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Romario non si è voluto omologare

Vizi e sregolatezza, unicità nel terreno di gioco. Dualismo esistenziale dentro e fuori dal campo, scegliete pure dove andasse meglio Romario de Souza Faria.

Genesi del Baixinho

Un’improvvisa eclissi di pallone oscura il sole di Pasadena, Los Angeles, mentre sul terreno del Rose Bowl Svezia e Brasile si giocano il biglietto per finale di Usa ’94. È un perfetto cross di Zinho dalla fascia destra. Joachim Bjorklund, Patrik Andersson e Thomas Ravelli presidiano l’area di rigore dall’alto dei loro abbondanti metroeottanta. Basterebbe un arrocco semplicissimo per evitare lo scacco fatale a 10 minuti dalla fine, se solo dal piano di sotto non sbucasse la maglia numero 11 del Brasile. Con un senso del tempo degno del miglior ballerino di samba al Carnevale di Rio, l’attaccante verdeoro sovrasta gli avversari e con un perfetto colpo di testa indirizza il pallone in rete. Non male per un calciatore alto appena 1,67m.

Lo chiamano o’Baixinho, il piccoletto. Ecco, se canticchiando De André vi siete mai chiesti cosa significhi avere “un metro e mezzo di statura”, provate a chiederlo a lui, Romario de Souza Faria, più semplicemente Romario. Forse vi risponderebbe che il calcio è poesia perché è una livella: puoi nascere povero, crescere poco ma essere comunque uno dei più prolifici attaccanti della storia del calcio. Il terzo secondo le statistiche ufficiali, con 772 gol in 980 partite. Reti gonfiate che superano quota 1000, 1003 per la precisione, se al conteggio si aggiungono anche esibizioni e amichevoli dove gol e vittorie non portavano punti in classifica ma ulteriori medagliette da appuntare al proprio ego.

Marcare Romario era “una fatica emotiva”. Un indolente tiranno dell’area di rigore, che si impegnava solo nei 25 metri necessari per ricevere palla, puntare la porta e soddisfare la sua fame di gol. “La corda di un arco che si tende per scoccare una freccia inattesa, improvvisa e letale”, come lo descriverà Jorge Valdano. Ma è fuori dal campo che con parole più chirurgiche delle sue conclusioni a rete emergeva il suo piglio da Re assolutista. Addii per lesa maestà, al Barcellona e addirittura al Brasile, clamorosi ritorni per acclamazione, deflagrazioni verbali a minare l’intoccabilità di Zagallo o addirittura o’Rei Pelé. Magari per invidia. Il loro score personale possiede l’unica perla mancante della collezione di Romario: un sigillo nella partita più importante, la finale di un Mondiale.

Romario Svezia
Romario nella sfida alla Svezia di Usa ’94 (Foto: Mike Powell/ALLSPORT/Getty Images – OneFootball)

Romario, vizi e strapotere

Romario ne disputa solo una, il 17 luglio 1994. È l’apice dei due anni in cui il giovane capocannoniere delle Olimpiadi di Seul ’88, dopo 5 anni di gol contro le malcapitate difese olandesi, si trasforma in un campione di eccessi e talento, acclamato e odiato, venerato e ripudiato. L’ascesa inizia con l’ultimo turno delle qualificazioni a Usa ’94. Il Brasile boccheggia per una possibile umiliazione che sarebbe seconda sola al Maracanazo. La nazionale di Carlos Alberto Parreira contende uno dei due posti disponibili all’Uruguay e alla sorprendente Bolivia di Etcheverry. I boliviani sono attesi da una trasferta agevole contro l’Ecuador, già eliminato. Il Brasile invece deve sconfiggere al Maracanà la paura, i suoi fantasmi e soprattutto l’agguerrito Uruguay. Tutto in 90 minuti.

Romario aveva lasciato la nazionale nove mesi prima. Aveva risposto alla convocazione per un’amichevole contro la Germania a Porto Alegre. Una partita per lo più vista da bordo campo.

Se avessi saputo che fossi partito dalla panchina, me ne sarei rimasto comodo ad Eindhoven.

Lo dirà al termine dell’incontro. Così, mentre o’Baixinho si accasava al Barcellona versione Dream team di John Cruijff dopo 128 reti nel PSV, il Brasile arrancava sulle Ande, perdendo in Ecuador (0-0) e Bolivia (0-2) punti preziosi che potevano costare una storica eliminazione dal Mondiale. Serve un miracolo e il predestinato pare già avere un nome.

