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“La Rivoluzione Scientifica nel calcio”

Lo ammetto: in un primo momento, in merito all’uso delle statistiche applicate al calcio, ero scettico anch’io. Con quale pretesa – mi chiedevo – si tenta di razionalizzare una delle sfere più emotive e irrazionali delle nostre vite, quella del pallone, quella della squadra di calcio che tifiamo? L’ennesimo tentativo di spiegare tutto con la matematica, con la logica, mi dicevo. Lasciateci almeno il calcio, concedeteci almeno uno spazio per il caos, per gli eventi dominati dall’imprevedibilità. Insomma, la solita reazione di chi si trova a fare i conti con un nuovo fenomeno, ancora non compreso nella sua utilità, e teme che il rischio sia quello di rovinare la sua quotidianità, la sua zona di comfort.

Col tempo poi, complici gli svariati profili Twitter gestiti da persone competenti con cui spesso mi trovavo a parlare di calcio – sempre più propensi a fare delle statistiche avanzate uno strumento centrale nelle loro argomentazioni calcistiche – mi sono ricreduto. Da StatsBomb a FBref passando per SoFifa, i portali che consentono l’accesso a dati avanzati per le partite di calcio sono in costante crescita, e la mia home di Twitter, nonché i miei blog calcistici di riferimento, ne era invasa. Non solo i match analyst, ovviamente più indirizzati a un approccio iper-tecnico e numerico, ma anche ragazzi come me, semplici appassionati di calcio, intenzionati a capire più a fondo le partite, si cimentavano in queste statistiche misteriose, in parametri a me inizialmente del tutto alieni.

In un primo momento ero simile ai vecchi scout che guardano con scherno misto a compassione Jonah Hill che dileggia di dati matematici alla prima riunione per programmare il mercato in “Moneyball”, gran film sull’impatto dei data nel baseball che tutta la schiera degli scettici dovrebbe vedere. Dal rifiuto sono passato alla curiosità: iniziavo ad approfondire i dati citati, sempre con diffidenza, ma con l’umiltà di chi, solo al cospetto di un’ondata intera che rema nella direzione opposta, è costretto a chiedersi se la bandiera che issa sia quella giusta.

Così, in pochi mesi, anch’io ho iniziato a consultare alcune statistiche per i miei articoli. In un primo momento la mia comprensione dello strumento era pressoché nulla, procedevo selezionando solo i dati che confermavano la tesi che mi ritrovavo a sostenere, errore madornale noto come “bias di conferma”. Ma dando ascolto agli analisti più navigati e alla loro expertise, ho potuto migliorare sempre più il mio rapporto con lo strumento, superando anche la mia idiosincrasia genetica nei confronti di qualunque cosa abbia un rapporto, diretto o meno, con la matematica e i grafici. Se oggi mi ritrovo a scrivere questo articolo, è perché sono passato dall’altra parte dello schieramento e ritengo che sia stata la scelta in linea col mio obbiettivo: tentare di raccontare il calcio, nel modo più serio e onesto possibile. Intendiamoci, questo non significa dover rinunciare a un approccio più letterario e narrativo, anzi, si tratta semplicemente di aggiungere un ulteriore angolo di analisi, fino a pochi anni fa inaccessibile. Chiamasi arricchimento.

un allenatore con pc in panchina consulta le statistiche sulla propria squadra
Con l’avvento dei data, anche la presenza di computer e tablet nelle panchine è diventata sempre più costante (Foto: Getty Images – OneFootball)

Oggi può sembrare una prospettiva solo di nicchia, stigmatizzata dai conservatori che ne rifiutano la complessità. Domani, auspica chi scrive l’articolo, sarà un approccio mainstream, come lo è già in altri sport e in altri paesi nei quali, quando si definisce lo sport cultura, non si è costretti a giustificare la propria asserzione.

La chiamo Rivoluzione Scientifica perché mi ricorda i fatti che riguardarono Galileo e la scoperta di Copernico a fine ‘500 (sì, lo so, la questione qui trattata non ha esattamente la stessa portata). Da una parte abbiamo continue novità che si fondano su dati numerici, dimostrati razionalmente; dall’altra, invece, la Chiesa, qui simboleggiata dai conservatori anti-data, rifiutano le novità scientifiche e le condannano aspramente. C’è in corso una vera e propria guerra ideologica, nella quale sarebbe bene capire come le statistiche rappresentino un arricchimento, uno strumento in più, che nulla toglie a quanto abbiamo sempre amato del calcio.

