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Manchester City, episodio 3: una storia da rispolverare

Il Manchester City è ormai da un decennio ai vertici del calcio inglese ed europeo, ha una rosa di campioni in ogni reparto e una bacheca particolarmente luccicante, ma il modo in cui ha raggiunto questo status ha fatto storcere il naso a più di qualche cronista e tifoso avversario. L’avvento dell’Abu Dhabi Group, rappresentato dal chairman Khaldoon Al Mubarak ha infatti segnato un punto di svolta nella storia del club, per anni all’ombra dei più fortunati vicini dello United. In un certo senso però, nella cultura di massa, la mole enorme di successi recenti ha anche finito per oscurare quanto accaduto prima. C’è in realtà una storia ultracentennale che merita di essere raccontata. Una storia fatta di qualche vittoria e parecchie delusioni, di vicende rimaste incastonate nella leggenda e altre piuttosto tragicomiche, e soprattutto di un legame indissolubile con la propria città.

Manchester City campione d'Inghilterra 20/21 Il Manchester City festeggia la vittoria della Premier League 20/21 (Foto: Dave Thompson/Getty Images – OneFootball)

Come tutto ebbe inizio

La denominazione Manchester City si ebbe per la prima volta nel 1894, ma le reali origini del club inglese vanno ricercate qualche anno addietro. Nel 1880 il quartiere di Gorton a Manchester riversava in uno stato di perenne disoccupazione e forte delinquenza, così alcuni membri della St. Mark’s Church of England, in particolare il reverendo Arthur Connell, decisero di fondare una squadra di calcio per proporre un‘alternativa agli uomini e i ragazzi del quartiere. Le iscrizioni erano ovviamente aperte a chiunque volesse partecipare.

Nel 1887 il club cambiò nome, da St. Mark’s ad Ardwick Association Football Club. A dimostrazione delle motivazioni umanitarie che spingevano il club, l’Ardwick nel 1889 organizzò un amichevole per raccogliere fondi in seguito alla tragica esplosione che colpì una miniera di carbone ad Hyde e in cui persero la vita 23 persone. Nel 1891 la squadra prese parte al suo primo campionato, partecipando alla Football Alliance. Tre anni dopo, in seguito a una serie di problemi economici che portarono l’Ardwick al fallimento, dalle sue ceneri nacque il Manchester City che oggi conosciamo, con l’obiettivo di rappresentare l’intera città.

La storia del City al massimo livello del calcio britannico ha inizio nel 1899. Il 4-1 all’ultima giornata contro il Blackpool diede infatti l’ufficialità della prima, storica, promozione in First Division. Capocannoniere e leader di quella rosa, con 29 gol in 33 presenze, era uno dei più grandi cityzens di sempre, nonchè probabilmente una delle prime vere star del calcio: il gallese Billy Meredith. Tutt’ora il quinto miglior marcatore della storia del club, Meredith detiene anche il record di giocatore più anziano ad averne vestito la maglia, scendendo in campo a ben 49 anni e 245 giorni contro il Newcastle. La permanenza dei blues tra i grandi durerà per 3 anni, prima di giungere alla prima, anche questa storica, retrocessione nel 1902. La First Division verrà comunque riacciuffata nell’anno immediatamente successivo.

Il 1904 è l’anno in cui il City potè finalmente festeggiare la vittoria del primo trofeo. In finale di FA Cup contro il Bolton fu infatti ancora Meredith a lasciare il segno, portando i suoi ad alzare la coppa nell’allora stadio del Crystal Palace. Era una squadra davvero forte quella, in cui oltre a Meredith si distingueva il centravanti scozzese Billie Gillespie, un purissimo rapace d’area di rigore. I cityzens infatti andarono vicinissimi al loro primo double, dovendo cedere in campionato soltanto allo Sheffield Wednesday.

Le annate successive non furono però altrettanto felici, bensì contrassegnate da pesanti problemi economici che portarono alla migrazione di molti degli uomini migliori verso i dirimpettai del Manchester United. Nel 1909 arrivò la seconda retrocessione in 7 anni, di nuovo cancellata da un’immediata promozione. Durante la guerra la First Division fu inevitabilmente interrotta, ma il calcio giocato continuò la propria esistenza tramite le cosiddette War Leagues, leghe di stampo regionale, cui il City prese parte.

