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Sono bastate quattro partite di Champions League per far partire un processo: le sconfitte di Chelsea, Tottenham e Liverpool ed il pareggio del City sul campo del Lipsia hanno messo sul banco degli imputati la Premier League. Così come una rondine non fa primavera, possono questi risultati negativi fornirci sufficienti prove per affermare che il campionato più ricco del mondo non sia quello tecnicamente più valido?

Quando riapre gli occhi, sente un leggero fischio alle orecchie. Una luce lampeggia di fronte a lui, una voce metallica sta dettando qualche ordine da seguire. In tono gentile, ma deciso. I viaggi in aereo gli causano sempre qualche acciacco al collo, lentamente si massaggia la porzione di corpo sotto l’orecchio, intanto focalizza con gli occhi ancora semichiusi quella luce che continua a lampeggiargli di fronte. Finalmente capisce, prende il lembo alla sua destra e lo unisce con quello alla sua sinistra. Un clic metallico, la cintura si chiude. Gira la testa ancora dolorante verso il finestrino, vede il terreno che via via si fa sempre più vicino. L’aereo poi con un piccolo sobbalzo tocca terra. Qualche timido applauso, sempre imbarazzante, e inizia la lunga trafila per uscire dall’aeroporto. In maniera estremamente meccanica l’uomo recupera la sua valigia, poi si dirige all’uscita dell’aeroporto. Sono 10 anni ormai che non torna a Londra, da quando è andato in pensione.

Ogni compleanno rappresenta per ciascuno di noi un momento da festeggiare, ma anche un momento in cui dobbiamo riflettere e fare dei bilanci, capire quale visione abbiamo di noi stessi e magari rispondere a quella domanda che spesso gli head hunter amano fare ai candidati in sede di primo colloquio, e davanti alla quale oggi si ritrova anche un certo Harry Kane: “come ti rivedi tra cinque anni?”

Il calcio è un argomento fortemente divisivo: ci sono spesso discussioni, opinioni, tesi contrapposte. E’ molto raro che ci sia qualcosa che riesca ad escludere qualsiasi possibilità di obiezione. All’interno dell’alveo ristretto di affermazioni pacificamente accettate da tutti rientra il riconoscimento della coppia di allenatori più influente dell’ultimo ventennio. Chiunque mastichi un po’ di calcio dirà sempre: Pep Guardiola e José Mourinho. Due allenatori tanto influenti, quanto profondamente diversi tra loro, raro trovare qualcosa che li accomuni veramente. L’eccezione a questa regola è stata costituita da Pierre-Emile Hojbjerg. 

L’imprinting con Guardiola

Nella primavera del 2013 un Hojbjerg non ancora maggiorenne ha esordito in Bundesliga con il Bayern di Jupp Heynckess, che, da lì a poche settimane, si sarebbe ritrovato a vincere tutto. Nel luglio successivo, a prendere in mano quella squadra fortissima sarebbe stato proprio Pep Guardiola. Dopo un anno sabbatico il tecnico catalano accolse la sfida di esportare il suo Juego De Posicion ben più lontano dal Camp Nou. Appena presa in mano la squadra Guardiola sembrava essersi perdutamente innamorato del giovane danese. Come narrato in Herr Pep – meraviglioso libro di Martin Perarnau – l’ex tecnico blaugrana raccontava di aver trovato un diamante grezzo. Ma non solo; Guardiola ammette candidamente che il danese gli ricorda sé stesso, per un motivo in particolare.

Il modo in cui si posiziona col corpo quando riceve il pallone, finta di andare da una parte e poi va dalla parte opposta.

