L’addio del Papu Gomez all’Atalanta colpisce gli appassionati calcistici, anche quelli non coinvolti da questioni di tifo, sotto diversi aspetti. Superficialmente, la cessione di un calciatore molto forte nonché importante da un punto di vista tattico e di leadership è un colpo di scena, se si pensa a quello che era il rapporto tra il tecnico della Dea Gasperini e il fantasista argentino solo due mesi fa.
Ad un livello più profondo, il trasferimento del classe 1988 ci riporta ai primi mesi della “Polenta Meccanica”, gli ultimi del 2016: il Papu faceva parte di quel gruppo e già lo guidava in fase offensiva, seppur senza la consapevolezza calcistica poi acquisita nelle ultime stagioni. L’esplosione definitiva di un giocatore tecnicamente indiscutibile come l’ex-Catania nelle file di una squadra con un’identità tattica molto forte spiega due cose interconnesse: in primis, il 3-4-1-2 del coach piemontese non è affatto un metodo di gioco per “soldatini”, atleti molto forti fisicamente ma dallo scarso QI calcistico, ma che sa esaltare calciatori tecnici ed intelligenti. Ma non solo: calciatori come Gomez sono fondamentali per la sussistenza di dato sistema, per dare respiro, ad esempio con la pausa, ad una squadra che altrimenti saprebbe interpretare un solo spartito, insostenibile sul lungo termine: intensità e duelli individuali a tutto campo per tutta la partita.
Osservare l’Atalanta che si presentava ai blocchi di partenza del campionato 2016/2017 e confrontarla con quella che oggi gioca costantemente in Europa e raggiunge risultati di alto livello in Serie A è utile per tracciare il percorso sia tattico che prettamente sportivo dei nerazzurri bergamaschi. Per rendere più calzante il paragone, basta prendere in esame la prima Atalanta di quel campionato, quella che affrontò la Lazio uscendone sconfitta per 3 reti a 4.
Gli Atalanta Originals
Sportiello tra i pali; Raimondi, Toloi e Zukanovic a comporre la linea arretrata; Conti, Kessié, Kurtić e Dramé in mezzo al campo; Spinazzola, Gomez e Paloschi tridente offensivo. Diverse comparse, nomi che si sono poi fatti una carriera fuori da Bergamo e tre elementi che sono rimasti a lungo alla Dea: Sportiello, Toloi e lo stesso Gomez. I primi due fanno parte di un ristrettissimo gruppo, che si può definire come “Atalanta Originals”: quei giocatori che hanno vissuto l’epopea dell’ultimo quinquennio, anche se alcuni di loro non del tutto, e indossano all’alba del 2021 la maglia della Dea.
Si tratta, in ordine di ruolo, di Sportiello – che ha passato due anni e mezzo lontano da Zingonia per poi farvi ritorno nell’estate 2019 -, Toloi, Caldara – come Sportiello, figliol prodigo a gennaio 2020 dopo un brutto periodo passato al Milan – e Freuler, a cui si possono aggiungere tre casi peculiari: Djimsiti, di proprietà della società dei Percassi sin dal 2015, ma girato in prestito fino al 2018; Hans Hateboer, approdato all’Atalanta a gennaio dell’anno 0 d.G. (dopo Gasperini); infine Marten de Roon, che aveva conosciuto la provincia lombarda nel 2015/2016, passando al Middlesbrough la stagione successiva per poi fare ritorno all’Atalanta.
Un numero di calciatori complessivamente significativo, se comparato alle altre squadre di Serie A: nello stesso arco di tempo, solo tre compagini sono riuscite a rimanere più compatte a livello di rosa. Si tratta della Juventus con 7 elementi (Buffon, Bonucci, Chiellini, Alex Sandro, Cuadrado, Dybala e l’attualmente fuori rosa Khedira), il Napoli ugualmente con 7 (Koulibaly, Maksimovic, Hysaj, Zielinski, Insigne, Mertens e Milik, anch’egli fuori rosa) e la Lazio addirittura con 9 calciatori (Strakosha, Radu, Patric, Lulic, Cataldi, Parolo, Milinkovic-Savic, Luis Alberto, Immobile, a cui si potrebbe aggiungere il rientrante Hoedt).