Il Manchester City vincitore della FA Cup nel 1904 La squadra guidata da Meredith alla conquista della FA Cup (Foto: Hulton Archive/Getty Images – OneFootball)

Nuova casa, vecchio Manchester City

Il 1923 rappresenta un altro anno di svolta nella storia dei blues: il club di Manchester si trasferì infatti a Maine Road, che rimarrà teatro delle gare casalinghe del City per 80 anni, cedendo la scena al City Of Manchester Stadium (attuale Etihad) soltanto nel 2003. Il primo gol nel nuovo impianto, di fronte a circa 57000 persone, lo segnò Horace Barnes in una vittoria contro lo Sheffield United. Non è un nome di secondo piano quello di Barnes, che in quanto centravanti aveva ereditato il pesante testimone di Tommy Browell. Entrambi fanno parte dell’esclusivo club di coloro che in maglia cityzen hanno segnato oltre 100 gol.

Il cambio di residenza non fu l’unica clamorosa novità della stagione, che vide anche l’addio dell’allenatore Ernest Magnell dopo ben 12 anni. Dopo un campionato piuttosto tranquillo, l’annata 1925-1926 vide i blues salire sulle montagne russe. L’allenatore David Ashwort fu sollevato dall’incarico a novembre, lasciando il posto al presidente Albert Alexander. La squadra si rese protagonista di una clamorosa vittoria per 6-1 in un derby, la più larga nella storia a pari merito con quella ben più nota del 2011, e di una magnifica cavalcata in FA Cup, arrendendosi soltanto al Bolton in finale. Le sorprese non erano però terminate, tanto che una settimana dopo arrivò la batosta della retrocessione in Second Division.

Per vincere nuovamente una competizione il City dovette aspettare il 1934, quando guidato dallo storico capitano Sam Cowan riuscì a sconfiggere il Portsmouth in finale di FA Cup, non prima però di aver perso all’ultimo atto nella stagione precedente, questa volta contro l’Everton. Due interessanti curiosità. La prima è che in quella rosa era presente anche Matt Busby, ai tempi onesto difensore o all’occorrenza mediano, che successivamente farà la storia da allenatore dello United. La seconda ha a che fare con i tifosi, che in 84559 si recarono al Maine Road per i quarti di FA Cup stabilendo così un record durato fino al 2016, quando fu infranto dai paganti di Wembley per Tottenham-Bayer Leverkusen di Champions League.

Se si potessero scegliere due sole annate per rappresentare al meglio la storia del Manchester City, sarebbero sicuramente le stagioni 36-37 e 37-38. Nella prima i blues tagliarono un traguardo storico laureandosi come campioni d’Inghilterra per la prima volta, grazie anche agli oltre 100 gol segnati, di cui 30 del monumento irlandese Peter Doherty. L’anno successivo, in modo rocambolesco e a suo modo storico, il club mancuniano fu condannato alla retrocessione, raggiungendo così un traguardo ancora oggi ineguagliato. Si tratta infatti della prima ed unica squadra nella storia del calcio inglese capace di scendere di categoria da detentrice del titolo. Typical City.

Il dopoguerra e gli anni d’oro del Manchester City

Alla ripresa dei campionati una volta terminato il conflitto mondiale, i cityzens non persero tempo e recuperarono immediatamente la prima divisione, guidati di nuovo, ma questa volta in panchina, da Sam Cowan. Nelle annate successive i risultati furono altalenanti, ma ci pensò il calciomercato a rendere il periodo memorabile. Dopo un’ottima stagione al St. Helens’ Town tra i dilettanti infatti approdò al City un portiere tedesco che rispondeva al nome di Bert Trautmann. La scelta fu ampiamente criticata da stampa e tifosi, non solo perchè Trautmann andava a rimpiazzare una leggenda del club come Frank Swift, ma soprattutto per il suo passato a tinte naziste.