Per quanto grandi fossero le premesse il tonfo dell’amore tra Hojbjerg e Guardiola è stato ancora più fragoroso. Solo sette partite il primo anno, otto il secondo che finisce anzitempo, quando a gennaio viene mandato in prestito all’Augsburg. Il nuovo ruolo di Lahm, l’acquisto di Thiago Alcantara e l’esperienza di Javi Martinez sono stati tutti fattori determinanti per lasciare così poco spazio al danese. Dopo l’Augsburg un altro ritiro estivo con Guardiola, che, ancora non convinto, lo rispedisce in prestito questa volta già ad agosto, allo Schalke 04. Quella sarebbe stata anche l’ultima stagione di Pep in Baviera: tornato dal prestito allo Schalke, Hojbjerg non troverà più il tecnico spagnolo e verrà ceduto, questa volta a titolo definitivo, al Southampton

Guardiola e Hojbjerg nel primo ritiro in Trentino
Guardiola e Hojbjerg nel primo ritiro in Trentino (Imago-OneFootball)

La Premier League e la chiamata di Mourinho

Arrivato ai Saints è sembrato subito essere a suo agio nel calcio ultra-fisico della Premier. Infatti dopo un apprendistato sulla pulizia tecnica, sulla giusta postura del corpo nell’effettuare il passaggio e nell’elusione del pressing – sotto la guida di Guardiola – in Inghilterra, Hojbjerg si è irrobustito e ha acquisito un grande senso di leadership. A soli 23 anni è diventato capitano del Southampton. A 25 è invece diventato nell’estate del 2020 il prescelto per essere l’architrave su cui José Mourinho, tornato in Premier League alla guida del Tottenham, ha voluto costruire il suo centrocampo. Il tecnico portoghese lo ha infatti messo sin da subito al centro del suo progetto tecnico in entrambi le fasi di gioco.

Il danese è un centrocampista estremamente cerebrale che abbina alla sua (ormai) imponente stazza fisica e alla sua pulizia tecnica anche un senso del gioco assolutamente fuori dal comune. Negli Spurs dell’anno appena passato spettava a lui il compito di coprire gli half-spaces. Con corse spesso all’indietro andava a compensare i movimenti degli invasori avversari per permettere ai difensori centrali di difendere più posizionalmente il centro e ai terzini di stare sull’ampiezza. Questa capacità di prevedere dove andrà il pallone con il giusto anticipo gli ha permesso di totalizzare ben 49 intercetti nella Premier League appena finita, ben più di 1 a partita. 

Ma per il gioco del Tottenham Hojbjerg ha rispolverato anche diverse conoscenze affinate ed acquisite sotto Guardiola. Mourinho, conoscendo bene le caratteristiche di Kane e Son, ha sempre saputo quanto potesse essere difficile risalire il campo con dei lanci lunghi. La resistenza al pressing, la capacità nel taglia-e-cuci corto e la spiccata propensione al laser pass taglia-linee, hanno reso il danese una vera e propria colonna portante di tutto il sistema in entrambe le fasi. Tanto fondamentale per tamponare gli attacchi avversari, quanto per provare a costruire i propri. Probabilmente, insieme ai due attaccanti, rappresenta l’unica nota positiva di una stagione molto deludente per gli Spurs. Non è un caso che sia l’unico giocatore di movimento ad aver giocato tutti i minuti del campionato, come non lo è che nella (clamorosa) eliminazione in Europa League fosse assente.

Hojbjerg in azione contro l'Aston Villa
Hojbjerg in azione contro l’Aston Villa (Foto: Rui Vieira-Imago-OneFootball)

L’Europeo di Hojbjerg con la Danimarca

A causa delle prestazioni altalenanti nel primo biennio con i Saints, Hojbjerg non ha avuto l’opportunità di partecipare ai Mondiali di Russia 2018. Euro2020 è stata dunque la prima grande competizione per Nazionali a cui il centrocampista del Tottenham ha partecipato ed è stato senza dubbio tra i migliori (forse il migliore?) di tutta la spedizione. In coppia con Delaney ha formato una cerniera di centrocampo completissima che ha permesso alla Danimarca – fatta eccezione della prima drammatica gara – di giocare un calcio arioso ma concreto per tutta la competizione. Sia il centrocampista del Tottenham che quello del Borussia Dortmund hanno interpretato alla perfezione il ruolo del box-to-box. La completezza di Hojbjerg si evince anche dalla varietà di statistiche in cui eccelle. Durante questo europeo il danese è stato tra i calciatori che hanno guadagnato più metri verso la porta avversaria grazie ai passaggi (263m per 90′), ha totalizzato più di 2 intercetti a partita (13 totali) e 1,8 key-passes a partita.

