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A Valencia, quando gioca il Valencia, la città si paralizza. La gente parcheggia in doppia e anche tripla fila, le macchine invadono i marciapiedi, il flusso del traffico nelle strade è necessariamente diretto dai vigili urbani, tutto va più lento. Lo stadio è in un’area molto frequentata della città: si trova infatti alle spalle dell’università e del viale intitolato a Vicente Blasco Ibáñez, noto scrittore valenciano. Pertanto passare sotto al Mestalla quando c’è una partita in corso fa battere il cuore, perché i cori del tifo valèncianista si sentono rimbombare nell’aria ed entrano nelle case.

Come ci immaginiamo il calcio del futuro? Stiamo vivendo un periodo di transizione, oppure siamo già nel calcio del futuro? E questo, soprattutto, che forme ha? Le risposte a queste domande non sono ancora definitive, né definite, perché questo è il futuro, indefinito e incerto. Ma qualcosa inizia a delinearsi, anzi, qualcuno, più di qualcuno per la verità: calciatori con corpi impensabili, l’anello successivo della catena evolutiva, dei prototipi di atleti che, di questo passo, potremo considerare “perfetti” solo per il decennio in corso, in attesa di un rinnovamento del significato di perfezione. Di tracce di futuro vere e proprie adesso ce ne sono solo due, Erling Haaland e Kylian Mbappé, universalmente già riconosciuti come i prossimi fuoriclasse assoluti dei prossimi dieci, quindici anni di calcio. Ma è chiaro che una generazione di calciatori non può solo fermarsi a due figure. 

Usciva nelle sale del lontano 1986 ed è oggi il manifesto del genio di David Lynch, regista un po’ illuso, un po’ disilluso, un po’ tanto oscuro e tanto innovativo. Ora però, chiariamo in partenza, il film a cui mi riferisco prende il nome dalla celebre canzone Blue Velvet di Bobby Vinton, colonna sonora dell’opera, ma in Italia è conosciuta come “Velluto blu”. Quindi, se ci pensate bene, chiamare questo film “Velluto blu” come è stato distribuito in Italia, sarebbe un po’ come leggere “L’astronauta” per il titolo del biopic su Elton John oppure, peggio ancora, “Rapsodia boema” al film che narra i Queen. Perché le canzoni in inglese naturalmente conservano i titoli in lingua madre, e nell’Italia dei 60 milioni di allenatori il “Sottomarino giallo” è il Villareal, non di certo la popolare hit dei Beatles. I testi non cambiano di paese in paese da sempre.

Quando la sera del 2 settembre 2017 l’Italia di Giampiero Ventura si presenta al Santiago Bernabeu per affrontare la Spagna non ci siamo ancora arresi all’idea di un futuro drammatico per la nostra Nazionale. Gli azzurri scendono in campo con un 4-2-4 iper ambizioso in cui Lorenzo Insigne e Antonio Candreva assistono il duo d’attacco Belotti-Immobile; di contro la Spagna di Lopetegui risponde rinunciando ad una prima punta e utilizzando David Silva come riferimento più avanzato. Alle sue spalle galleggiano la next big thing del calcio spagnolo Marco Asensio e, soprattutto, Isco.

La carriera di Dani Parejo è stata per certi versi burrascosa, piena di soddisfazioni certo, ma anche di stop improvvisi e ripartenze inaspettate. Un paradosso per uno che in campo è così cerebrale, preciso, anche un po’ compassato. Al Villareal il centrocampista ormai trentaduenne sta vivendo quasi una seconda giovinezza. Emery lo ha trasformato nel direttore d’orchestra perfetto e perno principale del proprio gioco, in un asse inossidabile che parte da Pau Torres e arriva in avanti a Gerard Moreno. Un sistema che ha portato alla vittoria dell’Europa League e ai quarti di finale di Champions, destando stupore negli appassionati. Per Parejo, che in carriera ha raccolto meno di quanto meritava, l’occasione di potersi mettere in mostra su palcoscenici così importanti rappresenta quasi la correzione di un’ingiustizia.

In Uruguay, i campi in erba scarseggiano persino in prima divisione, quindi immagina i campi per le squadre giovanili. Sono sporchi, duri, vai per battere un calcio d’angolo e c’è un animale vicino a te. Questo ti fa crescere, ti rende forte e combattivo. È adorabile tornare da una partita con la faccia e i capelli pieni di fango e i sassi nelle scarpe. La più bella esperienza che un ragazzino può vivere è salire sul pullman per il ritorno ogni weekend con la maglia della propria squadra addosso, dividendo con amici e famiglia il viaggio.

Mancano tre minuti alla fine di Bayern Monaco-Siviglia, l’ultima Supercoppa Europea giocata a Budapest a settembre. Il risultato è sull’1-1, con gli spagnoli che hanno sbloccato la gara all’inizio grazie ad un rigore di Ocampos, mentre i tedeschi hanno pareggiato con Goretzka prima di andare a riposo negli spogliatoi. La squadra di Lopetegui ha sofferto tutto il secondo tempo e, negli ultimi secondi, ha una ghiotta occasione per vincere la partita.

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