Già so quello che sta per succedere: sconfiggerò l’Uruguay.

Con la consapevolezza di chi sa di avere una missione per conto di Dio, il 19 settembre 1993 Romario torna al centro dell’attacco brasiliano per dimostrare a Parreira chi è l’unico davvero intoccabile. E ovviamente ha ragione lui. Il tabellino finale recita 2-0, Romario-Romario. Il gol che chiude la partita è un perfetto trailer del suo calcio, rapido ed essenziale: scatta alle spalle della difesa uruguaiana su lancio di Mauro Silva, aggira Siboldi con un mortifero cambio di direzione quindi consegna alla porta sguarnita il pallone che vale gli States.

A Barcellona non c’è verso di fargli perdere i suoi vizi. Di gol ne segna 30 in 33 partite. Pichichi al primo tentativo. Ogni gol di Romario fra i blaugrana è l’assolo finale di una magistrale esecuzione dello spartito immaginato da Cruijff per mano di alcuni dei migliori interpreti del momento: Josep Guardiola, Ronald Koeman, Micheal Laudrup e Hristo Stoichkov, per intenderci.

Romario Barcellona
Romario in maglia Barça (Foto: Chris Cole/Getty Images – OneFootball)

Con una facilità disarmante, il 9 gennaio 1994 infilza 3 volte la porta del Real Madrid. Il difensore madrileno Alkorta ancora non si capacita di come il brasiliano con appena due tocchi abbia potuto girarsi al limite dell’area senza neppure degnarlo di uno sguardo, lasciarlo sul posto e giustiziare Buyo in uscita disperata. Finisce 5-0 ed è anche superfluo immaginare chi possa essere il nuovo eroe del Campo Nou al termine del Clásico.

Romario però è anche una montagna russa in carne e ossa. Donne e vita notturna, movida e paparazzi:

Il motivo per cui amo la notte è semplice. Di notte vedi cosa vuoi, di giorno sei costretto a vedere tutto.

Si fa squalificare per 4 giornate dopo aver rifilato un pugno a Diego Simeone. Cruijff, che lo ritiene il più forte giocatore che abbia mai allenato, gli consiglia una vita più regolamentata. “Ma chi sei, mio padre?”, sbotta Romario, che per poco il padre non lo perde davvero a seguito di un rapimento lampo, a maggio 1994.

Sarebbe comunque una stagione perfetta se una notte di primavera un allenatore friulano non gli rovinasse la festa a due passi dall’Olimpo. È la finale di Champions League di Atene e il Milan di Capello, seppur orfano di Baresi e Costacurta, insegna a Cruijff e al Barcellona cosa significhino rispetto dell’avversario, dedizione e umiltà. Finisce 4-0 per i rossoneri. Romario è cancellato dalla sontuosa prestazione di Filippo Galli e Paolo Maldini e dal coup de théâtre del genio Savicevic. Ma c’è tempo per vendicarsi del calcio italiano. Basta attendere un paio di mesi.

Romario ad Usa ’94

Arriviamo finalmente a Usa ’94. Il Brasile di Parreira è una squadra insolitamente quadrata. Ai numeri da giocoleria si preferiscono il pragmatismo di Dunga e Mauro Silva, la corsa di Zinho e Cafu, la solidità tutta italiana di Aldair, Branco e Taffarel. Per i brasiliani è come passare dall’ora di educazione artistica al compito in classe di geometria, con soli due interpreti liberi di preferire piroette da compasso al rigore della squadra: Bebeto, alfiere dell’incredibile Super Depor, e ovviamente Romario, fresco campione di Spagna, separati da circa 1000km, 0 punti in classifica – il Barcellona vinse la Liga grazie agli scontri diretti – e da un sufficiente numero di posti in aereo per non affrontare il viaggio d’andata al fianco di un acerrimo rivale.

Noi attaccanti dobbiamo essere egoisti.

Fuochi fatui. È soprattutto grazie a Bebeto che Romario, in una rosa non senza incognite, diventa la variabile decisiva. Rispolvera il meglio del suo repertorio per aprire le marcature con Russia (2-0) e Camerun (3-0): opportunismo e velocità. Con il Camerun, nella terra del football, aggancia al limite dell’area un lancio millimetrico del quaterback Dunga, resiste al rientro di due difensori africani e va in touchdown con un tocco morbido sotto il corpo proteso in uscita di Bell. Sotto 0-1 contro la Svezia fa tutto da solo: percussione centrale fra le maglie bianche e colpo da biliardo sul secondo palo, irraggiungibile per Ravelli.

