivo del percorso di Thanos, ovvero Avengers: Infinity War, in cui si ha realmente l’impressione che il titano possa fallire. Nonostante debba fronteggiare i più grandi eroi della terra e non solo, la speranza che il suo piano naufraghi non si eleva mai a ottimistica previsione, ma rimane appunto una speranza, destinata inesorabilmente a restare tale e venire delusa.ù

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