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Un’estate italiana

9 dicembre 1989. Per i fedeli seguaci di Eupalla, la somma divinità del calcio creata dalla penna di Gianni Brera, è l’1 avanti Italia ’90. Un lungo conto alla rovescia, scandito da 34 domeniche d’avvento celebrate dal rauco eloquio di Sandro Ciotti in radio, dal rassicurante sorriso di Paolo Valenti a Novantesimo Minuto e dall’atmosfera da bar, fra sfottò e storpiature linguistiche, messa in scena da Aldo Biscardi al Processo. Epica e provincialismo, bon ton e sberleffo. Sospeso, quel calcio, come la musica che gira intorno, per dirla con Ivano Fossati. E che musica.

È sabato, ma non un sabato qualunque. È il sabato italiano. Al PalaLottomatica di Roma i Mondiali italiani iniziano la loro lunghissima fase di riscaldamento con i sorteggi della fase eliminatoria. L’Italia inizia a giocarsi tutto. Sul piano sportivo un girone abbordabile, con 3 partite all’Olimpico di Roma: è il lasciapassare per una seconda fase sempre nella Capitale. Sul piano organizzativo è l’occasione per dimostrare al mondo che sì, saremmo pure pizza spaghetti e mandolino, ma sappiamo fare le cose in grande.

Sospesa, l’Italia del Mondiale, fra tradizione e innovazione, come nella più banale dichiarazione d’intenti di ogni piccola e media impresa del Bel Paese. Nel dietro le quinte dei Campionati del Mondo le certezze della Prima Repubblica, siccome immobile, iniziano a scricchiolare a causa dell’allegra gestione dei fondi statali stanziati per ammodernare infrastrutture e stadi e dei tanti incidenti registrati sui cantieri. Alla fine si contano 24 morti e 678 infortuni.

Notti magiche, che dir si voglia

Sul palco si adotta l’italianità totale. I nostri numeri 10 – Pippo Baudo, Sophia Loren, Luciano Pavarotti che interpreta O Sole Mio – trasformano urne, fasce e bussolotti in uno spettacolo pop. Il primo della storia. E nel Paese del bel canto non può mancare l’inno, anch’esso il primo. Una canzone che accompagni le attese, le imprese e le rese dei giocatori in campo. Così nasce Un’estate italiana, To be number one nella versione originale di Giorgio Moroder – 3 volte premio Oscar, a proposito di numeri 10 italiani -, Notti magiche per tutti gli altri. Al PalaLottomatica assume le fattezze di Edoardo Bennato e Gianna Nannini, che ne avevano scritto e interpretato la versione italiana.

Sospesa, ovunque, per tutti i mesi a seguire, Un’estate italiana è più presente di un tambureggiante tormentone estivo. Forse perché è molto più di una melodia fischiettabile, di un ritmo ballabile o di un successo sanremese tutto cuore-amore. È la colonna sonora perfetta per i nostri Top Gun in maglia azzurra, il manifesto musicale con cui emanciparci da etichette e stereotipi, calcistici e non, che il tempo, la storia e le dicerie sul nostro conto ci avevano affibbiato. Artisti e geniali ma volubili e inaffidabili. Maestri del calcio ma catenacciari incalliti. Grande potenza mondiale, ago della bilancia fra le super potenze dell’epoca ma mafiosi omertosi e corrotti.

Sin da gennaio 1990 imperversa nelle classifiche dei dischi più venduti, in radio, a Superclassifica Show. La impariamo a memoria. La trascriviamo sui quaderni, sulla Smemoranda, sui banchi di scuola. Ne facciamo a tutti gli effetti un inno nazionale. Quasi non ci stupirebbe se prima delle partite in tv si cantasse Notti magiche inseguendo un gol mentre la telecamera indugia su Zenga-Bergomi-Maldini-Ferri-Baresi-Donadoni-Giannini-De Napoli-Berti-Vialli-Carnevale.

