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Lorenza Suriano

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Il calcio nel sud-est d’Europa vive da ormai 30 anni di paradossi. A fronte di campionati locali poco sviluppati, spesso tediati da corruzione e difficoltà economiche, negli ultimi tempi sempre più selezioni nazionali provenienti dai Balcani e dintorni stanno acquisendo competitività. La diaspora dettata da guerre e dittature ha fatto sì che nuovi talenti crescessero in contesti sportivi decisamente più strutturati. Di certo è questo il caso dell’Albania e di una nuova generazione di talenti pronta a illuminare il futuro delle aquile, come Marash Kumbulla, Armando Broja e l’empolese Nedim Bajrami.

Le urne dei sorteggi di Champions League sanno essere ironiche e spietate, e neanche questa volta hanno fatto eccezione. Martedì al Parco dei Principi, nel turno di andata valevole per gli ottavi, si sfideranno Paris Saint-Germain e Real Madrid. Una partita attesissima per il valore assoluto delle due squadre, entrambe tra le favorite alla vittoria finale, e per il passato di alcuni dei protagonisti in campo, dall’ex Di Maria a Leo Messi, che al Real con la maglia del Barcellona ha fatto molto male a più riprese. Eppure i riflettori saranno principalmente puntati su un altro uomo di punta dei parigini, Kylian Mbappé.

Nel 2012 il Milan mise gli occhi su un piccolo biondino che si destreggiava nel settore giovanile dello Spezia e decise di portarlo a Milanello, avendo individuato in lui uno dei possibili pilastri del centrocampo rossonero del futuro. Quando solo qualche mese dopo Giulio Maggiore fece ritorno a La Spezia più di qualcuno parlò di occasione persa, di un treno che non sarebbe passato più. Troppa la nostalgia di casa, della famiglia, del mare. Troppo importante stare bene con se stessi, il grande calcio poteva aspettare e Giulio in fondo sapeva che si sarebbero incontrati di nuovo.

Deve aver tirato un gran sospiro di sollievo Silas Katompa Mvumpa quando al minuto ’85 di Stoccarda-Mainz dello scorso 26 novembre ha visto il suo numero 14 colorarsi di verde sul tabellone del quarto uomo. Un brutto infortunio al crociato ne aveva interrotto prematuramente la stagione 20/21, non impedendogli comunque di essere premiato come Rookie of the Season in Bundesliga. Il legamento è una rogna non indifferente per un calciatore in rampa di lancio, soprattutto quando questo fa della corsa e dell’atletismo le sue doti principali.

L’ultima volta che il trofeo della Liga è finito lontano sia da Madrid che da Barcellona era il 2004. Quell’anno il Valencia di Rafa Benitez, vittorioso anche in Coppa UEFA, trionfò coronando una clamorosa rimonta. Da allora però, il campionato spagnolo è stato affare esclusivo di Real e Barcellona, tra acquisti galacticos, sfide all’ultimo gol tra Messi e Ronaldo e invenzioni tattiche dei vari Mourinho, Guardiola e Zidane. Nelle ultime annate si è aggiunto poi l’Atletico Madrid di Simeone, rendendo più avvincente la lotta, ma non spostando di un centimetro il confine geografico. L’ultimo derby di Siviglia giocato domenica scorsa è però forse il simbolo tangibile di un possibile cambiamento.

Ci sono squadre, in questa stagione di competizioni UEFA per club, il cui destino è legato da uno strano filo rosso che poco ha a che vedere con il calcio giocato: la guerra. Sì perché in quella che dovrebbe essere una favola da condividere con i propri tifosi e la propria gente, la possibilità di affrontare compagini di rilievo e di sognare una coppa, quattro società d’Europa sono costrette dall’attualità che le circonda a giocare lontano dalla propria casa. In gergo si definiscono “refugee clubs“, club rifugiati, destinati a una vita in perenne trasferta.

In una delle ultime partite prima del Covid che ha visto il pubblico presente allo Stadio Olimpico, Roma-Gent, Lorenzo Pellegrini è stato sostituito al 79esimo. Nonostante il vantaggio della squadra, dalle tribune si levarono dei fischi, sintomo di un’insofferenza covata da un po’ di tempo dalla tifoseria. Oggi che la gente è tornata sugli spalti la situazione si è completamente ribaltata, quello di Pellegrini è l’ultimo nome annunciato dallo speaker alla lettura delle formazioni e per lui è il boato più convinto e rumoroso.

Il Manchester City è ormai da un decennio ai vertici del calcio inglese ed europeo, ha una rosa di campioni in ogni reparto e una bacheca particolarmente luccicante, ma il modo in cui ha raggiunto questo status ha fatto storcere il naso a più di qualche cronista e tifoso avversario. L’avvento dell’Abu Dhabi Group, rappresentato dal chairman Khaldoon Al Mubarak ha infatti segnato un punto di svolta nella storia del club, per anni all’ombra dei più fortunati vicini dello United. In un certo senso però, nella cultura di massa, la mole enorme di successi recenti ha anche finito per oscurare quanto accaduto prima. C’è in realtà una storia ultracentennale che merita di essere raccontata. Una storia fatta di qualche vittoria e parecchie delusioni, di vicende rimaste incastonate nella leggenda e altre piuttosto tragicomiche, e soprattutto di un legame indissolubile con la propria città.

Quando l’Arsenal ha acquistato Ben White dal Brighton per circa 58 milioni di euro, probabilmente sperava in una reazione mediatica diversa. In molti hanno infatti bollato l’operazione per prelevare il difensore centrale classe 97 come avventata. Altri invece, soprattutto chi magari poco avvezzo al campionato inglese, si sarà semplicemente chiesto chi fosse, nella cui domanda è sovente implicita una certa diffidenza.

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