Il gioco della Danimarca si è sposato alla perfezione con tutte le vocazioni di Hojberg: quelle più portate al pressing così come quelle più immediatamente votate alla ricerca dell’attaccante. Il primo (dei tre) assist confezionato dall’ex centrocampista del Bayern Monaco è nel gol del vantaggio dei danesi contro il Belgio. In una delle partite più sbilanciate dell’Europeo dove la squadra danese ha creato nettamente di più – poi persa dovendosi arrendere ad un De Bruyne versione deluxe – Hojbjerg ha mostrato a tutti quanto sappia guidare tutta la squadra nel pressing, che sensibilità abbia nel corto e che ottimo tempo d’anticipo possegga.

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Ma nonostante un’ottima partita contro il Belgio, e addirittura un doppio assist nel trionfo contro la Russia dell’ultima partita del girone, il picco prestazionale del numero 23 danese è stato senza dubbio nella discussa ma bellissima semifinale contro l’Inghilterra. Contro la nazionale dei Tre Leoni il centrocampista degli Spurs ha fornito una prestazione di altissimo livello chiudendo la gara con ben 7 contrasti vinti, 3 intercetti e 1 key-pass. Una prestazione a tutto tondo che delinea ancora di più Hojbjerg come uno dei dominatori della mediana negli anni a venire. 

In un duello contro Mount
In un duello contro Mount: il calciatore inglese ha cercato più volte di sfuggire alla zona di influenza di Hojbjerg per giocare più liberamente (Foto: NickPotts-Imago-OneFootball)

Quale futuro per Hojbjerg?

Dopo la partenza di José Mourinho direzione Roma, il nuovo allenatore degli Spurs con cui si ritroverà Hojbjerg sarà Nuno Espirito Santo. Il tecnico portghese nella sua esperienza al Wolverhampton ha dimostrato di voler sempre almeno un palleggiatore puro nei due di centrocampo (Ruben Neves, Joao Moutinho). Sarà interessante vedere come assemblerà il centrocampo degli Spurs che ad oggi, vede nel solo Lo Celso un calciatore con quelle caratteristiche.

Anche per questo si è più volte vociferato di un interesse della Roma per il danese, che seguirebbe così il suo nuovo mentore sulle sponde del Tevere. Il costo del cartellino è molto elevato – si parla di una cifra sui 40 milioni – ma da un punto di vista squisitamente tattico un centrocampista del calibro di Hojbjerg alzerebbe vertiginosamente il livello del centrocampo capitolino. Grazie alla sua versatilità potrebbe giocare come classico 5 con ai lati Veretout e Pellegrini, ma anche, ricalcando uno schema simile a quello di Fonseca, in un centrocampo a due dove potrebbe integrarsi sia col francese che con Villar

Lo sforzo economico sembrerebbe alquanto fuori dalla portata delle tasche della Roma, ma per come il neo-tecnico giallorosso ha parlato del suo numero 5, non stupirebbe nessuno se facesse carte false per averlo. D’altronde, qualche anno fa quell’altro allenatore piuttosto influente, disse che parlando di Hojbjerg si parla della cosa “più simile a Busquets vista su un campo da calcio”.

Dopo l’ottimo avvio di stagione che aveva visto per diverse giornate il Tottenham addirittura al comando della classifica, l’ormai ex squadra di Mourinho si è andata pian piano arenando verso piazze che avrebbero potuto mettere a rischio la partecipazione non solo alla prossima Champions League, ma anche all’Europa League. Una piega nell’andamento che ha poi portato all’ancora fresco esonero del tecnico portoghese. Una chiusura anticipata, postasi sulla falsariga di luci ed ombre che ha condizionato le ultime annate dello Special One, e che adesso apre nuovi dubbi sulla sua figura.