 perché Trautmann la guerra l’aveva fatta per davvero, da paracadutista per la Luftwaffe. Nel 1945 fu catturato dalle truppe inglesi e imprigionato nel campo di Ashton-in-Makerfield, dove iniziò a giocare a calcio prima da mediano, poi in seguito a un infortunio da portiere. Notato da un osservatore di una società minore ebbe l’opportunità di venire liberato, e decise in maniera piuttosto sorprendente di rimanere in Inghilterra, colpito in positivo dalla cultura e dalla gentilezza delle persone. Cominciò quindi a farsi chiamare Bert, più facile da pronunciare per i britannici rispetto al suo vero nome Bernhard. La scelta gli provocò l’ostilità della madrepatria tedesca, tanto che da lì in poi sarebbero state poche per lui le opportunità di vestire la maglia della nazionale.

La storia di Trautmann, già incredibile di per sé, è legata a doppio filo a un biennio importante per il Manchester City. Nel ‘55, dopo una serie di annate senza troppe luci, la squadra allenata da Les McDowall riuscì a raggiungere la finale di FA Cup, perdendo contro il Newcastle per 3-1. I blues avevano però trovato la chiave per essere competitivi grazie al nuovo sistema di gioco implementato dalla propria guida tecnica, il cosiddetto Revie Plan (dal nome del proprio centravanti, Revie appunto). McDowall fu ispirato dalla nazionale ungherese che nel ’53 sconfisse l’Inghilterra per 6-3 a Wembley e l’anno successivo si laureò vice-campione del mondo, utilizzando Revie da centravanti di manovra abituato a venire spesso incontro, così come faceva il magiaro Hidegkuti.

Così nel ‘56 i cityzens si ripresentarono in finale, e questa volta sconfissero il Birmingham City con un netto 3-1. Quella partita però si consacrò alla leggenda e alla cronaca calcistica proprio per le gesta del portiere di Brema. A circa 15 minuti dalla fine infatti Trautmann dopo un’uscita perse i sensi in uno scontro col centravanti avversario Peter Murphy. Rianimato, non essendo possibili le sostituzioni decise di continuare a giocare riuscendo a non subire alcun gol. Soltanto qualche giorno dopo si scoprì che aveva giocato con cinque vertebre del collo danneggiate, di cui una completamente spezzata. 

A questo periodo, mentre l’altra sponda cittadina veniva scossa dal tragico disastro aereo di Monaco del 1958, seguirono mediocrità e insuccessi, culminati nel punto più basso mai raggiunto dal City fino ad allora. Nel 1963 infatti i blues dovettero fare i conti con una nuova retrocessione, ma questa volta a differenza delle altre non furono in grado di risalire subito, mancando l’obiettivo promozione per ben due stagioni di fila. La panchina fu quindi affidata a Joe Mercer. A Manchester non lo sapevano ancora, ma la prolungata permanenza in purgatorio era solo il preludio a un’era paradisiaca.

Nel 65-66 la promozione effettivamente arrivò, ma soprattutto dal mercato arrivarono Mike Summerbee e Colin Bell, rispettivamente prelevati da Swindon e Bury. Negli anni a venire i due, affiancati all’attaccante Francis Lee, terrorizzarono le difese avversarie. Colin Bell, presto rinominato King of The Kippax (la Kippax era la zona più calda del tifo di Maine Road), è ancora oggi considerato uno dei giocatori più forti e importanti della storia del City, probabilmente il migliore del ventesimo secolo, e a lui è intitolata la West End dell’Etihad. Il Man City terminò la stagione 66-67 raggiungendo una salvezza tranquilla, e l’anno dopo, da typical City per una volta in positivo, realizzò l’impossibile. L’impresa di rivincere un campionato dopo oltre 30 anni. Il tutto dopo una gara al cardiopalma all’ultima giornata contro il Newcastle decisa proprio dal cannoniere Francis Lee, trionfando così sul Manchester United. Vi ricorda qualcosa?

I cityzens non riuscirono a ripetersi, ma la bacheca nelle due stagioni successive si arricchì di una FA Cup e soprattutto di una Coppa delle Coppe, primo trofeo europeo dopo un esordio senza lasciare il segno in Coppa dei Campioni. La fine del ciclo più luminoso nella storia societaria fino ad allora fu segnata dall’acquisto fallimentare di Rodney Marsh, grande talento, ma poco adatto al gioco della squadra. Nel 1972 Joe Mercer decise quindi di rassegnare le dimissioni, lasciando il ruolo al suo storico assistente Malcolm Allison.

