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Gianluca Losito

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Erano le 22:25 di un normale lunedì di fine maggio e negli ambienti calcistici on-line si discuteva di un tema trito e ritrito, intriso di polemica e rancori: la penalizzazione di 10 punti subita dalla Juventus in campionato, che faceva riaffiorare i duri confronti verbali tra le tifoserie più disparate, resi ancor più acri dalla contemporanea sconfitta dei bianconeri per 4-1 sul campo dell’Empoli. In quegli stessi minuti, il gol di Ivan Kontek squarciava coscienze e cuori di moltissimi appassionati, italiani e non: con la sua ciabattata di collo esterno il difensore croato aveva consegnato al Foggia la qualificazione al 2° turno di play-off nazionali di Serie C, al culmine di una rimonta epica e storica, maturata nel quarto d’ora della sfida di ritorno contro i cugini “di provincia” dell’Audace Cerignola.

La rete del 3-0 ha fatto impazzire di gioia tutto lo “Zaccheria” e ha riportato un po’ di magia negli occhi del calciofilo italiano, oramai disilluso da un movimento la cui credibilità viene spesso minata da scandali e dietrologie di ogni tipo. La Serie C, ed in particolare gli spareggi della post-season, hanno quindi il compito di essere il locus amenus in cui gli italiani possono rifugiarsi per ritrovare un po’ più di autenticità e sana passione? Probabilmente una ricostruzione del genere sarebbe fin troppo didascalica, oltre che a dir poco miope, visto lo storico di questa categoria; ma tra squadre in rampa di lancio, nobili decadute, giovani interessanti e anche qualche guaio giudiziario c’è tanto di cui parlare.

Nell’universo calcistico italiano, la continuità tecnica di figure come quella dell’allenatore o del direttore sportivo è spesso una chimera. La fretta di trovare risultati che soddisfino le proprie ambizioni – spesso anche sproporzionate rispetto al reale valore delle rose effettivamente costruite – porta proprietà e dirigenze ad una bulimia tecnica che si rispecchia in una sequela di cambi tecnici che si ripetono incessantemente ogni stagione. In un articolo dedicato al tema, Rivista Contrasti rilancia diverse inchieste che spiegano come i cambi a stagione in corso difficilmente riescono a migliorare in maniera sostanziale la squadra, e nella maggior parte dei casi la continuità tecnica premia le società più lungimiranti. Chi segue questo mondo con attenzione è consapevole che per costruire progetti proficui c’è bisogno di tempi ampi e di pazienza, che spesso portano ai risultati sperati. In questo senso chi ha costruito un’isola felice è il Latina allenato da mister Daniele Di Donato.

Se è vero che nel calcio non devono bastare trofei e risultati a categorizzare i protagonisti del gioco, siano questi calciatori, tecnici o dirigenti, non bisogna lasciarsi trascinare da categorizzazioni affrettate su alcuni di essi, in particolare sui direttori d’orchestra. Negli ultimi anni si è formata sempre più solida e netta nell’opinione pubblica una suddivisione degli allenatori, esistente solo a livello retorico, che in italiano viene restituita con i termini giochisti e risultatisti, ma che forse la lingua inglese (nonché il gergo dell’informatica) esprime meglio con i concetti di top-down (riferito ai primi) e bottom-up (riferito ai secondi). Al di là della questione lessicale, che pure meritava questa necessaria precisazione (e meriterebbe uno specifico approfondimento, ma non è questa la sede), c’è uno schieramento di fondo per il quale, se a torto o ragione ce lo dirà la storia, si è creata una sorta di estremizzazione tra i due concetti e tra le due fazioni, per cui spesso e volentieri si guarda al dito e non alla luna. Nel corso dei dieci anni da tecnico della Francia, Didier Deschamps è passato spesso sotto le forche caudine dell’accusa di chi lo ritiene incapace di far fiorire l’immenso talento di cui dispone la selezione tecnica francese. Ma quanto è giusto accanirsi contro l’ex centrocampista della Juventus?

Manoppello e Cappelle sul Tavo distano una trentina di chilometri circa sulla cartina geografica. Entrambi facenti parte della provincia di Pescara, il primo è un borgo montano, mentre il secondo un paesino agricolo nei pressi di Montesilvano. I due comuni non hanno molto da spartire, se si fa eccezione per la provincia di appartenenza e le piccole dimensioni, ma ultimamente ci sono due figure che li hanno resi più vicini che mai, anche se solo figurativamente. Da Manoppello proviene Marco Verratti, questo è oramai abbastanza noto ad un pubblico abbastanza appassionato di calcio; da Cappelle, invece, arriva un altro Marco, che di cognome fa Delle Monache e di ruolo gioca un po’ più avanti dell’omonimo centrocampista del Paris Saint-Germain. Entrambi sono cresciuti nella squadra di riferimento del loro territorio, nella quale il secondo attualmente milita. Ma allora, accanto alla semplice ma poco indicativa assonanza onomastica e di origini (geografiche e calcistiche), che cos’hanno da spartire i due? Per capirlo, bisogna affacciare lo sguardo su due punti di vista.

