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ARCHITETTURE

Architetture: Dall’Ara

Dopo una piccola sosta, il nostro viaggio tra gli stadi d’Italia è pronto a ripartire. Ci spostiamo in direzione sud fermandoci in quella Bologna dai fianchi un po’ molli, dove visiteremo lo Stadio Renato Dall’Ara.

Storie di portici

Chi è mai stato a Bologna, anche solo di passaggio, sa bene che quel posto ha un’aura differente rispetto alle altre città. È un qualcosa a sé stante, di diverso, di speciale. È una città che vive e fa vivere la vita a pieno, una città con mille storie da raccontare ogni giorno, e altre mille pronte ad essere scritte. Storie che, spesso, vedono la propria nascita e il proprio sviluppo soprattutto al di sotto di quelle gallerie aperte che usualmente chiamiamo portici, e che rappresentano uno dei simboli più inequivocabili e romantici del capoluogo emiliano.

Tra i più incredibili c’è quello che porta al santuario di San Luca. Quasi 4 km di un tragitto che ha dell’incredibile. 666 archi che ci accompagnano fino in cima al Colle della Guardia e ad un panorama che lascia letteralmente senza fiato. Da lì si può ammirare tutto il percorso del portico che prende il via da Porta Saragozza, le cui mura segnano l’ingresso all’omonimo quartiere, dove da quasi un secolo sorge un altro dei simboli della città, lo stadio Renato Dall’Ara.

Anomala normalità

Naturalmente, neanche il Dall’Ara può sottrarsi alla legge del portico, che costeggia uno dei quattro lati dello stadio, quello della tribuna Maratona e dominato dall’omonima storica torre. Una torre che simboleggia la competizione, la resistenza, il coraggio degli atleti. Ma se vogliamo anche la sportività, lo spirito di unione e uguaglianza che lo sport eleva a suo significato. Valori che, paradossalmente, venivano irrispettosamente violati da chi quella torre l’ha costruita.

Pietra su pietra

La prima pietra del futuro Dall’Ara viene posata il 12 giugno del 1925. Un lavoro tanto voluto dall’allora gerarca fascista Leandro Arpinati, così speranzoso di ingraziarsi i favori dei piani alti, regalando al partito il primo vero stadio italiano, un potenziale fiore all’occhiello per le forze governanti. Siamo nella seconda metà degli anni ’20. Quelli che saranno i disastri seguenti all’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale sono ancora distanti, mentre i trascorsi e le conseguenze della prima fanno sentire ancora il proprio peso sulla popolazione.

Ai vertici di quei piani alti vi è, come ovviamente potete immaginare, Benito Mussolini. E una situazione come quella appena descritta non fa altro che incentivare quella figura apparentemente salda e autoritaria del Duce. Una figura che ispira profonda fiducia nel popolo, o almeno in gran parte di esso, facendo letteralmente incetta di cuori.

Il “vecchio” Littoriale

A circa un anno di distanza, il 31 ottobre del 1926, lo stadio Littoriale viene inaugurato da una cavalcata trionfale del Duce, atto magniloquente, che per poco non gli costò la vita. Circa sei mesi dopo lo stadio si vede finalmente usare per quello che era il proposito iniziale. A Bologna va in scena un amichevole tra Italia e Spagna che segna la definitiva inaugurazione calcistica del Littoriale.

A pochi anni di distanza dall’inaugurazione lo stadio viene completato con la costruzione della già citata torre di Maratona, posta a dominio della suddetta tribuna. Torre addobbata ad esaltare lo spirito fascista. In cima capeggia una statua della Vittoria che sorregge in mano un fascio littorio, a sormontare la tribuna una statua equestre del Duce. Pessimo gusto.

Nel frattempo, tra l’inaugurazione e la definitiva costruzione della Torre di Maratona, lo stadio Littoriale accoglie un nuovo inquilino tra le mura della propria casa. Si tratta naturalmente della squadra cittadina, il Bologna F.C., già vincitore di un campionato nazionale, e che fino a quel punto aveva disputato le proprie partite casalinghe allo storico stadio dello Sterlino.

Il “nuovo” Dall’Ara

All’epoca della costruzione lo stadio risultava un capolavoro architettonico, un perfetto connubio tra passato e presente. Proprio da questo punto di vista la storia del Dall’Ara è decisamente stata meno movimentata rispetto a quella di altri stadi. Come tanti altri, è stato rimodernato in occasione dei mondiali di Italia 90. Le tribune sono state innalzate, una coperta ora da un tetto, la pista e tutte le facciate ristrutturate. Tutti lavori che hanno rinnovato la struttura senza però cambiarne l’impianto originale, perfettamente riconoscibile. Quella che prima sembrava un’arena vecchio stile ora appare come uno stadio perfettamente al passo con i tempi, identico, salvo alcune piccole modifiche a quello che ammiriamo oggi.