Una crescita non casuale
Se si estende il discorso anche alla guida tecnica, solo i biancocelesti, oltre all’Atalanta, hanno mantenuto lo stesso mister, con tutto ciò di buono – prevalente – e meno buono che ne che ne consegue per quello che concerne la guida di un gruppo. Senza dubbio, leggere il nome dell’Atalanta vicino a quello di squadre più blasonate è un’indicatore della crescita vertiginosa degli ultimi anni: le squadre più solide a livello tattico e mentale sono quelle che riescono a mantenere un’ossatura costante, rinsaldando i princìpi di gioco e l’affiatamento di spogliatoio.
Una dinamica tale è possibile grazie ad una gestione tecnico-sportiva che tenga in considerazione l’importanza della crescita individuale e di squadra, che rischia di sfaldarsi se un undici è costretto ogni anno a subire drastici cambiamenti. Tuttavia, il caso specifico dei nerazzurri bergamaschi è peculiare poiché loro, al contrario delle tre rivali citate, che nel corso degli anni hanno mantenuto all’incirca gli stessi obiettivi e la stessa competitività, hanno dovuto fare un salto di qualità sostanzioso per rimanere ad un livello che non era di certo quello per cui era preparata la rosa che prese in mano Gasperini quattro anni e mezzo fa.
La loro costante presenza in campo non fa altro che confermare la loro importanza: Freuler è stato 1° per minuti di gioco in campionato per due stagioni consecutive, e nella top 10 nelle altre due; Gomez è sempre stato tra i primi quattro per minutaggio; de Roon 2° e 3° nelle ultime due; Toloi e Hateboer costantemente in top 10 nelle ultime tre annate, infine Djimsiti 3° nella stagione terminatasi ad agosto per la Dea, in cui si è vista una grandissima crescita del centrale albanese (4° per duelli aerei vinti in Serie A, 116).
È senza dubbio indicativo notare come siano sei elementi concentrati principalmente in due zone del campo: la difesa e la mediana, composta dal duo Freuler-de Roon che, nonostante i diversi nuovi acquisti pronti ad insidiare la loro titolarità ogni estate, è sempre rimasta intatta: troppo importante il contributo dei due mitteleuropei, che offrono un contributo sensibile sia nella prima aggressione alta che nel verticalizzare immediatamente il gioco – l’olandese è figurato più volte tra i centrocampisti della Serie A con più passaggi verso la trequarti.
Rispetto al passato, Gasperini ha mantenuto un approccio di scelta simile per i giocatori coinvolti nella fase di contenimento, prediligendo giocatori senza un curriculum prestigioso, cosicché riuscisse a formare difensori atleticamente adatti al suo modo di difendere e disponibili a mettersi in gioco. La dimostrazione plastica del coefficiente di difficoltà per l’integramento in una difesa come quella nerazzurra si ha con Simon Kjaer: il centrale danese, dopo 6 mesi opachi all’Atalanta, si è esaltato passando al Milan, in una difesa posizionale che si confà alle sue caratteristiche nell’uno contro uno, non costringendolo a doversi muovere spesso sul lungo, dove la sua lentezza lo limiterebbe. Un processo simile si ha in mediana: la richiesta troppo esigente a livello di letture e corsa ha impedito a calciatori come Pasalic e Malinovskyi, che inizialmente si pensava potessero essere spesi in quella zona di campo, ad assestarsi sulla trequarti.
Il cambio dell’Atalanta tra centrocampo ed attacco
In fase offensiva, invece, l’Atalanta dei primi giorni è un animale completamente diverso rispetto a quello odierno. Il primo trequartista di Gasperini fu Jasmin Kurtic, una mezzala box-to-box abile nel tiro da fuori e nell’inserimento; un altro elemento protagonista della prima fase del ciclo, Bryan Cristante, seguiva la stessa ratio a livello di inserimento nel sistema. L’attuale jolly romanista, infatti, in quel momento della sua carriera era un calciatore che non era riuscito a trovare una collocazione né a livello di funzioni né di zolle di campo da occupare, palesando lacune sia da vertice basso di una mediana a 3 poiché troppo disordinato in distribuzione, sia come mezzala perché troppo poco mobile.