Tra i momenti più iconici del calcio del nuovo millennio, la corsa di José Mourinho al fischio finale di Barcelona-Inter, semifinale di Champions terminata 1-0 per i blaugrana che però aveva garantito il passaggio del turno ai nerazzurri, occupa sicuramente un posto speciale. È in situazioni come quella che il portoghese si esalta: con la squadra messa alle corde, resistere, incassare e vincere, arrivando sul gong stremato e barcollante ma ancora in piedi, gli riesce meglio di ogni altra cosa o quasi. Quella corsa di gloria, col braccio alzato e lo sguardo di sfida mentre gli idranti del Camp Nou cercavano la loro simbolica vendetta, non ha raccontato nulla a molti oltre il gesto in sé, ma nella mente di alcuni appassionati più anziani e a Sud dell’Equatore avrà stimolato qualche ricordo. È il 14 dicembre del 1969, all’Estadio Monumental River Plate e Boca Juniors si giocano il Nacional all’ultima giornata di un campionato thrilling. Il River deve vincere per aggiudicarsi il titolo; dall’altro lato il Boca può contare su due risultati su tre. Nella prima mezz’ora gli Xeneizes si portano sopra di due reti: Madurga gela due volte i Millionarios e ipoteca il titolo. Más e Marghetti riescono solo a spaventare gli uomini allenati da Alfredo Di Stefano, ma il River non riesce a completare il ribaltone: al fischio finale è 2-2 e Boca campeón. Partono i festeggiamenti azul y oro, non senza qualche scaramuccia con gli avversari. I giocatori del Boca si rivolgono inizialmente verso il settore occupato dai loro tifosi, senza rendersi conto di quel che sta succedendo sul terreno di gioco; gli idranti del Vespucio Liberti esplodono di rabbia e rimpianti, proprio come faranno quarant’anni dopo quelli dello stadio catalano. A quel punto, succede qualcosa di strano: ai campioni appena eletti dovrebbe essere riservato un giro di campo celebrativo, che però il River decide apertamente di sabotare con quel gesto. Nel gruppo del Boca c’è chi decide di raccogliere la provocazione de Las Galinas: Silvio Marzolini guida la vuelta olimpica, inzuppandosi del tutto, seguito dai suoi compagni di squadra, e consegna quel momento alla Storia, concedendo anche un bis. Il collegamento con Mou viene naturale; sebbene possa sembrare forzato, conoscendo lo Special One e la sua conoscenza enciclopedica di questo sport, non è difficile immaginare che possa aver pensato a quella esultanza (anche) come un tributo. Marzolini è il capitano di quella squadra e ha appena portato a termine una prestazione precisa e concentrata, che ha esaltato le sue qualità difensive. Al tempo stesso, questa mossa lo mette in rilievo come leader, uomo solo al comando, personaggio carismatico: un momento che definisce la sua eredità sportiva a 360°, il canto del cigno di una carriera non troppo lunga ma che l’ha consegnato agli annali come un’icona del Fútbol argentino.

La notizia è ormai di dominio pubblico, dopo essere diventata virale in pochi minuti: nel pomeriggio di domenica, sul profilo Twitter di Iker Casillas è apparso un tweet all’apparenza chiaro e rivelatorio su un aspetto della vita del portiere spagnolo rimasto sconosciuto fino a quel momento: il coming out sul suo orientamento sessuale, rivelando al mondo di essere omosessuale. In tutta risposta, l’ex compagno di nazionale Carles Puyol gli ha risposto di “raccontare la nostra storia”.