Prima di potersi servire di numeri che quantificassero percentuali di passaggi riusciti, passaggi progressivi, heatmaps, indicatori di dominio territoriale e chi più ne ha più ne metta, il dibattito calcistico era condannato a una maggiore sterilità. Se A sosteneva che “ Il Centrocampista X è più forte del Centrocampista Y” e B sosteneva il contrario, spesso la discussione era destinata a morire sulla constatazione di gusto personale, o quantomeno su un dato empirico, soggettivo. Per quanto si potessero sviscerare delle motivazioni tecniche – sullo stile di gioco o sul maggior contributo di X all’equilibrio della squadra – si rischiava sempre di muoversi in un territorio etereo, poco tangibile, in cui qualsiasi tesi, di fatto, è accettabile. Se invece, per sostenere la medesima tesi, ci si serve del dato numerico, quindi di statistiche accuratamente selezionate, non solo diventa possibile corroborare la propria tesi rendendola più solida, ma ci si sposta in una dimensione concreta, palpabile, provata.

A questo punto, il dibattito si fa produttivo, con due tesi – in partenza lecite – che si scontreranno in una dialettica di dati numerici. Oggi possiamo affermare che X è migliore di Y in un sistema che privilegia una pressione a tutto campo (vista la percentuale di pressioni a buon fine), mentre Y, complice il numero di tocchi a partita e la percentuale di passaggi riusciti, è agevolato da sistemi che dominano col possesso della palla. Qualsiasi confronto tra due giocatori, oggi, può essere fondato su numeri, percentuali, grafici comparativi. I numeri non sono giudizi, ma dati inconfutabili che arricchiscono il dibattito più di quanto non facesse l’empirico “fidati, io le guardo le partite”.

Questo non significa che tutti debbano diventare dei match analyst provetti, mancherebbe altro, ma se il tifoso ha il diritto di seguire la passione con l’approccio a lui più congeniale, e qui saranno contenti i nostalgici che rivendicano il sacrosanto diritto di guardare le partite stravaccati sul divano con una Peroni in mano e sfogando tutta la rabbia accumulata nella settimana, chi scrive di questo sport ha il dovere di ampliare i propri angoli di analisi, in modo da offrire a chi legge gli strumenti per parlare della materia nel modo più proficuo possibile. In alternativa, accontentiamoci delle “analisi” qualunquiste quando la Nazionale esce dal Mondiale e il movimento mette in luce tutti i limiti che da almeno un decennio lo contraddistinguono.

Una stretta di mano tra Messi e Ronaldo
A proposito di paragoni tra giocatori (Foto: Arroyo Moreno/Getty Images – OneFootball)

È doveroso fare un appunto: anche il dato statistico, pur nella sua inconfutabilità, non restituisce un’interpretazione oggettiva. Lo studio analitico del calcio è solo agli albori, e i parametri presi in considerazione sono in continuo sviluppo; di conseguenza, diventa fondamentale selezionare i dati più appropriati a sostegno della propria tesi. Se per esempio si discute la precisione di un giocatore nel fornire passaggi, la percentuale di passaggi riusciti non sempre è un parametro utile: la variabile è in questo caso la difficoltà media dei passaggi effettuati, che spesso dipende dalla posizione, o meglio dalla funzione esercitata dal giocatore in campo. Nel caso di registi che toccano moltissimi palloni, la percentuale di passaggi riusciti alta è spesso dovuta a esecuzioni semplici: passaggi orizzontali, a raggio limitato. Se confrontati con quelli di un trequarti, i risultati potrebbero sviare dalla realtà: i giocatori che ricoprono zone di campo più avanzate tendono a rischiare passaggi più complessi, dall’indice di pericolosità più alto, e, di conseguenza, con un margine di errore superiore.

Questo significa che siano meno precisi? Non proprio, posto che un passaggio tra le linee di De Bruyne spesso porta a una rete del City, mentre dieci passaggi orizzontali rappresentano solo la prima mattonella della costruzione di gioco. Tutto questo per sottolineare come i dati siano uno splendido strumento – seppur ancora in definizione – ma non debbano essere sempre accolti come verità assoluta. Specie in questa fase, prima di prenderli in considerazione bisogna sempre porsi alcune domande fondamentali: cosa cerco nell’analisi di questo parametro? Quanto il sistema di gioco influenza i parametri del giocatore preso in considerazione? Il dato considerato è utile o è solo un falso amico? 

