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Senza memoria non esistiamo

È una mattina fredda come le altre. Il gelo da anni avvolge ormai il mondo intero, ma lì si sente con più veemenza. Perché lì non c’è nemmeno un briciolo di calore. Non c’è umanità. Ci sono solo la sofferenza, il dolore. La crudeltà. La neve ricopre ogni cosa fuori. La terra, le strutture dove comodamente riposano i carnefici e quelle dove sono stipate le vittime che, spoglie e tremolanti, si svegliano nella morsa gelida di un nuovo giorno. Qualche fiocco continua a scendere, si deposita sul volto e sul capo di quegli scheletri che escono dai capanni e si ordinano in fila indiana. I loro piedi strusciano nella neve. Quasi si affossano perché non hanno nemmeno la forza di sollevarsi. Una lunga coda grigia si muove piano piano, davanti a loro un ufficiale che li guida. Verso dove qualcuno si domanda. Ma quasi tutti in cuor loro sanno già la risposta.

E a questo punto è davvero un male? Tutto quel dolore almeno finirà, pensa qualcuno. È una resa. Non volontaria, fortemente condizionata. Il freddo continua a pungere con forza. Attacca direttamente le ossa, intorno alle quali ormai è rimasto attaccato solo un sottilissimo strato di pelle. Qualche folata di vento scompone quella debole fila indiana, e l’ufficiale strilla. Vuole terminare al più presto quel compito. Piano piano, quella coda di anime si avvicina all’edificio. Quello da cui nessuno ne esce vivo. E lì forse il freddo si fa meno intenso, forse qualcuno sente l’ultimo calore della vita, che combatte, che prova a resistere. Ma è condannata.

Cosa può pensare un uomo che sta compiendo gli ultimi passi verso la sua morte? Quel 31 gennaio 1944 probabilmente Arpad Weisz avrà pensato alla moglie, Ilona, e ai figli, Roberto e Clara, che hanno provato quell’esperienza un anno e mezzo prima. Finalmente potrà ricongiungersi con loro, potrà rivederli. In un mondo migliore di questo, che si è rivelato troppo crudele e spietato. Forse gli saranno venuti in mente anche altri momenti della sua vita, forse ha ripensato anche al suo altro grande amore. Si sarà rivisto in campo, volare sulla fascia con la maglia del Törekves. O si sarà rivisto in panchina, mentre ammira quello squadrone con la maglia rossoblù surclassare gli avversari di tutta Europa.

Tutta una vita, racchiusa in pochi secondi. Quei passi che portano verso quell’edificio, verso la morte. La fine di tutto. Eppure la vita è ancora lì che lotta, e se non può sopravvivere, ricorda. Ogni passo diventa una memoria. A ogni folata di vento gelido risponde il calore di un momento del passato. Quando ancora tutta questa crudeltà non era esplosa. Quando Arpad Weisz poteva giocare a calcio, o guidare i suoi uomini dalla panchina. A questo pensa forse un uomo che sta compiendo gli ultimi passi verso la sua morte, a tutti i momenti più importanti della sua vita, per non piegare la testa davanti a quel demone e per viversi gli ultimi istanti con un po’ di calore nel corpo e nella mente.

Arpad Weisz
Il famoso cancello di Auschwitz con la scritta “Arbeit macht frei”: il lavoro rende liberi.
(Fonte: Wikimedia)

L’uomo che non ha memoria è un pover’uomo

Ogni passo, un ricordo. Allora Arpad Weisz ripensa alla sua infanzia a Solt, in Bulgaria. Figlio di genitori ebrei, ottiene il diploma liceale e studia giurisprudenza all’università di Budapest, ma presto deve abbandonare. Scoppia la guerra. Non sarà quella definitiva, ma sconvolge il mondo. Il giovane Arpad viene spedito a combattere contro il Regno d’Italia e viene catturato, fatto prigioniero a Trapani. Meglio sorvolare però su quei ricordi e passare a qualche anno dopo.

La guerra è alle spalle, e Arpad corre libero sul prato verde con addosso la maglia bianco e blu del Törekves, una piccola squadra del suo paese. Dopo il rilascio è tornato in Ungheria e ha iniziato a giocare a calcio, scoprendo di essere davvero forte. Tre anni in patria, poi il passaggio al Maccabi Brno, in Cecoslovacchia. Nel 1923 l’arrivo in Italia, o meglio il ritorno. Stavolta senza armi e senza divisa, ma con un paio di scarpini ai piedi. Gioca prima con l’Alessandria, poi con l’Inter, finché nel 1926 non gli cede il ginocchio. Quell’infortunio sarà però solo l’inizio di una storia pazzesca.