Dopo la gran stagione dell’italo-canadese, trovatosi con un buco dietro le punte, Gasperini ha scelto di provare Gomez in quella posizione, trovando una chiave di volta per l’intero progetto tecnico, sia per il gran salto di qualità del numero 10 argentino, sia perché ha capito di potersi permettere un calciatore più creativo alle spalle delle punte già dal 1′ minuto. In questo senso, va letto il progressivo aumento di passaggi chiave p90 min, dagli 11,4 della 2017/2018 passando per i 13 della stagione successiva e i 13,9 della 2019/2020, così come quello dei passaggi per tiro, diminuiti con lo scorrere degli anni, a dimostrazione di una squadra più verticale e che riesce a crearsi occasioni con più immediatezza: 36,06 nel 17/18, 34,34 la stagione successiva, 30,96 nella 19/20.
Un trend che si è arrestato per entrambe le statistiche proprio quest’anno, rispettivamente scendendo ai 12,7 key pass della stagione corrente e risalendo sui 34,21 passaggi per tiro. Un’inversione di tendenza che si spiega principalmente con l’esclusione oramai permanente dall’11 titolare del Papu Gomez, in luogo di Matteo Pessina, il centrocampista 23enne che tanto bene aveva fatto l’anno scorso in un sistema parzialmente simile come quello dell’Hellas Verona di Ivan Juric: un elemento molto più dinamico e utile per tenere alti i giri del motore, ma che certamente non garantisce la stessa pulizia tecnica di Gomez: solo 1,02 passaggi chiave e 0,13 expected Assist p90, numeri scarni e non troppo lontani da quelli di Cristante, che faceva registrare 0,14 xA e 1,27 passaggi chiave.
I definitivi aggiustamenti al motore
Una variazione di queste dimensioni sarà solo un aspetto occasionale e quindi dettato dalla querelle Gomez o l’Atalanta ritornerà a fare forte affidamento sulle proprie qualità atletiche in pianta stabile? Forse è presto per fare una previsione esatta, ma le difficoltà incontrate da Aleksei Miranchuk e, in misura minore, da Malinovskyi in questi mesi possono essere un indizio.
Il talento russo classe 1995 ha trovato pochissimo spazio, quasi sempre a partita in corso: in sole due occasioni è stato schierato dal fischio d’inizio. La prima è stata la gara di Coppa Italia contro il Cagliari vinta per 3-1, in cui ha giocato accanto a Muriel formando un’inedita coppia d’attacco, trovando anche un bel gol di sinistro al volo; la seconda il recupero di mercoledì scorso contro l’Udinese, in cui ha giocato ancora accanto al colombiano, non convincendo del tutto. In estate si pensava che potesse trovare spazio anche come numero 10 dietro le due punte, ma così non è stato, almeno fino ad oggi: la folta concorrenza nella batteria di punte ha così contribuito a rendere la sua esperienza in Italia piuttosto anonima, ad eccezione di qualche lampo sparso grazie al suo indiscutibile mancino.
Basti pensare che in questo momento ha un rapporto realizzativo tiri/gol in tutte le competizioni stagionali del 43% (3 gol su 7 tiri). Discorso leggermente diverso per l’ucraino ex-Genk, che era esploso tra i primi mesi del 2020 e il ritaglio di campionato post-lockdown e sembrava poter aiutare l’Atalanta specialmente col suo sinistro caldissimo (3° per tiri totali e 7° per tiri nello specchio p90 in Serie A, due graduatorie in cui è stato l’unico centrocampista a figurare). Un po’ meno brillante nella stagione in corso, in cui si sta facendo notare più per le qualità in rifinitura – 3 assist messi a segno ad oggi – che non per la capacità di trovare la porta da ogni posizione.
Una cosa è certa: rimescolare le carte in questo modo è un ottimo strumento per mantenere imprevedibilità, stimolare i propri calciatori e non incartarsi su pattern di gioco monotoni. Il rapporto tra modulo di gioco, fisso sulla difesa a 3 e con alcuni ritocchi più avanti, e gli effettivi princìpi, si dimostra per l’ennesima volta come quello tra la scocca e il motore di un automobile da corsa: mentre il primo è visibile ad occhio nudo anche ad un neofita, e rimane pressoché uguale, il secondo subisce evoluzioni più sottili che coinvolgono il veicolo in maniera strutturale, potenziandolo.
Fonte dati: fbref.com