Un’analisi moderna del calcio non può più prescindere dai dati, ma un’analisi di qualità prevede anche che li si sappia interpretare. Per questo, è importante diffidare sempre, anche di chi supporta le proprie tesi con i dati stessi, tornando alle domande di cui sopra: il dato citato è veramente utile nel sostenere la tesi citata, o è semplicemente un parametro molto fumoso, che il nostro interlocutore ha citato perché sembra rafforzare la sua tesi? Un principio fondamentale da evitare è il già citato “bias della conferma”: spesso si parte da un’idea che ci si è fatti sulla base delle partite viste, si scorrono centinaia di dati e parametri, e ci si sofferma solo su quelli che confermano la propria idea di partenza. Proprio per questo motivo, è importante incrociare i dati. Come direbbe il buon Popper, grande filosofo della Scienza, il metodo induttivo – partire dall’esperienza per formulare leggi di natura assolute – è antieconomico e mai definitivo: basta un cigno nero, un parametro fuori dalla struttura che si era prefigurata, e la tesi cade su se stessa.

De Bruyne con la maglia del City
Per rimanere in tema di statistiche, nonostante la posizione avanzata in campostatistist De Bruyne conserva comunque una percentuale di riuscita passaggi costantemente sopra l’80% (Foto: Julian Finney/Getty Images – OneFootball)

Il calcio, oggi, ha incorporato a pieno la dimensione dell’analisi dei dati: dagli scout ai direttori sportivi, passando per gli allenatori che preparano il piano tattico per le partite, tutti si confrontano con dati numerici. La prima fase di scetticismo, tipica di tutte le grandi rivoluzioni, sembra ormai superata, eccezion fatta per i soliti nostalgici che probabilmente, al tempo, avrebbero chiesto l’abiura di Galileo. Se il giornalismo sportivo si impone la missione di fornire un servizio tecnico, di qualità sullo sport, diventa imprescindibile una maggior educazione all’utilizzo delle statistiche nel calcio. Purtroppo, invece, per quanto gli attori del calcio (da allenatori a operatori del mercato) – che dovrebbero sempre essere al centro del teatro – siano ormai immersi in questa novità, il mondo del giornalismo, specie quello italiano, vecchio e conservatore, sembra rifiutare pigramente l’apertura a questi nuovi strumenti, e il pubblico, di conseguenza, non viene educato a dovere in merito.

Come sempre basterebbe riferirsi agli esempi virtuosi e seguire i loro modelli; un esempio è “The Athletic”, portale online inglese che da anni offre un servizio a pagamento di qualità altissima, puntando su un analisi approfondita, seria, supportata, guarda caso, dall’approccio analitico alla materia. The Athletic non solo contempla il dato numerico nell’analisi sportiva, ma addirittura investe nella sua innovazione, intervistando data analysts e studiosi che in prima persona si occupano di implementare le statistiche applicate al calcio. Si tratta spesso di esperti con PHD in statistica o matematica, lauree nelle più importanti università americane che si stanno ritagliando un posto sempre più centrale nel mondo del “beautiful game”, portando risultati sorprendenti.

Un esempio lo abbiamo in casa, davanti ai nostri occhi, anche se il giornalismo sportivo, che spesso preferisce ricorrere a narrazioni evangeliche e miracolistiche, non lo ha approfondito a dovere: è quello del Milan, la squadra che più di tutte in Italia si serve della sua rete di scouting, guidata da Geoffrey Moncada, e che di recente ha inserito nella sua squadra di analisti tre ragazzi, apparentemente dei semplici nerd di Twitter, i quali non fanno altro che analizzare centinaia di dati al giorno per individuare i giocatori più adatti al progetto di Pioli (qui trovate link a un’interessante intervista di Thiago Estêvão, collaboratore scout dei rossoneri). Anni fa si ironizzava su Rafa Leão o Pierre Kalulu, giocatori sconosciuti al pubblico generalista; in realtà  si trattava di ragazzi seguiti per anni e studiati con cura dal team di scout in ogni aspetto – dalla famiglia all’etica professionale – poi approvati dai vertici della dirigenza: dato numerico (nella prima scrematura di giocatori) e dato empirico (nella scelta finale dei profili, in mano a Maldini e Massara) fusi nelle loro potenzialità.. Nel compiere il suo prossimo passo, il Milan di Red Bird si tufferà ancora di più nel “modello Moneyball”, con Zelus, società di sport analytics affiliata al fondo americano, pronta a portare i data ancora più al centro dell’evoluzione. 