Memoria è riscatto

Un altro passo, un altro ricordo. Il prato verde è sempre presente, ma stavolta Arpad non lo calpesta, ma lo osserva. Dopo il ritiro forzato per l’infortunio al ginocchio, l’ungherese decide di non lasciare il calcio, ma di proseguire la sua esperienza allenando. L’Ungheria e l’Uruguay sono i due punti di riferimento per la sua formazione, tra la scuola sudamericana e quella europea. Lo sfogo poi è sempre l’Italia, dove Weisz, che intanto deve cambiare il proprio cognome in Veisz per le pressioni del governo fascista, intraprende la sua avventura come allenatore.

Alessandria e Inter, come da calciatore. In nerazzurro il tecnico ungherese plasma il mito del club, vincendo il primo campionato della storia a girone unico. È la stagione 1929/30 e a trionfare è l’Inter, che al pari del suo tecnico deve cambiare nome in Ambrosiana. A trascinare i meneghini verso il terzo titolo della loro esistenza è un giovanissimo attaccante, che sarebbe diventato presto una leggenda non solo dell’Inter, ma del calcio italiano in generale.

Tra i grandi meriti di Arpad Weisz nella sua esperienza all’Inter c’è quello di aver lanciato nel calcio dei grandi Giuseppe Meazza. A nemmeno vent’anni, il giovane attaccante guida i nerazzurri alla conquista dello Scudetto, segnando ben 31 reti in campionato. L’Ungherese è un vero e proprio ciclone per la squadra milanese. Rivoluziona la vita del club, plasmandola negli anni in cui il calcio stesso andava formandosi. Weisz introduce novità eclatanti come i carichi di lavoro specifici per i singoli giocatori, alimentazioni personalizzate e addirittura i primi ritiri del calcio italiano. Tutti elementi che sono diventati prassi comune col calcio moderno, ma che al tempo suonano come una rivoluzione.

Anche tatticamente Weisz rivoluziona l’Inter, introducendo in Italia il cosiddetto Sistema. Si tratta di un assetto di gioco ideato da Herbert Chapman, uno dei padri fondatori del calcio inglese. Il Sistema consiste sostanzialmente in una sorta di 3-4-3, con i centrocampisti in realtà posizionati a coppie, quindi precisamente un 3-2-2-3, con un mediano destinato ad abbassarsi sulla linea dei difensori, l’altro ad alzarsi vicino agli altri due centrocampisti, così da sfociare in un più canonico 4-3-3.

Il Sistema finirà per dominare il calcio europeo fino agli anni ’60 e in Italia viene portato proprio da Weisz all’Inter. L’ungherese lascia un’impronta decisiva nel calcio italiano, contribuendo anche alla stesura del manuale del giuoco del calcio. È un mito, un innovatore, e la sua storia deve ancora arricchirsi di momenti ancora più magici.

Arpad Weisz
Arpad Weisz
(Fonte: Wikipedia)

Noi siamo la nostra memoria

Un passo ancora, un ricordo ancora. La sua avventura all’Inter termina appena un anno dopo, quando l’Ambrosiana non riesce a replicare il successo della stagione precedente e chiude il campionato al quinto posto. Niente rinnovo di contratto per Weisz, che quindi deve cercare una nuova avventura.

Arriva la chiamata del Bari, un bel cambiamento rispetto all’esperienza a Milano. In Puglia, l’ungherese si ritrova a combattere per la permanenza in Serie A, lontano dalla vetta per cui era abituato a combattere. Anche qui però finirà per scrivere una pagina importante della storia del nostro campionato.

Il 16 giugno 1932, sul campo neutro di Bologna, va in scena lo spareggio salvezza tra Bari e Brescia. I pugliesi hanno sprecato un buon vantaggio in campionato e si sono fatti rimontare dai lombardi, che partono meglio anche in quel match decisivo, passando in vantaggio dopo appena tre minuti di gioco con Braga. Il Bari resta sotto per gran parte del match, fino al minuto 74, quando il difensore delle rondinelle Scaltriti tocca con la mano il pallone in area di rigore. L’arbitro fischia calcio di rigore, ma Gay incredibilmente lo fallisce. Il calciatore biancorosso ha però una seconda possibilità, visto che il direttore di gara ordina la ripetizione del penalty perché il portiere avversario si è mosso prima del tiro. Stavolta il barese non sbaglia e riporta il punteggio in parità.

Poi, undici minuti dopo, è ancora Gay a punire il Brescia, realizzando il gol che sancisce la clamorosa salvezza del Bari. Al fischio finale i giocatori piangono di gioia, i tifosi esplodono sugli spalti e il mister Arpad Weisz si gode un’altra impresa. Forse meno altisonante di quella con l’Inter, ma non meno complicata.

Tutti abbiamo bisogno della memoria

Ancora un piede che avanza nella neve, ancora un ricordo che torna alla memoria. Dopo un breve ritorno all’Ambrosiana e la parentesi al Novara, nel gennaio 1935 Weisz diventa l’allenatore del Bologna. In rossoblù, il tecnico plasma definitivamente la propria leggenda. Nella stagione 1935/36 il mister ungherese porta gli emiliani alla conquista dello Scudetto, diventando il primo allenatore della storia del calcio italiano a vincere due titoli con due squadre diverse.