Effetti del Genio, Erik Lamela

Di fronte ai capolavori, la reazione degli uomini è spesso quella di un’esaltazione mista allo spavento. L’espressione assunta da Sergio Reguillón in seguito al gol di rabona del Coco Lamela contro l’Arsenal ricorda l’Urlo di Munch. Il terzino degli Spurs è esultante ma al tempo stesso pallido: le mani nei capelli e l’espressione di terrore manifestano la condizione di un uomo che ha appena assistito a un miracolo inatteso.

In effetti, quando Lucas ha scaricato il pallone per l’argentino, nessuno aveva percepito il minimo pericolo; anzi, Lamela sembrava in controtempo. Poi, dal nulla, il tempo all’Emirates si è fermato e il genio, travestito da Erik Lamela, si è palesato ricordandoci quanto l’imprevedibilità sia in grado di sconvolgere equilibri sottili. 

Calcio e Arte

L’esecuzione è di una bellezza disarmante: l’ex Roma pianta a terra la gamba destra e la avvolge col piede sinistro, che con un tocco di punta da biliardo imprime un effetto a rientrare al pallone. La sfera passa tra le gambe di Thomas Partey, nell’unico pertugio disponibile, e si insacca all’angolino. Se l’aspetto estetico del gol non può certo passare in secondo piano, quel che sorprende della rabona di Lamela è la sua efficacia: il Coco sembra aver trovato un compromesso tra “bello” e “utile”, dimostrando come l’unico modo per ottenere la migliore resa, talvolta, sia quello di ricercare la bellezza.

Realizzare un gol simile richiede un talento senza confini, e l’Argentino non è nuovo a questo tipo di prodezze – si ricordi il gol segnato, sempre in rabona, in Europa League contro l’Asteras Tripolis -, ma non è da sottovalutare il processo che ha spinto Lamela a tentare un colpo di tale calibro. La tipica perifrasi con cui si commentano prodezze simili (“È già difficile pensarlo questo gol, figurarsi farlo”) nasconde un’ingenuità: colpi di genio simili non si pensano.

Supporre che tra l’istinto e l’atto che hanno condotto Lamela a compiere il suo capolavoro vi sia stato un intermezzo di riflessione, equivale ad affermare che Federer debba pensare prima di un rovescio, che Fontana abbia dovuto contemplare ogni sua tela prima di squarciarla con un taglio, o che Bowie abbia dovuto fare brain-storming prima di scrivere Space Oddity. Simili colpi di genio non sono prevedibili, accadono e basta, e sono il frutto istintivo di riflessioni – nel caso di Fontana e Bowie – e ripetizioni del gesto tecnico – nel caso di Federer – durate una vita.

Il prodotto finale in sé altro non è che il momento in cui gli artisti raccolgono i frutti seminati lungo la propria esistenza: non ci si può improvvisare artisti, pensando e producendo un prodigio nel medesimo momento, l’espressione del genio a cui si dà forma va coltivata con tempo e talento. Sebbene calcio e arte siano per certi versi due mondi distanti, il gesto tecnico di Lamela, così come la reazione munchiana di Reguillón, ha tutte le stimmate di un’opera d’arte: emoziona, spaventa, esalta e non si può smettere di guardarla. 

Tutti osservano il gol di Lamela
La splendida traiettoria indovinata da Lamela (Foto: Julian Finney/Imago Images – OneFootball)

Un gol virtuale

Si sa, il genio ha bisogno di libertà per operare. Incatenarlo, equivale ad annullarlo. È per questo motivo che il guizzo strabiliante del Coco sembra così estraneo al suo contesto. Il teatro che fa da cornice alla rabona di Lamela è un Emirates vuoto, desolante. Se la funzione del calciatore è quella di procurare gioie ai suoi tifosi, il gol dell’ex Roma è paragonabile a una mostra d’arte disertata, o a un concerto di una band storica a cui nessuno si è presentato.