Tra le coppe nazionali in giro per l’Europa, probabilmente la Coppa Italia è la meno attraente per gli spettatori. Con il suo tabellone piuttosto prevedibile, che offre la possibilità alle prime otto piazzate del precedente campionato di Serie A di partire dagli ottavi di finale, potendo beneficiare di accoppiamenti favorevoli e il vantaggio di giocare in casa tutti gli scontri in partita secca, l’appeal di questa competizione è ai minimi storici. Solo negli ultimi due anni c’è stato qualche timido segnale di ripresa, più legato alla necessità di squadre come Juventus ed Inter di arricchire la loro bacheca stagionale che non ad un’effettiva riforma. In questo scenario i primi turni di questa competizione, giocati tra fine luglio ed inizio agosto, sono ancor più sviliti e svilenti: in campo scendono le migliori quattro piazzate di Serie C tra le non promosse, tutte le squadre di Serie B e quelle dal nono posto in giù della Serie A della stagione precedente, sempre con il vantaggio della gara casalinga. Uno scenario che disintegra l’interesse e la rilevanza tecnica di questi turni, spesso utili alle squadre di A per far esordire qualche giovane ed entrare in rodaggio, vincendo senza troppi patemi i propri confronti. Per questi motivi – e per la curiosità che negli ultimi anni ha suscitato una squadra peculiarissima come il Verona – il fragoroso tonfo degli scaligeri contro il Bari, che si è imposto per 1-4 nella sfida del “Bentegodi” dello scorso 7 agosto, ha suscitato moltissime reazioni. Il protagonista assoluto di quella partita, con una tripletta e una sensazione di dominanza, è stato Walid Cheddira, attaccante italo-marocchino dei biancorossi al secondo anno in Puglia, prima d’allora sconosciuto al grande pubblico. Nelle prime partite di campionato seconda serie, la punta classe 1998 ha confermato le buone impressioni delle prime partite stagionali (nelle quali aveva anche messo a segno una doppietta contro il Padova, nel turno precedente alla sfida contro il Verona) con una partenza sprint.

L’impoverimento tecnico che ha intaccato il campionato di Serie A (e più in generale il calcio italiano) negli ultimi tre lustri circa è un fatto pressoché assodato. Il grave calo del calcio nostrano si è acuito in particolare nella prima parte degli anni Dieci, per poi trovare un lento ma progressivo rialzo negli anni successivi. Nonostante ciò, il ritardo accumulato a causa di quegli anni bui costringe la prima serie del Belpaese a pagare ancora un ritardo rispetto alle migliori leghe europee, stazionando in una posizione di subalternità che spesso lo rende un mero trampolino di lancio per le carriere di calciatori dalle prospettive particolarmente rosee. Gli ultimi casi di elementi quali Molina, Scamacca, de Ligt, Hickey o Theate, tutti partiti nella sessione di mercato estiva verso società estere, sono emblematici del ruolo della A quale campionato di sviluppo per le qualità di questi forti giocatori che però vedono il campionato nato nel 1929 come una tappa di passaggio. In questo momento la cosa più saggia che possono fare molte squadre di Serie A è accettare questa condizione e comportarsi di conseguenza, coltivando al meglio il talento. In questo articolo analizziamo i casi di cinque calciatori, giovani in Serie A attesi alla riconferma per poter eventualmente affermarsi come calciatori dal sicuro futuro.

La stagione sportiva appena conclusasi ha regalato molte belle storie di calcio, sia a livello internazionale che rimanendo nel Belpaese. Le vicende che si sono sviluppate nel corso degli ultimi dieci mesi sono state sicuramente arricchite dal definitivo ritorno sugli spalti del pubblico, che si è riappropriato dei suoi spazi tornando a sublimare il contatto diretto con le proprie squadre, riassegnando al calcio il suo valore sociale. In questo scenario, ci sono due situazioni sportive e soprattutto umane meritevoli di approfondimento, con diversi punti di contatto, ma che differiscono principalmente per il diverso finale: si tratta dei percorsi intrapresi da Davide Nicola, da metà febbraio alla guida della Salernitana, e da Francesco Baldini, da inizio stagione fino ad aprile tecnico del Catania, per poi passare dopo pochi giorni al Lanerossi Vicenza.

In un’intervista concessa lo scorso ottobre sul canale Twitch de Gli Autogol, ad Alessandro Bastoni viene chiesto di commentare un momento simbolo della scorsa stagione, sia per lui come singolo sia per la successiva vittoria dello scudetto dell’Inter. Si tratta del lancio del difensore nerazzurro verso Barella al 52° minuto di Inter-Juventus, un perfetto passaggio a lunga gittata che ha tagliato il campo ed è arrivato al numero 23 dell’Inter, che ha completato il movimento e ha poi superato Szczesny per chiudere la partita sul 2-0. “C’è un momento simbolo della tua stagione in cui tu fai una giocata pazzesca, non da Bastoni” gli dice uno dei presentatori introducendo quella scena. Mentre scorrono le immagini, Bastoni risponde a tono: “Ma non da Bastoni perché, esattamente?”.

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