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EXTRA-CAMPO

Il cambiamento sociale passa per Common Goal

Una delle prime lezioni che ho imparato nel calcio è che necessita di una squadra per realizzare i propri sogni. Sul campo di gioco seguiamo questo mantra, ma nella nostra vita sociale non lo applichiamo abbastanza. Common Goal sta elaborando una maniera collaborativa di intendere il calcio da restituire alla società. È il percorso più efficace e sostenibile con cui il mondo del pallone può avere un impatto sociale a lungo termine su scala globale. 

Quando il 4 agosto 2017 a Juan Mata è stata concessa l’opportunità di raccontarsi sulla testata di informazione sportiva The Players’ Tribune, nessuno si aspettava che la sua lettera potesse trasformarsi nel manifesto programmatico del Common Goal, un progetto che strideva con la notizia del giorno. Nella mattinata infatti Neymar Jr era appena sbarcato a Parigi, pronto per cominciare la sua avventura al Paris Saint-Germain. L’affare si concluse per la modica cifra di 222 milioni di euro e al brasiliano, tra bonus e diritti d’immagine, sarebbero spettati circa 37 milioni di euro all’anno.

Facendo due calcoli, l’1% di 37 milioni è pari a 370mila euro, una somma di denaro annua a quel tempo recepita, superata o quasi raggiunta solo dai fuoriclasse. È risaputo però che le disponibilità economiche dei calciatori siano pur sempre elevate, e, mentre il Parco dei Principi ricopriva d’oro il suo nuovo attaccante, il centrocampista spagnolo del Manchester United faceva da apripista al Common Goal, decidendo di destinare l’1% del proprio stipendio annuale ad un fondo centrale che potesse dare una mano ad affrontare le sfide del nostro tempo. A 4 anni di distanza, più di 200 personalità legate al mondo del pallone hanno deciso di unirsi alla causa.

Common goal, cronaca di un’intuizione

Common Goal è ufficialmente nato quattro estati fa, ma l’idea di partecipare ad un progetto di simile portata era apparsa nella testa di Mata già da un lustro, precisamente dalla notte primaverile berlinese del 19 maggio 2012, teatro della finale di Champions League vinta ai rigori dal suo Chelsea nel regno del Bayern Monaco.

Una vittoria sofferta, frutto di un intreccio di ragazzi dalle nazionalità, idiomi e biografie più disparate, che scelsero Stamford Bridge come cornice dei propri sogni e si unirono in un obiettivo comune. In quella cavalcata cominciata nell’autunno precedente, ogni componente della squadra aveva svolto una piccola parte che aveva permesso di conquistare la coppa dalle grandi orecchie.

Mata, cofondatore di Common Goal, che festeggia la vittoria della Champions League insieme ai suoi compagni
Il trionfo del gruppo (Foto: Imago Images – OneFootball)

Quella minima porzione di impegno, sommata al contributo di ognuno, aveva portato al massimo riconoscimento possibile: per questo Mata crede che un piccolo sforzo economico, se compiuto da più persone, possa condurre a traguardi significativi. Ne parla con Jürgen Griesbeck, CEO e fondatore di streetfootballworld – network che dal 2002 unisce associazioni ad alto impatto sociale provenienti da tutto il mondo – e decide di diventare il cofondatore di Common Goal.

Le ambizioni di entrambi sono ben delineate e si intrecciano con le questioni che attanagliano il globo. Il denaro raccolto dal fondo centrale serve a finanziare associazioni che hanno deciso di prodigarsi per provare a raggiungere i 17 Sustainable Development Goals (SDGs), gli obiettivi di sviluppo sostenibile che nel 2015 i leader mondiali si sono prefissati di raggiungere entro il 2030. I temi toccati sono tanti, dalla salute all’istruzione passando per l’emergenza climatica. Nel mondo numerose organizzazioni possiedono comunità di intenti e Common Goal, mescolando volontà individuali e progetti collettivi, può concretamente suscitare cambiamento sociale. Essendo ideato da un atleta, lo strumento principale di cui si serve non può che essere lo sport.

Calcio e salute, un binomio vincente basilare per Common Goal

Il primo progetto collettivo avviato da Common Goal risale ad aprile 2018 e si intitola Social Enterprise Assist. Non poteva che essere l’incipit, dato che raccoglie una serie di attività finalizzate a migliorare il rendimento e la sostenibilità finanziaria delle imprese sociali. Coordina il tutto Kick4Life, organizzazione che ha sede nel piccolo stato sub-sahariano del Lesotho. A causa della pandemia, ha dovuto trasferire online gran parte della formazione e, per aiutare le organizzazioni nella gestione delle emergenze, ha coniato il termine  RAFT (Reduce – Adapt – Fundraise – Trade). Lo stesso Common Goal, al fine di risollevare l’industria sportiva, da aprile 2020 ha costituito il Covid-19 Response Fund, inviando in questo modo denaro a 61 organizzazioni comunitarie disseminate in 35 paesi.