Agli ottavi di finale Romario si trasforma in uomo assist. È Bebeto a espugnare il Fort Apache innalzato da Lalas e compagni a protezione di Meola. Ma contro l’Olanda, la sua Olanda, sente quasi aria di derby. La rete con cui scuote la partita dopo un primo tempo soporifero è un contropiede tanto eretico per la torcida brasileira quanto impeccabile: lancio lungo di Aldair, Bebeto si invola a sinistra e serve al centro dove Romario non può sbagliare. Finirà 3-2, dopo l’icona esultanza del neo papà Bebeto e un bolide di Branco a tarpare i sogni rivoluzionari degli Orange.

Il Brasile è in finale dopo 24 anni. Un cerchio che si chiude. C’era l’Italia di Riva e Valcareggi a Città del Messico nell’epilogo di Messico ’70, c’è l’Italia di Baggio e Sacchi a Pasadena. È difficile immaginare una finale più noiosa di Germania Ovest-Argentina a Italia ’90 ma gli americani, si sa, non conoscono limiti. Il torrido mezzogiorno di fuoco della West Coast evapora le ultime energie delle formazioni in campo, stremate da un Mondiale fatto di tanta umidità e faticose distanze. A tormentare i movimenti di Romario ci pensa lo stoico Baresi, rimesso a nuovo a 23 giorni da un pesante infortunio al menisco. Un incubo che si ripete dopo la finale di Champions. Ai rigori però Baresi calcia altissimo. Romario riscatta l’errore di Marcio Santos con un’esecuzione così precisa da far imbestiare Pagliuca: palo interno e rete. Il resto è storia nota: Romario solleva la Coppa del Mondo subito dopo capitan Dunga ma prima di un giovanissimo numero 20 mai sceso in campo a Usa ’94, di cui si dice un gran bene. È Ronaldo Luis Nazário da Lima. Quasi un passaggio di testimone.

Romario USA '94
Bacio dorato (Foto: Timothy Clary/AFP via Getty Images)

Coppa e declino

La finale di Pasadena è l’inizio del declino del Baixinho. Lascia quasi subito Barcellona per dissidi con Cruijff. Dopo una parentesi in Brasile torna in Spagna per indossare la maglia del Valencia. Qui è Claudio Ranieri ha sbarrargli la strada:

Basta bella vita. Di questo passo i mondiali te li puoi sognare.

Sono le ultime battute in Europa. Zagallo, il nuovo CT del Brasile, prova per tutto il 1997 la coppia atomica Romario-Ronaldo. Insieme vincono una Copa America e una Confederation Cup, ma la scarsa forma primaverile del primo convince il CT a lasciare a casa il campione del mondo. Per tutta risposta Romario apre a Rio de Janeiro il “Café do Gol” e sulla porta del bagno fa realizzare una caricatura di Zagallo seduto sul water con i pantaloni abbassati. Quasi a dire, con la dignità di un sovrano spodestato, a ciascuno il suo trono.

Lo attendono ancora 10 anni da Globtrotter del gol: Flamengo, Vasco da Gama, Fluminense e sortite in Qatar, Stati Uniti e Australia. Ha ancora tempo per farsi escludere da Felipe Scolari dai Mondiali in Giappone e Corea e conquistare comunque il Pallone d’Oro sudamericano.

A questo punto gli resta un ultimo obiettivo: raggiungere la stratosferica quota di 1000 gol in carriera. Traguardo che arriva su calcio di rigore il 20 maggio 2007, in Vasco da Gama-Sport Recife, dopo essere persino improvvisato come il primo pendolare transoceanico della storia, giocando contemporaneamente nel Tupi Football Club, serie C brasiliana, e l’Adelaide United. Per la Fifa il quel rigore è appena il gol numero 929, ma una divinità ha poco da spartire con matematica e pallottoliere. E a proposito di divinità:

Gliene mancano ancora 282, quanti ne ho segnati io.

Questa la tiepida accoglienza di Pelé. Evidentemente è ancora scottato da quella volta che Romario gli diede del ritardato. L’Olimpo non è posto da una poltrona per due.

Non c’è spazio per entrambi (Foto: Imago Images – OneFootball)

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