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L’esito di una partita è quasi sempre il risultato di una somma indefinibile di episodi. Giocate illuminanti, errori inconcepibili, falli evidenti non fischiati o viceversa. Fare una scelta anziché un’altra. Ma ci sono casi in cui tutti questi fattori, per quanto importanti, finiscono in secondo piano. Alcune volte un giocatore, la sua presenza, la sua prestazione si impongono su tutto il resto. È questo il caso di Inter-Milan, il derby andato in scena ieri pomeriggio a San Siro.

Un 17 ottobre speciale, all’ombra della Madonnina: il giorno che una città intera aspetta con trepidazione ad ogni girone è arrivato. Iniziate con i rituali scaramantici del caso, vestitevi bene perché fa freddo anche in casa, indossate la maglia del campione che sarà sempre il vostro Santo Patrono, prendete la sciarpa talismano e mettetevi comodi, perché lo spettacolo alla Scala del Calcio sta per cominciare e stavolta saremo tutti (o quasi) spettatori in poltrona. Oggi c’è il Derby di Milano.

Dietro ai grandi progressi e ai recenti successi della nazionale ucraina c’è la mano di Andriy Shevchenko. Un ottimo inizio di carriera manageriale per chi l’Olimpo del calcio se l’è già conquistato indossando gli scarpini. Chi ha avuto la fortuna di vederlo in azione lo sa: guai a concedergli quel metro di troppo, era letale da ogni posizione e non c’era differenza tra sinistro e destro.

Da bambini sogniamo un po’ tutti di fare il calciatore: siamo lì, tra la poltrona e il tavolo, a giocare con una una palla di gommapiuma finché non rompiamo il souvenir che lo zio aveva portato alla mamma da qualche posto sperduto in giro per il mondo. Ma a noi in quel momento interessa solo realizzare il gol della vita, disegnando una parabola degna di Dejan Savicevic. Che bello sarebbe ripetere le sue imprese… Chissà com’è giocarsi una finale di Coppa dei Campioni, vincerla e farlo per ben due volte con due squadre diverse. Tutti vorrebbero essere come lui, o no?

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