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Gianluca Losito

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Nell’universo calcistico italiano, la continuità tecnica di figure come quella dell’allenatore o del direttore sportivo è spesso una chimera. La fretta di trovare risultati che soddisfino le proprie ambizioni – spesso anche sproporzionate rispetto al reale valore delle rose effettivamente costruite – porta proprietà e dirigenze ad una bulimia tecnica che si rispecchia in una sequela di cambi tecnici che si ripetono incessantemente ogni stagione. In un articolo dedicato al tema, Rivista Contrasti rilancia diverse inchieste che spiegano come i cambi a stagione in corso difficilmente riescono a migliorare in maniera sostanziale la squadra, e nella maggior parte dei casi la continuità tecnica premia le società più lungimiranti. Chi segue questo mondo con attenzione è consapevole che per costruire progetti proficui c’è bisogno di tempi ampi e di pazienza, che spesso portano ai risultati sperati. In questo senso chi ha costruito un’isola felice è il Latina allenato da mister Daniele Di Donato. Di Donato, ex centrocampista classe 1977 che ha vestito tra le altre le maglie di Siena, Palermo e Ascoli, e da allenatore ha avuto esperienze nelle prime squadre di Jesina, Arzignano Valchiampo, Vis Pesaro e Arezzo, siede sulla panchina dei pontini dall’agosto 2021, cioè da quando la società del presidente Terracciano è stata ripescata in Serie C. Da quel momento – nonostante un inizio zoppicante, con soli 8 punti nelle prime 11 partite – non è mai mancata la fiducia nei suoi confronti da parte della società, ed i risultati si sono visti: 12° posto la scorsa stagione con una squadra giovanissima e costruita in poche settimane; 28 punti in 22 partite nella stagione in corso, con le stesse prerogative di valorizzazione della passata stagione, che ad oggi fruttano ai nerazzurri il 10° posto in classifica in concomitanza con altre squadre, a sole 6 lunghezze dalla quarta piazza occupata dall’Audace Cerignola. In virtù di questi risultati positivi, che rendono Di Donato uno dei tecnici emergenti più interessanti in circolazione, lo abbiamo interpellato per conoscerlo meglio da un punto sia strettamente tecnico che non.

Mister, prima di tutto uno sguardo sull’attualità: è soddisfatto di come sta procedendo questa stagione, e vede una crescita rispetto alla scorsa annata?

Siamo molto soddisfatti; il nostro è un gruppo giovane, lavoriamo molto con i ragazzi e con loro funziona così, alternano partite splendide ad altre negative. Ma il nostro campionato è buono, in virtù di un girone sempre difficile. Il nostro obiettivo è far crescere i giovani e abbiamo una buona classifica. Dobbiamo crescere e migliorare gli errori fatti lo scorso anno, quando dopo aver raggiunto la salvezza abbiamo avuto un calo: è nostro dovere imparare dagli errori compiuti la scorsa stagione.

L’esperienza a Latina era iniziata a partire da una situazione di emergenza com’è quella di un ripescaggio, che poi avete risollevato con pazienza. La società l’ha aspettata dopo i primi risultati non esaltanti, cosa inusuale per il frenetico calcio italiano. Ritiene che questo abbia rafforzato il vostro rapporto? Sentiva una fiducia più “cieca” nella prima parte della scorsa stagione?

C’è stato un periodo di appannamento in cui eravamo ultimi, ma abbiamo avuto coraggio; eravamo arrivati ad ottobre in ritardo di condizione, mentre gli altri volavano. Da quel momento siamo partiti con ottimi risultati, la fiducia nei nostri confronti non è mai mancata ed è una cosa che è rimasta quest’anno, si vede nel nostro lavoro.

Daniele Di Donato sulla panchina del Latina
Nella sua esperienza al Latina, Di Donato ha accumulato finora 70 punti in 58 partite. Un bottino più che discreto, per una squadra in crescita (Foto: Rita Calabresi – Latina Calcio 1932)

Dal punto di vista tattico lei è un tecnico versatile, che sperimenta molto fino a trovare la soluzione giusta. Quali ritiene che siano i suoi principi calcistici principali?