Common Goal non ha pensato solamente a fornire le risorse economiche, ma si è preoccupata anche delle conseguenze psicologiche del coronavirus in seguito alla chiusura dei luoghi di ritrovo. La soluzione trovata, almeno in Germania, è stata stipulare una partnership con l’associazione no-profit KICKFAIR. L’alleanza ha dato vita a Common Ground, un progetto che ruota tutt’intorno allo street football. In alcune città tedesche sono stati messi a disposizione dei giovani un campo da calcio e un edificio adibito a luogo ricreativo, ma non è tutto: i ragazzi possono partecipare a diversi workshop in nome di un’educazione di qualità che coinvolga anche le scuole. Il primo Common Ground è sorto a Monaco di Baviera nell’ottobre 2020.

 

Salute e formazione si intrecciano nel Menstrual Hygiene Management, che mira ad abbattere i tabù legati all’igiene mestruale e alla sessualità servendosi dell’esperienza e del supporto delle allenatrici che, oltre a pianificare sessioni di allenamento con giochi a tema, organizzano incontri nelle scuole per dibattere su questi argomenti. Partito dall’India, oggi coinvolge numerose organizzazioni dislocate tra Africa e Asia e ha mutato la prospettiva di numerose ragazze.

Il processo di sensibilizzazione ha riguardato anche malattie sessualmente trasmissibili come HIV e AIDS, molto diffuse in Nigeria a causa delle difficoltà riscontrate nel condurre attività di prevenzione adeguate. Per ovviare a questo problema l’organizzazione sanitaria YEDI, già attiva in questo Paese dal 2011, da sette anni a questa parte ha ideato lo Skillz Girl Program, che combina football training ed educazione sessuale.

Un pallone che rotola scaccia via le discriminazioni

La percezione del corpo delle ragazze può passare attraverso una più marcata partecipazione all’interno della propria comunità, avendo la possibilità di ispirarsi ad un modello e diventando loro stesse un punto di riferimento. Esse possono provare a fare proprie le storie di atlete che hanno relegato la convinzione “Calcio = roba per uomini” ad un’affermazione senza fondamento. Per aiutarle, Women Win e Soccer Without Borders – due associazioni molto attive nel colmare il gap di genere tra uomini e donne attraverso lo sport – ad inizio 2020 hanno lanciato il Global Goal 5 Accelerator. La loro missione, oltre ad assimilare sul terreno di gioco abilità che serviranno extra-campo, è incrementare la parità dei sessi e consentire alle ragazze di avere maggiori opportunità di ricoprire ruoli dirigenziali.

Il percorso di inclusione intrapreso da Common Goal passa anche per Play Proud, che, fornendo una preparazione specifica ad allenatori di variegata provenienza, ha provato ad abbattere le barriere sulla questione di genere e a rendere l’ambiente calcistico più accogliente per le persone LGBTQ+.

Le discriminazioni sono una piaga profonda della nostra società che si è insinuata anche nell’universo calcistico. Numerosi episodi hanno coinvolto addetti ai lavori ad ogni livello e hanno reso il razzismo un fenomeno sistemico da sradicare.

Per provare a stanare questa tendenza, a febbraio 2021 Common Goal, avvalendosi della collaborazione di tre squadre professionistiche statunitensi – Oakland Roots SC (USL), Chicago Fire FC (MLS) e Angel City FC, militante nella National Women’s Soccer League – dei supporters della nazionale e dell’ex calciatore Anthony Sanneh, ha sviluppato l’Anti-Racist Project (ARP). L’intenzione è quella di garantire una più equa rappresentanza delle persone BIPOC – acronimo che sta per Black, Indigenous and People of Color – attraverso strumenti pensati da esperti appartenenti alla categoria che in un anno hanno l’ambizione di essere acquisiti da 5000 coach, 60000 giovani e 115 membri dello staff in oltre 400 comunità. Il motto è decostruire minuziosamente tutti i pregiudizi e ricostruire una visione che abbia uno scopo.

Ogni sfumatura del mondo vuole giocare a calcio

 

Common Goal ha da poco compiuto 4 anni e una t-shirt celebrativa, fabbricata con poliestere riciclato per ridurre l’impatto ambientale, ha suggellato il momento. Ad indossarla, testimonial d’eccezione che hanno aderito negli anni al progetto come Paulo Dybala, Serge Gnabry, Pernille Harder e Magdalena Eriksson, che hanno potuto modificarne il design secondo il proprio gusto.

Non poteva essere una maglia banale e infatti è ricca di significati, a cominciare dai colori: le due versioni magenta e blu regalano sfumature diverse a seconda della prospettiva, simbolo delle innumerevoli possibilità di rivoluzione che possono avvenire attraverso il gioco.

A svettare sulla maglia, tre stemmi che riassumono la filosofia del movimento: massimizzare il contributo del calcio nella vita delle persone e del pianeta, promuovere la solidarietà all’interno della comunità calcistica globale e mutare il DNA dell’industria calcio.

Questo è ciò che si è prefissato Common Goal dal giorno zero, ed è quello che continuerà a fare attraverso l’adesione di sempre più persone che, con una piccola percentuale detratta dai propri guadagni, genereranno cambiamento sociale. E menomale che impegnarsi l’1% in un’attività è da sempre considerato uno sforzo nullo.

 

 

Foto copertina: Werner Dorth and Manfred Zamzow, streetfootballworld

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