A furia di riavvolgere i nastri delle nostre musicassette per riascoltarla più volte, forse, il testo della canzone è riuscito a incidere in maniera determinante sulle vicende del Mondiale. Quasi a prevederlo. Eravamo troppo presi dalla gigioneggiante esultanza di Sergio Goycoechea al termine della disfatta contro l’Argentina per accorgerci subito di come Un’estate italiana contenesse fra le sue parole gli indizi del Mondiale che sarebbe stato.

Le immagini e le storie che ci avrebbero accompagnato nel tempo, molto più della terribile finale fra Germania Ovest e Argentina – uno strazio, come la definì Gianni Brera – degli sciagurati rigori di Roberto Donadoni e Aldo Serena e dello spettacolo, pochino, offerto in campo nelle fasi cruciali del torneo. Ricantiamola ancora una volta e ripercorriamo a posteriori alcune delle storie di Italia ’90.

Le frontiere dissolte ad Italia ’90

Forse non sarà una canzone
A cambiare le regole del gioco
Ma voglio viverla cosi quest’avventura
Senza frontiere e con il cuore in gola

Non una canzone a fare la rivoluzione, come cantava Francesco Guccini nella sua Avvelenata, e neppure il calcio. È sufficiente la storia. Appena un mese prima era caduto il Muro di Berlino, grigia cicatrice in cemento che separava Occidente e Oriente, Capitalismo e Comunismo. Più o meno consapevolmente Germania Ovest, Unione Sovietica, Jugoslavia e Cecoslovacchia si apprestano a scendere in campo per l’ultimo Mondiale della loro storia sportiva, prima che processi diplomatici, secessioni più o meno concordate e guerre fratricide dissolvano definitivamente le loro frontiere.

Se ne sarebbe aggiunta una quinta, la Germania Est, se la caduta del Muro non avesse deconcentrato i giocatori della DDR all’ultimo miglio delle qualificazioni. Il 15 novembre i tedeschi orientali sono attesi dall’Austria a Vienna per la partita decisiva del girone. Un solo punto li separa da un Mondiale che al di qua del muro manca dall’edizione 1974, passata alla storia per il calcio totale dell’Olanda di Cruijff e per l’inaspettata vittoria proprio della Germania Est ai danni dei cugini occidentali, futuri campioni del mondo, col gol di Jurgen Sparwasser.

Qualunque nazionale a un passo dal Mondiale sarebbe scesa in campo con la concentrazione necessaria per difendere il punto di vantaggio e portarsi a casa un posto al sole. La caduta del Muro però muta le priorità dei calciatori, d’un tratto consapevoli che il loro futuro prossimo si sarebbe tinto delle lusinghe, delle maglie e soprattutto degli stipendi delle squadre di club occidentali.

Uno sbocco di carriera imprevisto, osteggiato dai rigidi dettami della dittatura di Berlino Est. “Preparare la partita divenne impossibile“, ha spiegato anni dopo l’allenatore di quella nazionale, Eduard Geyer. Il ritiro della nazionale infatti si era trasformato in un calciomercato clandestino, con infiltrati dei club occidentali – tra cui Wolfgang Karnath, sguinzagliato dal Bayer Leverkusen – pronti a tutto pur di contendersi le stelle dell’Est: Ulf Kirsten e Mattias Sammer. Risultato finale: 3-0 per l’Austria con tripletta di Toni Polster, addio Mondiale, addio casacche blu.

Un rigore sbagliato da Faruk Hadzibegić al cospetto dell’ipnotico Sergio Goycoechea cala il sipario sulla Jugoslavia. Pochi giorni prima una doppietta di Dragan Stojković elimina la Spagna e porta i brasiliani d’Europa fra le migliori 8 del mondo. 40 mila tifosi si ritrovano in centro a Sarajevo per festeggiare attorno a una bandiera ormai in procinto di essere deposta. Un ultimo momento di orgoglio nazionale, lì dove il vento della dissoluzione soffia già forte.