Cerco di valorizzare al massimo le qualità di ogni calciatore, non mi soffermo su un’idea di gioco stantia. Se ho un ragazzo che mi dà di più sotto un certo punto di vista lavoro su quello, cercando di fare il massimo con il materiale a disposizione. Provo sempre ad aggredire in avanti e impostare la partita, senza subire mai. Ci vuole una certa forza mentale, ma provo sempre a mettere in campo questo.

Lei è passato dall’Arzignano Valchiampo, una società da cui sono transitati anche altri allenatori di livello come Vincenzo Italiano (oggi alla Fiorentina) o Alberto Colombo (al Pescara). Cos’ha di speciale la società gialloblu?

L’Arzignano è una famiglia. Io lì ho avuto la fortuna di vincere il campionato di D e andare in C. Il primo anno in terza serie loro hanno fatto alcuni errori a cui poi hanno posto rimedio. Hanno una società ben organizzata in ogni senso, con un presidente molto presente ed un direttore tra i più preparati della categoria (Mattia Serafini, ndr), molto bravo a scovare giovani. Fanno un passettino alla volta, hanno un ambiente tranquillo, e la loro è una tra le società più strutturate della Serie C.

A Latina, come nelle altre esperienze da tecnico, ha sempre allenato rose giovanissime (i nerazzurri sono la quarta squadra del girone per età media, la seconda per minutaggio under). Quali sono le prerogative fondamentali dal punto di vista sia umano che tecnico per gestire gruppi di questo genere?

Cerco di essere il più vero possibile, e trattare i ragazzi come adulti. La vittoria più grande per me è far crescere i ragazzi e farli sbocciare. Un ragazzo di cui vado molto fiero, in questo senso, è Andrea Giorgini (difensore centrale classe 2002, ndr), che abbiamo appena ceduto al Südtirol. Io lo considero un “vecchio giovane”, perché è maturo e vuole migliorarsi giorno dopo giorno. Il suo unico obiettivo è quello di diventare un calciatore di alto livello, e lavora tantissimo per arrivarci. Ne sentiremo molto parlare.

Andrea Giorgini gioca il pallone in Crotone-Latina
Dopo due stagioni e mezzo, condite da 87 presenze in cui ha messo a segno 3 gol e 6 assist, Andrea Giorgini, , centrale dalle spiccate qualità da regista difensivo, lascia il Latina per approdare al Sudtirol (Foto: Football Club Crotone)

A proposito di ciò, le volevo chiedere come ha interagito con Alessio Riccardi, una promessa che aveva grandi prospettive ed è dovuto ripartire dalla terza serie per rilanciarsi.

Ad Alessio ho solo detto di tornare a divertirsi come quando era bambino. Forse il peso delle pressioni che ha avuto in età molto giovane è stato esagerato. Le qualità tecniche ed umane non le mette in dubbio nessuno; io gli ho semplicemente detto di sentirsi come se stesse giocando al parco, perché poi queste qualità sarebbero venute fuori. Lui deve tornare in categorie che più competono al suo talento.

Alessio Riccardi esulta dopo il gol contro l'Audace Cerignola
L’esultanza di Riccardi dopo il gol decisivo contro l’Audace Cerignola, il suo primo stagionale. Il ragazzo scuola Roma ha accumulato 2 gol e 3 assist in campionato (Foto: Rita Calabresi – Latina Calcio 1932)

Con Tessiore e Sannipoli le è capitato spesso di utilizzare un centrocampista dalle caratteristiche offensive come laterale di centrocampo. Abbiamo visto fare questa mossa anche in Serie A a Sottil con Pereyra (Udinese) e Palladino con Ciurria (Monza). A cosa si deve questa scelta e quali vantaggi porta in campo?

