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Mirko Cafaro

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Nella storia ultracentenaria del Manchester United, c’è una maglia che più di altre ha idealmente messo in fila un Olimpo di campioni capaci di piazzare la propria firma in calce a interi capitoli di successo, in epoche diverse ma accomunate dal sapore delle vittorie. È la maglia numero 7, che più della classica 10 o della 9, ha dato vita a una successione di prestigio tra i Red Devils.

Per quanto tempo si può portare rancore per un torto subito? E quanto profonda può essere la sete di vendetta per un alterco di gioco sia pure venutosi a creare in un contesto duro? Due domande che sarebbe probabilmente meglio non porre a Roy Keane, gloria del calcio irlandese, ora allenatore, ma per dodici anni – tra il 1993 e il 2005 – bandiera del Manchester United di Ferguson con cui ha vinto praticamente tutto.

Raccontare Johan Cruijff e cosa rappresenti ancora oggi per il gioco del calcio, è operazione assai complessa. Quasi quanto il tentativo di replicare quel sistema, definito “totale”, che negli anni ’70 ha segnato un’epoca, definendo un prima e un dopo nel gioco più bello del mondo. Una rivoluzione di cui Johan era il principale artefice e il migliore interprete. Molto più semplicemente, ne era l’immagine più efficace ed espressiva. Il profeta di una nuova religione calcistica che metteva insieme ordine e creatività, forza fisica e cervello, tradizione e innovazione. Ma non corriamo troppo. Come per quel mitico sistema, servono disciplina e organizzazione (oltre che talento e tecnica). E quindi procediamo con ordine.

A vederli così, vestiti di arancione, sembrano usciti da una puntata di “Orange is the new black“, la fortunata serie di Netflix. Ma l’apparenza non inganni, l’Istanbul Basaksehir – a dispetto di una società molto giovane – è ormai entrato nella geografia del calcio europeo. Se in pianta stabile o meno, è difficile dirlo adesso, ma i presupposti societari e gli importanti progressi ottenuti nel breve volgere di pochi anni ci fanno pensare che non assisteremo a una nuova Cometa di Halley.

Una versione piuttosto accreditata riguardo l’origine dei piani di sviluppo del calcio in Cina affianca due nomi apparentemente distanti tra loro e senza il benché minimo punto di contatto. Stiamo parlando di Xi Jinping, segretario generale del Partito Comunista Cinese e Presidente della Repubblica popolare cinese, e Totò Schillaci, attaccante che raggiunse l’apice in carriera durante le notti magiche di Italia ’90. È sufficiente una ricerca sul web per vederla ripresa da più fonti e raccontata grosso modo allo stesso modo. E non vogliamo certo sottrarci. Il nesso è presto spiegato.

“¡Viva el Betis manquepierda!” (Viva il Betis anche se perde) è il motto della casa. Un motto tramandato dai tempi (bui) della disastrosa retrocessione in Terza Divisione del 1947 grazie allo scrittore e disegnatore Martìnez de Leòn, che lo fece pronunciare a uno dei personaggi dei suoi fumetti. Uno slogan che è tutto un programma sulla travagliata storia di uno dei club più antichi della Liga spagnola che oggi, 12 settembre, compie 113 anni.

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