A Firenze la nazionale di Ivica Osim si presenta al cospetto dell’Argentina di Maradona senza alcun timore reverenziale. Una rosa fortissima, ricca di talenti che hanno fatto le fortune delle squadre europee: Savicevic, Boban, Suker, Boksic, Prosinecki, Jarni. Protagonisti di campionati e coppe europee del decennio che si apriva dinanzi a loro, oltre la voragine che stava per risucchiare i luoghi della loro crescita umana e sportiva. La secessione di Croazia, Slovenia e Bosnia pochi mesi dopo la fine di Italia ’90 dà il via a una guerra di cui ancora oggi, passeggiando nelle città dell’ex Jugoslavia, si possono ancora vedere le ferite.

Maradona - Italia '90
Maradona nella sfida alla Jugoslavia (Foto: Imago – OneFootball)

Decisamente più pacifico l’ultimo atto della nazionale cecoslovacca. Teatro della Primavera di Praga e della successiva invasione Sovietica nell’agosto del 1968, il paese aveva già da tempo avviato un processo di separazione consensuale fra Repubblica Ceca e Slovacchia. L’ultima Cecoslovacchia raggiunge i quarti di finale con 10 gol all’attiva e un’unica sconfitta nel proprio ruolino di marcia, contro l’Italia di Roberto Baggio e Totò Schillaci. A Milano, contro la Germania Ovest, è solo un rigore di Lothar Matthaus ad arrestare l’avanzata di Tomáš Skuhravý, prossimo acquisto del Genoa, e Luboš Kubík, già apprezzato centrocampista della Fiorentina.

L’Unione Sovietica, invece, chiude la sua storia ai mondiali con un inutile 4-0 al Camerun, già clamorosamente qualificato agli ottavi di finale. La nazionale del colonnello di Valerij Lobanovs’kyj resta una delle grandi incompiute degli anni ’80. L’URSS si presenta a Italia ’90 carica di aspettative. Gridano ancora vendetta l’uscita di scena ai tempi supplementari contro il Belgio da Messico ’86, dopo essere stata per ben due volte in vantaggio durante i tempi regolamentari, e il secondo posto agli Europei dell’88, crollata sotto l’incredibile balistica dei colpi di Marco Van Basten. Qualche ingiustizia arbitrale, tra cui un macroscopico fallo di mani di Diego Armando Maradona contro l’Argentina, e una squadra sottotono sono l’ultimo atto di una nazionale che seppur di belle speranze e non ha mai davvero inciso nei momenti che contavano.

Il brivido di Milla (e la follia di Higuita)

E il mondo in una giostra di colori
E il vento accarezza le bandiere
Arriva un brivido e ti trascina via
E sciogli in un abbraccio la follia

Soprattutto le ultime 8 partite di Italia ’90 scorrono noiose sino all’esito finale. Pochissimi gol, partite quasi sempre decise dai calci di rigore, tatticismo esasperato ammazza emozioni. Il peggior spot per il calcio europeo e per l’unica squadra sudamericana sopravvissuta al primo turno a eliminazione diretta. A rompere gli equilibri e portare brivido e follia alla competizione mondiale ci pensa il Camerun di Roger Milla e Thomas N’Kono, autentica rivelazione a Italia ’90.

Camerun Romania
Il Camerun festeggia la vittoria sulla Romania a Bari (Foto: Gerard Fouet/AFP via Getty Images – OneFootball)

Il Camerun aveva già ben figurato a Spagna ’82: nessuna sconfitta e il rimpianto per non aver centrato il passaggio del primo turno solo per aver segnato un gol in meno dell’Italia. Si presenta a Milano l’8 giugno per la partita inaugurale, con il ruolo designato di vittima sacrificale dell’Argentina campione del Mondo uscente. Finirà 1-0 con gol di François Omam-Biyik, dopo una battaglia che ha visto i Leoni indomabili chiudere la partita in 9 per l’espulsione di Kana-Biyik e Massing. Raggiungono gli Ottavi di finale dopo aver battuto per 2-1 la Romania a Bari, con la doppietta del trentottenne Roger Milla, richiamato a gran voce dal pre-pensionamento nel campionato dell’Isola di Riunione. Poi la sconfitta, inutile, con i Sovietici.