Sono state scelte dovute principalmente alla necessità. Tessiore è un calciatore forte, io lo alleno dai tempi della Vis Pesaro, questo è il terzo anno che ce l’ho in squadra. Lo considero una mezzala offensiva moderna e l’ho adattato all’occorrenza nel ruolo di esterno la scorsa stagione quando necessario. Sannipoli invece è arrivato quest’anno dalla Serie D, dove giocava a Trastevere. Non avendo Teraschi disponibile (il titolare designato nel ruolo, ndr) ho voluto provarlo lì; è un robottino, lo chiamo “il nuovo Pessotto”. Si è sistemato in quella posizione lì con umiltà e tanta voglia di imparare. Ha le caratteristiche giuste per questo ruolo: corsa, forza fisica e tempi di inserimento, oltre ad un ottimo tiro. Probabilmente sta trovando il suo ruolo ideale, che credo possa essere quello di quarto o quinto di centrocampo; si sta trovando molto bene lì. Ha voglia, fame e sta crescendo tanto.

Daniel Sannipoli calcia il pallone
Classe 2000, con 4 gol e 2 assist Daniel Sannipoli è tra gli esordienti più in vista della terza serie (Foto: Rita Calabresi – Latina Calcio 1932)

C’è una squadra nella quale ha militato, il Siena 2004/2005, che ad oggi vede parecchi elementi di quel gruppo essere allenatori di medio-alto livello. Vi parlate ancora tra di voi, e come mai è stata possibile questa congiunzione?

Quando ci rincontriamo ci salutiamo, tra di noi siamo molto legati. Sicuramente è una coincidenza: non ci avevo nemmeno fatto caso fino ad oggi. In effetti in quel Siena ci sono tante persone che hanno intrapreso questa carriera, evidentemente il direttore in quegli anni ha scelto molto bene.

Da calciatore ha avuto diversi allenatori di spessore, tra cui Conte e Sarri ai tempi dell’Arezzo. Quali sono i tecnici che le hanno lasciato di più, e cosa le hanno trasmesso?

Molti tecnici mi hanno lasciato qualcosa, sotto diversi aspetti. Gigi Simoni nella gestione dello spogliatoio era il migliore, aveva massimo rispetto di tutti. Di Conte mi è rimasta quella “ignoranza” che si traduce in voglia di superare i limiti e avere voglia di fare di più. Da Sarri ho preso la meticolosità del lavoro, nelle varie situazioni tecniche e nei particolari. Guidolin, invece, era molto pratico, pragmatico nell’ottenere il risultato. Ho avuto anche Franco Colomba che ritengo molto bravo; Pillon, che mi trasmetteva tanta serenità; Sonzogni, che magari oggi non tutti si ricordano. Anche lo stesso Sonetti. 

Quanto è importante il contributo dello staff nel suo lavoro? Gli ha anche dedicato una vittoria importante, quella contro l’Audace Cerignola.

Reputo il mio staff uno dei più importanti della categoria: sono un ragazzo difficile da gestire, ma loro mi fanno ragionare in momenti particolari. Sono davvero meticolosi, come staff noi siamo sempre sul pezzo e non diamo mai nulla per scontato. Credo che la loro funzione in determinati momenti sia quella di andarti contro e farti ragionare, il confronto con loro è fondamentale. Siccome sono dietro le quinte, loro come tanti altri, è giusto che debbano ricevere meriti.

Daniele Di Donato e il suo vice Daniele Bedetti
Daniele Di Donato con il suo allenatore in seconda, Daniele Bedetti. (Foto: Rita Calabresi – Latina Calcio 1932)

Quali sono gli allenatori che ritiene più interessanti da seguire e approfondire, sia nel calcio italiano che a livello internazionale?

Mi piace tanto Spalletti in Italia; sto seguendo il Corso Allenatore UEFA Pro e ho fatto lezione con lui, è stata una bella esperienza. Ovviamente seguo Klopp, ma anche Italiano e De Zerbi, che sta facendo molto bene in Premier. Lo stesso Conte, che riesce sempre a mettere qualcosa di nuovo nel suo lavoro, ma anche Sarri. Non mi limito ai campionati di prima fascia, però: mi guardo molto intorno. Basta pensare al lavoro che sta facendo Vivarini, che al di là della qualità dei singoli ha dato una forte impronta alla sua squadra. Apprezzo anche il Vicenza di Modesto.

Chi è Daniele Di Donato lontano dal calcio? Quali sono i suoi hobby e le sue passioni?