Il Manchester City vincitore della Coppa delle Coppe La che portò la Coppa delle Coppe sulla sponda blu di Manchester (Foto: Central Press/Getty Images – OneFootball)

Meglio riderci su

Gli anni ’70 furono caratterizzati da pochi squilli, ma due gol sono rimasti scolpiti nella memoria collettiva. Denis Law, grande attaccante scozzese conosciuto maggiormente ai più per i suoi trascorsi con il Manchester United, nel 1974 condannò proprio i red devils alla retrocessione grazie a un incredibile colpo di tacco. Un momento da ricordare anche perché poche volte nella sua storia il City ha potuto godere delle disfatte dei dirimpettai, figurarsi esserne direttamente responsabile. Nel ’76 invece i cityzens sconfissero in finale di League Cup il Newcastle. Il gol decisivo lo segnò Dennis Tueart con una fantastica rovesciata, un gesto passato alla storia come una delle marcature più belle nella storia degli Sky Blues. Nel ‘78 Mike Doyle, capitano di lungo corso, lasciò il club dopo 13 anni. Se il nome non vi è nuovo, può darsi ne abbiate sentito parlare in relazione al nipotino Tommy, talento dell’academy del Manchester City ora in prestito all’Amburgo.

Può bastare un acquisto per cambiare completamente il futuro di una squadra. Spesso in meglio, talvolta in peggio. Fu quest’ultimo purtroppo il caso di Steve Daley,  centrocampista che nell’estate del 1979 arrivò dal Wolverhampton per una cifra record. Daley si rese protagonista di due stagioni fallimentari, e il suo insuccesso portò l’intera squadra in una spirale negativa che si concluderà con la retrocessione nella stagione 82-83.

Le annate successive furono altalenanti, con un incessante saliscendi tra First e Second Division, ma non è raro che quando l’intrattenimento in campo scarseggia, siano le tifoserie a tirare fuori il meglio. Se c’è un posto dove l’umorismo sa prendersi la scena, soprattutto nelle disgrazie, quello è il nord dell’Inghilterra, e Manchester in particolare. Così nell’agosto ‘87, in una gara casalinga contro il Plymouth valida per la seconda divisione, fece il suo esordio quello che per anni sarà il marchio di fabbrica della tifoseria cityzen, prima in casa e poi anche in trasferta. Frank Newton, un normalissimo tifoso, pensò sarebbe stata un’idea simpatica recarsi al suo posto in tribuna con una banana gonfiabile, ma non aveva idea di ciò che avrebbe scatenato. Di lì a poco, nelle partite successive Maine Road si riempì di banane e altri gonfiabili di vario tipo, e questi strani utensili iniziarono ad accompagnare i viaggi dei supporters su e giù per l’Inghilterra. Era un periodo complicato per il City e per il tifo negli stadi, in pochi anni si susseguirono i disastri dell’Heysel e di Hillsborough, ma almeno a Manchester sapevano ancora come sorridere.

And all the roads we have to walk are winding

Nel 1992 il calcio inglese giunse ad una svolta fondamentale grazie all’istituzione della nuova Premier League, nata dalle ceneri della First Division. Il City fu uno dei club fondatori, ma la sua traiettoria non seguì quella di crescita della Lega. Dopo anni di navigazione in acque piuttosto torbide, nel ’95 il City iniziò il campionato sotto la guida di Alan Ball. Erano gli anni dell’Oasis Mania, e i fratelli Gallagher non hanno mai nascosto il loro sfegatato tifo per i cityzens. Così fu facile per i frequentatori della Kippax unire la più grande hit della band di Burnage e il proprio allenatore. “And after all, you’re my Alan Ball” cantavano dalle gradinate. Col senno di poi, di quel Manchester City, sono rimasti alla storia gli Oasis e poco altro.