La bellezza del gesto resiste, ma il contrasto creato dal contesto innaturale aggiunge una nota nostalgica: il gol l’hanno visto tutti, chi dalla propria TV in tempo reale e chi dal proprio smartphone su suggerimento di un amico. Nessuno, però, potrà mai dire “Ero all’Emirates quando Lamela ha segnato in rabona contro l’Arsenal nel derby di Londra. È come se la presenza dei tifosi rappresentasse un certificato di convalidazione del gesto. Le grandi prodezze necessitano di un pubblico con cui dialogare, e se quest’ultimo manca, non conservano il medesimo valore.

La fruizione telematica del gol di Lamela è assimilabile a un tour virtuale in una sala del Louvre: le opere sono identiche, ma l’esperienza dal vivo è imparagonabile. La vera differenza è che mentre milioni di persone si sono trovate faccia a faccia con la Monnalisa – forse non proprio faccia a faccia, considerata la coda – nessuno, se non gli attori stessi del teatro dell’Emirates, è stato testimone del gol di Lamela. Se fosse stato realizzato a porte chiuse in un passato non troppo lontano, il gol sarebbe diventato una leggenda nebulosa da raccontare ai nipotini; oggi invece, tra Sky Sport, Youtube, Instagram et similia, tutti ne hanno usufruito e lo hanno condiviso come se si trattasse di un prodotto di consumo, ma nessuno l’ha visto. 

Lo scenario del gol
L’Emirates vuoto che fa da cornice al capolavoro del Coco (Foto: Julian Finney/Imago Images – OneFootball)

La rabona di Lamela è un’opera decadente

La pandemia, sulla scia della digitalizzazione, ha radicalmente modificato il nostro rapporto con l’estetica. Quella che prima del Covid-19 era una bellezza fruibile per via diretta – nei musei, negli stadi, e nei teatri -, oggi è una bellezza mediata.

La chiusura dei luoghi di assembramento ci ha costretto a stabilire un nuovo rapporto con i gesti tecnici che eravamo soliti ammirare allo stadio, così come con i quadri sui quali indugiavamo a una mostra. Il progresso tecnologico ci ha consentito di non rinunciare completamente alla fruizione di tali meraviglie, ma è difficile convincersi che il filtro dei dispositivi virtuali possa restituire la stessa esperienza dialettica offerta dal contatto diretto.

I musei virtuali faticano a entusiasmare persino la generazione dei nativi digitali, e la rabona di Lamela, segnata in un Emirates deserto, sembra assumere un nuovo significato: non più un capolavoro espressionista, bensì l’opera di un grande artista in fase decadente. Esteticamente impeccabile, ma mancante del calore umano che nessuna riproduzione virtuale è in grado di comunicare. Ecco che, forse, si è individuata una differenza ontologica che rende un gesto artistico irreplicabile per via telematica: il rapporto con lo spettatore.  

Lamela esulta e Reguillón non ci crede
Reguillón con le mani nei capelli corre al fianco di Lamela (Foto: Julian Finney/Imago Images – OneFootball)

Il valore e l’importanza di un percorso è data dalla finitezza dello stesso. Un concetto elementare, in linea con la filosofia del “non importa come si inizia, ma come si finisce”.  È altrettanto chiaro, tuttavia, che il più convincente e ambizioso dei cammini debba poggiare su solide basi, da impostare fin dalle sue prime battute. Un discorso nel quale il pallone non fa certo eccezione. Tottenham-Manchester City è un incontro che si inserisce in quest’ottica nell’appassionante vetrina della Premier League.

Ha un bacino idrografico da 12 935 km², oltre ad una lunghezza stabilita attorno ai 346 km. Non vi è nessun dubbio sulla sua portata storica e geo-politica per la capitale inglese, così come per l’importanza nei traffici commerciali: senza il Tamigi, non c’è Londra. Nella lista delle peculiarità del corso d’acqua più importante del suolo britannico, bisogna annoverare anche 3 date: 5 settembre 1882, 6 settembre 1913 e 1° luglio 2001.

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