Ho scoperto la moto quattro anni fa e ci vado spesso. Ho una Harley 883 che mi rilassa e mi fa staccare. Quello è il mio hobby principale, per il resto lavoro molto anche da casa. C’è sempre una partita da vedere, c’è sempre qualcosa da fare per rimanere aggiornati.

Si ringrazia il Latina Calcio 1932 (in particolare l’Ufficio Stampa e Comunicazione) per la disponibilità dimostrata e per il contributo fotografico, nonché lo stesso Daniele Di Donato.

Se è vero che nel calcio non devono bastare trofei e risultati a categorizzare i protagonisti del gioco, siano questi calciatori, tecnici o dirigenti, non bisogna lasciarsi trascinare da categorizzazioni affrettate su alcuni di essi, in particolare sui direttori d’orchestra. Negli ultimi anni si è formata sempre più solida e netta nell’opinione pubblica una suddivisione degli allenatori, esistente solo a livello retorico, che in italiano viene restituita con i termini giochisti e risultatisti, ma che forse la lingua inglese (nonché il gergo dell’informatica) esprime meglio con i concetti di top-down (riferito ai primi) e bottom-up (riferito ai secondi). Al di là della questione lessicale, che pure meritava questa necessaria precisazione (e meriterebbe uno specifico approfondimento, ma non è questa la sede), c’è uno schieramento di fondo per il quale, se a torto o ragione ce lo dirà la storia, si è creata una sorta di estremizzazione tra i due concetti e tra le due fazioni, per cui spesso e volentieri si guarda al dito e non alla luna. Nel corso dei dieci anni da tecnico della Francia, Didier Deschamps è passato spesso sotto le forche caudine dell’accusa di chi lo ritiene incapace di far fiorire l’immenso talento di cui dispone la selezione tecnica francese. Ma quanto è giusto accanirsi contro l’ex centrocampista della Juventus?

Manoppello e Cappelle sul Tavo distano una trentina di chilometri circa sulla cartina geografica. Entrambi facenti parte della provincia di Pescara, il primo è un borgo montano, mentre il secondo un paesino agricolo nei pressi di Montesilvano. I due comuni non hanno molto da spartire, se si fa eccezione per la provincia di appartenenza e le piccole dimensioni, ma ultimamente ci sono due figure che li hanno resi più vicini che mai, anche se solo figurativamente. Da Manoppello proviene Marco Verratti, questo è oramai abbastanza noto ad un pubblico abbastanza appassionato di calcio; da Cappelle, invece, arriva un altro Marco, che di cognome fa Delle Monache e di ruolo gioca un po’ più avanti dell’omonimo centrocampista del Paris Saint-Germain. Entrambi sono cresciuti nella squadra di riferimento del loro territorio, nella quale il secondo attualmente milita. Ma allora, accanto alla semplice ma poco indicativa assonanza onomastica e di origini (geografiche e calcistiche), che cos’hanno da spartire i due? Per capirlo, bisogna affacciare lo sguardo su due punti di vista.