Cartoline dal Dall’Ara

Quella del Dall’Ara è senza ombra di dubbio una delle storie più longeve ed importanti del panorama calcistico italiano, una storia ch’è stata tutt’altro che esente dal regalarci momenti rimasti per sempre nella storia di questo sport. Ad aprirla, non può non essere l’uomo a cui oggi è intitolato quello stadio, Renato Dall’Ara.

Uno che presidente del Bologna lo diventò quasi più per caso che per scelta, e che alla fine ricoprì quel ruolo per la durata di un trentennio. Dall’Ara fu il presidente del Bologna d’oro, quello dei quattro scudetti in sei anni. Quel Bologna che sotto la guida di Arpad Weisz (di cui torneremo a parlare più avanti) divenne “lo squadrone che tremare il mondo fa”.

Il Bologna di Weisz campione d’Italia

Dall’Ara si spense appena qualche giorno prima che venisse scattata la seconda istantanea di questa raccolta. Dopo un ventennio senza successi, il presidente rossoblù ha la proverbiale intuizione di ingaggiare come prossimo allenatore del Bologna Fulvio Bernardini, capace di costruire quella squadra che da tutti i contemporanei veniva considerata capace di giocare un gioco paradisiaco. Quel gioco che portò il Bologna fino a disputare lo spareggio per l’assegnazione del titolo ’63/’64 contro una delle formazioni più forti del tempo, la Grande Inter di Helenio Herrera.

Uno spareggio che i rossoblù avrebbero poi vinto, portando a casa quello che ancora oggi è l’ultimo scudetto vinto dai bolognesi. Ma purtroppo Renato non riuscì mai a vedere la sua squadra trionfare. Morì d’infarto quattro giorni prima della partita, mentre si apprestava a discutere proprio dello spareggio con l’altro presidente, Angelo Moratti, un altro signore ad aver scritto la storia di questo sport. Ad alzare il trofeo ci penserà Giacomo Bulgarelli, storica bandiera rossoblù.

L'omaggio a Giacomo Bulgarelli (Foto: Imago Images - OneFootball)
L’omaggio a Giacomo Bulgarelli (Foto: Imago Images – OneFootball)

I successivi 50 anni di storia del Bologna non annoverano gli stessi successi: due coppe Italia all’inizio degli anni settanta e niente più. Nel 1993 si tocca il baratro, con la squadra già retrocessa in Serie C, che rende ufficiale un fallimento già nell’aria da tempo. Ma la rinascita dalle ceneri non si fa attendere.

Il Bologna ci mette appena due anni a tornare nel calcio che conta, e quest’ultima istantanea rappresenta il punto più alto della storia recente dei felsinei. Dopo appena una stagione Baggio ha fatto già le valigie in direzione Milano, sponda nerazzurra. A prendere il suo posto è arrivato Giuseppe Signori, mentre in panchina si siede Carlo Mazzone. Quel Bologna arriverà nono in campionato, ma soprattutto si aggiudicherà la coppa Intertoto, traguardo simbolo della stagione, oltre all’approdo alle semifinali di Coppa Uefa.

Il Bologna festeggia sotto la Maratona la vittoria della Coppa Intertoto 1998

Antologia: Bologna – Lazio 2-0

Gli attori principali di questa storia abbiamo già avuto modo d’incontrarli. L’episodio e la data sono prettamente simbolici. 16 ottobre 1938, quinta giornata del campionato di calcio 1938/’39, al Littoriale di Bologna va in scena la sfida tra i padroni di casa e la Lazio. Il tabellino alla fine dell’incontro decreterà la vittoria dei rossoblù per 2-0, reti di Puricelli e Andriuolo. Malauguratamente, il risultato di quella partita è irrilevante ai fini di questa storia.

Poco più di un mese prima, il nostro Paese tocca quello che probabilmente è il punto più basso della propria storia, o almeno fino ad ora. Il 5 settembre di quell’anno il governo fascista, sull’esempio dell’amico nazista, emana le prime leggi per la difesa della razza, o più semplicemente, “Leggi razziali”. Un passo che finisce col creare ovviamente uno spartiacque. C’è chi si oppone considerandolo uno scempio, non molti a dire il vero, e c’è chi supporta fermamente il regime. Tra quelli che si oppongono vi è un’ulteriore scrematura: c’è chi sceglie la via della guerra ideologica dall’estero e chi invece rimane, mettendo in pericolo la propria incolumità.