All’improvviso arriva la follia. 23 giugno 1990. A Napoli si gioca Camerun-Colombia. I tempi regolamentari si chiudono sullo 0-0.  Al 106’ minuto Roger Milla riceve palla sulla trequarti, salta un difensore colombiano, entra in area e fa partire un diagonale imparabile, 1-0. Preambolo del gol che passerà alla storia non per un gesto tecnico ragguardevole ma per la sua folle genesi. Fra i Cafetéros gioca Renée Higuita, eccentrico numero 1 che non disdegna sortite lontane dall’area di porta, per buona pace dei tifosi deboli di cuore.

Al minuto 109 Higuita è tanto distante dalla porta quanto autorevole nel farsi restituire il pallone in un 1-2 abbastanza avventuroso a pochi passi dal centrocampo. Un eccesso di sicurezza che costerà caro. Roger Milla approfitta di uno stop impreciso dell’estremo difensore colombiano per impossessarsi del pallone e correre, correre, correre verso la porta lasciata irresponsabilmente incustodita. 2-0, danza attorno alla bandierina e telecamere che cercano Higuita, con lo sguardo perso del vuoto, consapevole di una figuraccia che vale l’eliminazione dal Mondiale.

Milla e Higuita
Higuita insegue inutilmente Milla (Foto: STAFF/AFP via Getty Images – OneFootball)

A nulla vale il gol della bandiera di Redin al minuto 119. Il Camerun è la prima nazionale africana a raggiungere i Quarti di finale di un Mondiale di calcio. Traguardo che per almeno 20 minuti era stato, se possibile, ancor più ambizioso. Solo due rigori di Gary Lineker nel derby fra leoni con l’Inghilterra, dopo essere andata in vantaggio al 65’ con gol di Eugène Ekéké, impedisce al Camerun di accarezzare il podio e fare sogni ancora più grandi.

Gli occhi di Schillaci ad Italia ’90

Notti magiche
Inseguendo un goal
Sotto il cielo
Di un’estate italiana
E negli occhi tuoi
Voglia di vincere

Occhi e Italia ’90 conducono esclusivamente a un’immagine, un nome, un eroe. Italia-Cecoslovacchia, decisiva partita del Gruppo A. Chi vince conquista il girone e il diritto di giocare ancora a Roma. Alla Cecoslovacchia basta un pareggio, in virtù di una differenza reti favorevole. Pesa il 5-1 inflitto dai danubiani agli Stati Uniti. I nostri, invece, avevano balbettato contro la nazionale stelle e strisce, battuti appena 1-0 con gol di Giannini e miracolo di Zenga su un colpo ravvicinato di Murray, quasi una mini-Corea.

All’esordio, invece, gli azzurri avevano superato con fatica gli austriaci grazie al gol al 75’ di quello che in quel momento era un inaspettato protagonista. Tutti aspettano Vialli, Carnevale o Serena. Nessuno si immagina che il picciuotto Totò Schillaci possa prendere in mano la nazionale di Vicini e come un Re Mida trasformare in rete qualunque pallone passi per i suoi piedi.

Torniamo a Italia-Cecoslovacchia. La partita, per fortuna, si era già messa in carreggiata al 9’. Totò Schillaci devia sotto misura un tiro da fuori area del principe Giannini. Ancora Giannini, nel secondo tempo, prova da sinistra a mettere un pallone al centro dell’area. La sfera schizza sulla schiena di un difensore avversario, si ammorbidisce e diventa un filtrante comodo per Schillaci, che punta il fondo, si accentra e salta Skuhravý che lo tocca. L’arbitro Quiniou non ha dubbi, Totò si è tuffato.

Mima il gesto mentre accorre verso il nostro attaccante per invitarlo a rialzarsi. E qui, Schillaci, sgrana gli occhi nel fotogramma che oggi sarebbe diventato un meme in pochissimi istanti. Occhi che esulteranno ancora 4 volte, contro l’Uruguay, l’Irlanda, l’Argentina e infine l’Inghilterra, nella partita che consegna il bronzo agli azzurri e la scarpa d’oro del torneo a Totò. Una notte a suo modo magica, seppur sbagliata.

Schillaci - Italia '90
Gli occhi di Totò, emblema azzurro di Italia ’90 (Foto: Imago – OneFootball)

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