Tra i momenti più iconici del calcio del nuovo millennio, la corsa di José Mourinho al fischio finale di Barcelona-Inter, semifinale di Champions terminata 1-0 per i blaugrana che però aveva garantito il passaggio del turno ai nerazzurri, occupa sicuramente un posto speciale. È in situazioni come quella che il portoghese si esalta: con la squadra messa alle corde, resistere, incassare e vincere, arrivando sul gong stremato e barcollante ma ancora in piedi, gli riesce meglio di ogni altra cosa o quasi. Quella corsa di gloria, col braccio alzato e lo sguardo di sfida mentre gli idranti del Camp Nou cercavano la loro simbolica vendetta, non ha raccontato nulla a molti oltre il gesto in sé, ma nella mente di alcuni appassionati più anziani e a Sud dell’Equatore avrà stimolato qualche ricordo. È il 14 dicembre del 1969, all’Estadio Monumental River Plate e Boca Juniors si giocano il Nacional all’ultima giornata di un campionato thrilling. Il River deve vincere per aggiudicarsi il titolo; dall’altro lato il Boca può contare su due risultati su tre. Nella prima mezz’ora gli Xeneizes si portano sopra di due reti: Madurga gela due volte i Millionarios e ipoteca il titolo. Más e Marghetti riescono solo a spaventare gli uomini allenati da Alfredo Di Stefano, ma il River non riesce a completare il ribaltone: al fischio finale è 2-2 e Boca campeón. Partono i festeggiamenti azul y oro, non senza qualche scaramuccia con gli avversari. I giocatori del Boca si rivolgono inizialmente verso il settore occupato dai loro tifosi, senza rendersi conto di quel che sta succedendo sul terreno di gioco; gli idranti del Vespucio Liberti esplodono di rabbia e rimpianti, proprio come faranno quarant’anni dopo quelli dello stadio catalano. A quel punto, succede qualcosa di strano: ai campioni appena eletti dovrebbe essere riservato un giro di campo celebrativo, che però il River decide apertamente di sabotare con quel gesto. Nel gruppo del Boca c’è chi decide di raccogliere la provocazione de Las Galinas: Silvio Marzolini guida la vuelta olimpica, inzuppandosi del tutto, seguito dai suoi compagni di squadra, e consegna quel momento alla Storia, concedendo anche un bis. Il collegamento con Mou viene naturale; sebbene possa sembrare forzato, conoscendo lo Special One e la sua conoscenza enciclopedica di questo sport, non è difficile immaginare che possa aver pensato a quella esultanza (anche) come un tributo. Marzolini è il capitano di quella squadra e ha appena portato a termine una prestazione precisa e concentrata, che ha esaltato le sue qualità difensive. Al tempo stesso, questa mossa lo mette in rilievo come leader, uomo solo al comando, personaggio carismatico: un momento che definisce la sua eredità sportiva a 360°, il canto del cigno di una carriera non troppo lunga ma che l’ha consegnato agli annali come un’icona del Fútbol argentino.

La notizia è ormai di dominio pubblico, dopo essere diventata virale in pochi minuti: nel pomeriggio di domenica, sul profilo Twitter di Iker Casillas è apparso un tweet all’apparenza chiaro e rivelatorio su un aspetto della vita del portiere spagnolo rimasto sconosciuto fino a quel momento: il coming out sul suo orientamento sessuale, rivelando al mondo di essere omosessuale. In tutta risposta, l’ex compagno di nazionale Carles Puyol gli ha risposto di “raccontare la nostra storia”.

Tra le coppe nazionali in giro per l’Europa, probabilmente la Coppa Italia è la meno attraente per gli spettatori. Con il suo tabellone piuttosto prevedibile, che offre la possibilità alle prime otto piazzate del precedente campionato di Serie A di partire dagli ottavi di finale, potendo beneficiare di accoppiamenti favorevoli e il vantaggio di giocare in casa tutti gli scontri in partita secca, l’appeal di questa competizione è ai minimi storici. Solo negli ultimi due anni c’è stato qualche timido segnale di ripresa, più legato alla necessità di squadre come Juventus ed Inter di arricchire la loro bacheca stagionale che non ad un’effettiva riforma. In questo scenario i primi turni di questa competizione, giocati tra fine luglio ed inizio agosto, sono ancor più sviliti e svilenti: in campo scendono le migliori quattro piazzate di Serie C tra le non promosse, tutte le squadre di Serie B e quelle dal nono posto in giù della Serie A della stagione precedente, sempre con il vantaggio della gara casalinga. Uno scenario che disintegra l’interesse e la rilevanza tecnica di questi turni, spesso utili alle squadre di A per far esordire qualche giovane ed entrare in rodaggio, vincendo senza troppi patemi i propri confronti. Per questi motivi – e per la curiosità che negli ultimi anni ha suscitato una squadra peculiarissima come il Verona – il fragoroso tonfo degli scaligeri contro il Bari, che si è imposto per 1-4 nella sfida del “Bentegodi” dello scorso 7 agosto, ha suscitato moltissime reazioni. Il protagonista assoluto di quella partita, con una tripletta e una sensazione di dominanza, è stato Walid Cheddira, attaccante italo-marocchino dei biancorossi al secondo anno in Puglia, prima d’allora sconosciuto al grande pubblico. Nelle prime partite di campionato seconda serie, la punta classe 1998 ha confermato le buone impressioni delle prime partite stagionali (nelle quali aveva anche messo a segno una doppietta contro il Padova, nel turno precedente alla sfida contro il Verona) con una partenza sprint.