Chi la propria vita la vede messa in pericolo a prescindere sono coloro che si trovano proprio al centro di quelle leggi. Ebrei, ma non solo, di origine o discendenza, sono posti davanti ad un bivio. Fuggire, cercando di scappare o quantomeno ritardare l’ineffabile destino, oppure rimanere ed andare incontro a un futuro già scritto.

Le leggi colpiscono persone di ogni livello e strato sociale, tanti nomi illustri. Il mondo del calcio non fa eccezione, poiché ad essere colpito dalle leggi c’è anche quello che era l’attuale allenatore del Bologna, Arpad Weisz. Un nome ch’è rimasto nel dimenticatoio collettivo per oltre mezzo secolo, prima di essere poi per fortuna recuperato da Matteo Marani, che ha riportato la sua storia sotto gli occhi di tutti, una storia di rilevanza sia calcistica che umana.

Arpad vive ormai da oltre un decennio in Italia, ha chiuso la carriera da calciatore in Lombardia, tra Alessandria e Inter. Vi ha poi iniziato quella da allenatore sempre con i colori già citati, e se l’Italia non è la sua patria natia, è pur quantomeno la sua patria calcistica. Arpad si sente come a casa. Dopo anni di pellegrinaggio tra le nubi delle provincie lombarde, salvo un’esperienza barese, sembra aver trovato la propria dimensione a Bologna. Come già preannunciato, sarà il principale artefice del periodo d’oro della squadra di Dall’Ara, che vincerà innumerevoli trofei sia in Italia che all’estero.

Renato Dall’Ara e Arpad Weisz

Sembra tutto andare per il verso giusto, nonostante le sirene del pericolo imminente suonassero già da tempo ormai. Quel Bologna-Lazio del 16 ottobre del 1938 segna l’inizio della fine. Sarà l’ultima partita in cui Arpad siederà sulla panchina del Bologna. Quel ruolo verrà assegnato poco dopo ad Hermann Fellsner, i cui connotati risultavano sicuramente più congrui ai parametri dell’epoca.

Per Arpad è ora di fuggire. Approda in Olanda, a Dordrecht, dove seppur a livello dilettantistico ha la possibilità di continuare a fare quello che sa fare meglio, ovvero allenare. Viene ingaggiato dalla squadra locale e in poco tempo diventa una sorta di eroe del popolo, ma la quiete dura poco. L’onda egemonica del nazismo si abbatte anche sui Paesi Bassi.

Da quel momento sarà una veloce caduta verso la fine. Viene prima licenziato, e dopo pochi mesi deportato insieme a tutta la sua famiglia, il 2 agosto del 1942. La moglie e i due figli verranno condotti alle camere a gas poco dopo la deportazione. Arpad sopravvivrà un anno e mezzo, prima di andare incontro alla stessa morte della sua famiglia, il 31 gennaio del 1944, nell’epicentro della follia nazista, Auschwitz.

L’importanza del passato

Il Dall’Ara è come un museo a cielo aperto. Quando entri ti dà l’impressione di fare un tuffo del passato, custode di uno di quei scenari che oggigiorno si faticano a trovare. Nonostante sia passato quasi un secolo dalla sua inaugurazione, conserva ancora visibile l’aspetto di un tempo. Uno stadio su cui sono visibili i segni del trascorrere degli anni, i segni del passaggio della storia. Uno stadio che non dimentica.

Come non dimentica il Bologna e la sua tifoseria. Nel 2018 la Curva Sud del Dall’Ara è stata rinominata in onore di Arpad Weisz, cercando di ribadire quel concetto che ancora oggi a molti non vogliono assimilare. Ovvero che c’è un pezzo del nostro passato che va rinnegato, ma mai dimenticato. Un passato che alcuni, triste dirlo, ancora oggi rimpiangono.

Cuore rossoblù (Foto: Mario Carlini/Iguana Press/Getty Images - OneFootball)
Cuore rossoblù (Foto: Mario Carlini/Iguana Press/Getty Images – OneFootball)
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Terzino da paese in campo, fantasista sulla tastiera. Segnato fin da bambino dalle lacrime di Ronaldo del 5 maggio, ha capito subito che la vita da interista sarebbe stata dura. Scandisce il tempo in base alle giornate di campionato, sperando un giorno di poter vivere di calcio e parole.

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