Al di là di cori particolarmente riusciti, l’aspetto riguardante la cultura pop e la musica merita una digressione. Nonostante il minore successo rispetto allo United, il City ha sempre avuto un legame intenso con le personalità artistiche locali. Ian Curtis era un grande tifoso blues, così come lo è lo storico fotografo dei Joy Division, Kevin Cummins. Lo stesso si può dire di Mark E. Smith, frontman dei The Fall, di Johnny Marr degli Smiths, e dello storico DJ dell’Haçienda Mike Pickering, oltre che dei già citati Noel e Liam Gallagher. L’attuale proprietà tiene molto a questo aspetto, e non è raro vedere alcune di queste personalità in tribuna all’Etihad o persino coinvolte sui canali social. Anche la terza maglia della scorsa stagione era un tributo dichiarato alla cultura della città, e in particolare alla sua musica.

Liam Gallagher in tribuna allo stadio
Non tutti i club possono vantare tifosi di un certo livello (Foto: Shaun Botterill/Getty Images – OneFootball)

Tornando ad Alan Ball, le cose non andarono come sperato e la rifondazione da lui voluta ed attuata portò ad una mesta retrocessione all’ultima giornata. Capocannoniere di quella squadra fu Uwe Rosler, autore di 13 gol totali, a cui i tifosi blues sono da sempre particolarmente affezionati. A guadagnarsi lo status di cult hero però fu un misterioso fantasista georgiano che Ball pescò dalla Dinamo Tbilisi. Georgi Kinkladze, questo il suo nome, aveva un sinistro capace di illuminare anche le peggiori giornate di pioggia (e a Manchester ce ne sono parecchie) e gli bastarono poche giocate per conquistare la devozione dell’intero popolo cityzen. Celebre, in quella disastrata stagione, fu il suo gol in casa contro il Southampton in cui infilò il portiere con un delizioso pallonetto dopo aver superato cinque difensori avversari.

Kinkladze, nonostante la retrocessione, decise di rimanere a Manchester per le successive due stagioni, seppure i blues non furono capaci di riagguantare il loro posto in Premier League. Nel ’98 però, quando in panchina si accomodò Joe Royle, le cose per Kinky presero una brutta piega. L’allenatore lo considerava un lusso che la squadra non poteva permettersi in un momento così delicato, e così lo relegò spesso in panchina. Fu probabilmente il disperato tentativo di dare una scossa, ma servì a poco e niente. Così il 3 maggio 1998 il Manchester City toccò il suo punto più basso, retrocedendo per la prima volta in oltre cent’anni in League One (terza divisione). Mai, nella storia del calcio inglese, un club vincitore in Europa era sceso oltre la seconda serie. Typical City, ancora.  

La luce in fondo al tunnel

You’re gonna be the one that saves me” quando lo ha scritto, Noel Gallagher, probabilmente non aveva in testa Paul Dickov. Con il senno di poi è facile attribuire significati straordinari anche a ciò che non li aveva in origine. Guardando indietro oggi però, quel destro di Dickov contro il Gillingham ha le sembianze di quando riesci a tirare la testa fuori dall’acqua dopo aver rischiato di annegare. L’anno era il 1999, il Manchester City a Wembley si giocava lo spareggio per risalire in Championship. Sotto 2-0 a poco dalla fine, riuscì a riacciuffare la gara per i capelli al fotofinish grazie al pari segnato dall’attaccante di Glasgow, e poi a vincerla ai calci di rigore. Chissà cosa sarebbe stato, se i blues non si fossero liberati subito dalle sabbie mobili della League One. Meglio non averlo mai scoperto.

L’ennesimo saliscendi dalla Championship alla Premier, e viceversa, non scalfì la sensazione dei tifosi del Manchester City di aver scacciato via un incubo ed essere ritornati a respirare. Alla retrocessione, l’ultima in ordine di tempo, del 2001, seguì l’immediata promozione grazie ai gol di Shaun Goater, probabilmente il giocatore più amato dalla tifoseria nell’era a cavallo tra i due secoli – non a caso, giocando con il suo cognome, soprannominato “the goat“. Toccò a lui l’onore di vestire la fascia di capitano nell’addio allo stadio di Maine Road, nel 2003. Pochi impianti hanno potuto essere scena di picchi così importanti e momenti così drammatici. Sembra uno strano scherzo del destino che l’ultimo gol del City su quel prato lo abbia segnato Marc-Vivien Foè, che di lì a poco sarebbe venuto a mancare facendo ciò che più amava.