La rivoluzione è in atto: non è tutta questione di dati, ma è anche questione di dati. Lo scetticismo iniziale è naturale, ogni essere umano prova una sensazione di disagio di fronte alla novità, per la paura che le sue certezze vengano meno e la sua visione venga posta irreversibilmente in discussione. Ma se anche un vincente come Josè Mourinho, un allenatore che in passato – ben prima dell’esplosione dei data applicati al calcio – ha vinto tutto, afferma in conferenza che il mondo del pallone è cambiato e nella preparazione di ogni partita la sua squadra di analisti studia gli avversari per giorni, servendosi anche dei dati, per poi trasferirli in forma sintetizzata ai giocatori con poche indicazioni semplici, allora anche chi analizza questo sport, per adempiere la sua funzione di offrire una comprensione approfondita del gioco, deve aggiornarsi e studiare la materia.

Non è più il tempo dei miracoli, della fortuna, di termini di matrice religiosa che riconducono tutto a forze misteriose su cui l’uomo non ha controllo. È arrivato Galileo, è sbarcata la scienza, un supporto straordinario che può aiutarci a capire più a fondo il gioco che ci appassiona stagione dopo stagione. La scienza non può spiegare tutto, nel calcio, come nella vita, rimarranno sempre variabili insondabili, non quantificabili, che sono parte integrante della sua bellezza. Senza la sua crudeltà tragica, senza l’elemento del caso, della palla che può sbattere sulla traversa e superare la riga o arrestarsi sulla stessa negando la gioia del gol – come la rete da tennis in Match Point di Woody Allen – il calcio non sarebbe lo sport più popolare al mondo. Ma il giornalismo deve analizzare, deve cercare di comprendere, e quello dei dati, oggi, è uno strumento irrinunciabile per farlo.

Concludo con un appello a chiunque si senta, anche in minima parte, coinvolto nell’onda del giornalismo sportivo, o più in generale chiunque parli di calcio sperando di far valere le proprie ragioni con cognizione di causa: cavalcate la rivoluzione, è il momento più bello proprio perché siamo agli inizi, la materia è in continuo sviluppo, le scoperte sono all’ordine del giorno. Un articolo recente di The Athletic prospetta la possibilità di calcolare la percentuale di rischio delle diverse opzioni di passaggio di un giocatore, un parametro che potrebbe permettere di stimare la predisposizione a giocate ambiziose di un calciatore. Confrontatevi, approfondite, non abbiate paura di palesare la vostra ignoranza e imparate da chi sa più di voi. Non lamentatevi della cultura sportiva tossica che vige in Italia se poi proponete un approccio altrettanto tossico, fondato su miracoli, fortuna (per usare un eufemismo), errori arbitrali e intercessioni della Madonna.

La recente eliminazione dell’Italia dal mondiale ci insegna tanto: la caccia all’uomo, al capro espiatorio su cui gettare tutte le colpe della disfatta è figlia di anni in cui il movimento si è rifiutato di porsi domande, di interrogarsi in modo serio sulle cause del declino. Giovani talenti sbattuti in prima pagina con paragoni esorbitanti al primo gol fatto, gossip sulla vita privata col moralismo che da sempre ci contraddistingue, dibattiti polarizzati tra giochisti e risultatisti, l’ossessione per il calciomercato come perversione del nostro secolo consumista, più preoccupato a ostentare il nuovo giocattolo che a coltivare in profondità le risorse già a disposizione. In questi anni abbiamo venduto fumo, e fumo stiamo raccogliendo. Perché cambi la cultura sportiva, deve cambiare la narrazione con cui raccontiamo il calcio. Perché cambi l’approccio di chi fruisce il calcio, deve cambiare l’educazione che gli offriamo.

Autore

Antonio, 19 anni, studia Filosofia alla Statale di Milano. Amante del calcio e della sua epica, qui si finge anche un esperto.

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