L’impoverimento tecnico che ha intaccato il campionato di Serie A (e più in generale il calcio italiano) negli ultimi tre lustri circa è un fatto pressoché assodato. Il grave calo del calcio nostrano si è acuito in particolare nella prima parte degli anni Dieci, per poi trovare un lento ma progressivo rialzo negli anni successivi. Nonostante ciò, il ritardo accumulato a causa di quegli anni bui costringe la prima serie del Belpaese a pagare ancora un ritardo rispetto alle migliori leghe europee, stazionando in una posizione di subalternità che spesso lo rende un mero trampolino di lancio per le carriere di calciatori dalle prospettive particolarmente rosee. Gli ultimi casi di elementi quali Molina, Scamacca, de Ligt, Hickey o Theate, tutti partiti nella sessione di mercato estiva verso società estere, sono emblematici del ruolo della A quale campionato di sviluppo per le qualità di questi forti giocatori che però vedono il campionato nato nel 1929 come una tappa di passaggio. In questo momento la cosa più saggia che possono fare molte squadre di Serie A è accettare questa condizione e comportarsi di conseguenza, coltivando al meglio il talento. In questo articolo analizziamo i casi di cinque calciatori, giovani in Serie A attesi alla riconferma per poter eventualmente affermarsi come calciatori dal sicuro futuro.

La stagione sportiva appena conclusasi ha regalato molte belle storie di calcio, sia a livello internazionale che rimanendo nel Belpaese. Le vicende che si sono sviluppate nel corso degli ultimi dieci mesi sono state sicuramente arricchite dal definitivo ritorno sugli spalti del pubblico, che si è riappropriato dei suoi spazi tornando a sublimare il contatto diretto con le proprie squadre, riassegnando al calcio il suo valore sociale. In questo scenario, ci sono due situazioni sportive e soprattutto umane meritevoli di approfondimento, con diversi punti di contatto, ma che differiscono principalmente per il diverso finale: si tratta dei percorsi intrapresi da Davide Nicola, da metà febbraio alla guida della Salernitana, e da Francesco Baldini, da inizio stagione fino ad aprile tecnico del Catania, per poi passare dopo pochi giorni al Lanerossi Vicenza.

In un’intervista concessa lo scorso ottobre sul canale Twitch de Gli Autogol, ad Alessandro Bastoni viene chiesto di commentare un momento simbolo della scorsa stagione, sia per lui come singolo sia per la successiva vittoria dello scudetto dell’Inter. Si tratta del lancio del difensore nerazzurro verso Barella al 52° minuto di Inter-Juventus, un perfetto passaggio a lunga gittata che ha tagliato il campo ed è arrivato al numero 23 dell’Inter, che ha completato il movimento e ha poi superato Szczesny per chiudere la partita sul 2-0. “C’è un momento simbolo della tua stagione in cui tu fai una giocata pazzesca, non da Bastoni” gli dice uno dei presentatori introducendo quella scena. Mentre scorrono le immagini, Bastoni risponde a tono: “Ma non da Bastoni perché, esattamente?”.

Il calcio, si sa, è fatto di cicli più o meno lunghi. L’abilità di ogni squadra nel mantenersi ad alto livello sta nell’interpretare e possibilmente anticipare la fine di questi cicli, per rinnovarsi continuamente. Un processo del genere va attuato nella maniera meno traumatica possibile, solitamente. Ciò che è accaduto negli ultimi 18 mesi al Barcellona va evidentemente nella direzione opposta: uno shock continuo, una serie di colpi di scena e cliffhanger da serie tv, che spesso hanno esposto la squadra blaugrana al pubblico ludibrio e a una critica spietata. Ma c’è anche un’altra faccia del Barça: una squadra che dal punto di vista puramente tecnico sta affrontando con lo spirito giusto questa rivoluzione, rinnovando la squadra in maniera radicale. La direzione tecnica dei blaugrana non sta avendo paura di fare delle scelte, al limite tra il coraggio e l’incoscienza, che saranno decisive per il futuro della società catalana. Ma andiamo con ordine.

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