In tema calcio giocato, i primi anni 2000 furono caratterizzati da una nuova, ritrovata stabilità. Merito di Kevin Keegan, che non siederà vicino a Guardiola nell’olimpo cityzen, ma che seppe individuare i giusti uomini da cui ripartire così da permettere al club di navigare in acque tranquille, senza troppi rischi di classifica. Giocatori di classe come Bernabia e Berkovic, un giovane e talentuoso Anelka e la saetta Shaun Wright-Phillips erano solo alcuni di coloro che costituivano la spina dorsale della squadra. Nel 2005 Keegan si dimise, stanco di non riuscire a lottare per l’Europa, ma è innegabile che alla causa abbia portato più di un mattoncino.

A Keegan successe Stuart Pearce, che nonostante una rosa dignitosa, in cui spiccava sicuramente Stephen Ireland (Wright-Phillips fu ceduto in direzione Chelsea), trovò le stesse difficoltà del suo predecessore. La squadra vivacchiava senza difficoltà, ma sembrava bloccata in un limbo senza vie d’uscita. Poi nella primavera 2007 ecco comparire un nuovo acquirente, il thailandese Thaksin Shinawatra. L’ex-primo ministro rilevò il club non senza controversie, lasciandosi poi andare a una sessione di mercato a fini dimostrativi. La scelta dell’allenatore ricadde su un profilo esperto e di caratura internazionale come Sven-Goran Eriksson, e la rosa fu puntellata da nomi come Martin Petrov, Elano, Gelson Fernandes e Bojinov. L’entusiasmo era nell’aria, ma la realtà si rivelò ben più dura di quanto immaginato. La stagione, piuttosto fallimentare per le aspettative, si concluse con un umiliante 8-1 subito dal Middlesborough, ed Eriksson lasciò l’incarico senza grossi rimpianti.

Ireland e Petrov con la maglia del Manchester City
Gli anni di Ireland e Petrov, ma anche di tanti altri come Rolando Bianchi, Garrido, Samaras (Foto: Jasper Juinen/Getty Images – OneFootball)

Il successore di Eriksson fu individuato in Mark Hughes, mentre ad esaltare i tifosi fu il ritorno del figliol prodigo Wright-Phillips. Arrivò anche un certo Vincent Kompany in quella sessione estiva. Definirlo come le fondamenta su cui ha poggiato tutto ciò che è stato costruito dopo viene piuttosto facile, ma ai tempi non lo immaginava nessuno. I fuochi d’artificio però non erano finiti, perché a un solo anno dall’acquisto, Shinawatra era sommerso da tali difficoltà economiche da cercare già nuovi acquirenti. Sembrava la fine di un sogno che non aveva fatto neanche in tempo a decollare. Typical City di nuovo, avrà pensato più di qualcuno. E invece questa volta no.

A farsi avanti, nel 2008, fu l’Abu Dhabi Group, che decise di prelevare il club e investire in maniera possente. L’acquisto a fini dimostrativi questa volta fu Robinho dal Real Madrid, segno che si faceva sul serio per davvero. Per arrivare alla superpotenza che conosciamo oggi dovettero passare ancora un paio d’anni, segnati dagli acquisti di uomini chiave come David Silva, Aguero, Yaya Tourè e di mister Mancini in panchina. La prima FA Cup, nel 2011, e il gol di Aguero contro il QPR, forse uno dei più grandi momenti di calcio, sembrarono spezzare una maledizione e lanciarono una dinastia volta a puntare traguardi ancora maggiori e che ha saputo diventare realtà ancor più concreta nel tempo.

Negare l’importanza assoluta dei soldi e degli investimenti arabi nella costruzione di ciò che è il Manchester City oggi sarebbe retorica, ma è bene ricordare come questa storia, come tutte le storie di calcio, sia la somma di ogni capitolo, anche quello meno glorioso. Ogni capitolo ha autori diversi, tutti contribuenti alla creazione di un’identità. Forse cambiando una parola, spostando una virgola, strappando una pagina, oggi avremmo una storia diversa.

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