Il Bologna è una perfetta sintesi della genesi di Weisz come allenatore. Nella squadra emiliana convivono due anime: una uruguaiana e una italiana. Uno specchio della formazione del tecnico, una combinazione tra la scuola sudamericana e quella europea. Francisco Fedullo, Raffaele Sansone, Miguel Andreolo sono gli innesti che plasmano la leggenda del Bologna in quegli anni ’30 e che si uniscono alla componente italiana dei felsinei formata da giocatori come Carlo Reguzzoni, Bruno Maini e Angelo Schiavio. I rossoblù spezzano il dominio della Juventus nel 1936, chiudendo il campionato al primo posto davanti alla Roma. L’ultimo Scudetto prima dei cinque consecutivi della Vecchia Signora lo aveva vinto proprio Weisz con l’Inter e ora l’ungherese si riprende il proprio scettro.

L’anno successivo arriva anche il bis, col Bologna che vince il quarto titolo della propria storia finendo davanti alla Lazio di Silvio Piola. Ma quell’anno per i rossoblù e per il tecnico ungherese arriva anche un altro storico successo: la vittoria del Torneo Internazionale dell’Expo Universale di Parigi del 1937.

Si tratta di un torneo a inviti, riservato alle più forti squadre d’Europa. Il Bologna riesce a superare ai quarti di finale i francesi del Sochaux, mentre in semifinale si libera dello Slavia Praga con un secco 2-0. In finale, la squadra di Weisz deve vedersela contro il Chelsea, largamente favorita per la vittoria finale.

Gli inglesi, considerati e autoproclamati maestri e padri del calcio, avevano eliminato nel torneo Marsiglia e Austria Vienna e godono dei favori del pronostico sin dall’avvio della competizione. La presunta superiorità dei londinesi, però, viene spazzata via dalla freschezza del gioco del Bologna. Il 6 giugno 1937 va in scena una vera e propria mattanza per il Chelsea, che a Parigi viene strapazzato dalla squadra emiliana. Dopo mezz’ora di gioco, i rossoblù sono avanti di tre reti, grazie alla doppietta di Reguzzoni e alla firma di Busoni. Nella ripresa, arriva anche la tripletta del calciatore bolognese, prima del gol della bandiera di Weawer.

Il Bologna batte così il Chelsea 4-1 e conquista il prestigioso titolo europeo, trionfo che fa seguito alle due Mitropa Cup vinte negli anni precedenti. Il Bologna che tremare il mondo fa si conferma una delle squadre migliori al mondo. Arpad Weisz è forse il più grande allenatore d’Europa. Il dramma però si cela dietro l’angolo.

Il celebre “Bologna che tremare il mondo fa”
(Fonte: Wikipedia)

Perdere il passato significa perdere il futuro

Un altro passo e quello spaventoso edificio si avvicina e fa ancora più paura. Allora anche quella scintilla di vita, che strenuamente stava lottando per resistere, inizia a piegarsi a tutto quel gelo. Inizia ad avvertire la paura. Vengono quindi alla mente anche i ricordi più brutti, la fuga dall’Italia dopo l’introduzione delle infami leggi razziali nel 1938. Il riparo a Parigi, l’arrivo in Olanda.

La paura per la guerra che sta per imperversare. Ma Weisz non può rinunciare al suo amore per il calcio e nonostante tutto continua ad allenare. Accetta di guidare il Dordrecht, modesta squadra di Eredivisie, e lo fa con la stessa passione con cui ha condotto il Bologna a dominare in Europa. Nonostante l’ansia per il futuro sempre più oscuro, su quel campo verde Arpad è ancora felice, almeno fino al maggio 1940. La guerra scoppia. La Germania conquista l’Olanda, in breve tempo in tutta Europa divampa il conflitto. Poi la mano nazista che cala come una falce sugli ebrei.

Il 2 agosto 1942 la famiglia Weisz viene arrestata dalla Gestapo e deportata nel campo di concentramento di Auschwitz. Strade separate però, perché papà Arpad viene mandato a lavorare in Alta Slesia, mentre mamma Ilona e i piccoli Roberto e Clara vengono immediatamente condotti in quell’edificio da cui nessuno esce vivo.

Dopo 15 mesi di lavori forzati, Arpad Weisz, o meglio la sua ombra, fa ritorno ad Auschwitz, finché il 31 gennaio 1944 il Sole sorge per l’ultima volta nella sua vita. Un piede dopo l’altro, si mette in fila insieme ai compagni di prigionia. All’orizzonte c’è quella costruzione spaventosa. Intorno solo freddo e gelo. Un passo, un ricordo, fino all’arrivo sulla soglia di quell’edificio. Ora nella mente di Arpad non c’è più niente, se non Ilona e i suoi due bambini, che come lui un passo dopo l’altro hanno terminato la propria vita in quell’inferno. Tutto sta per finire e il compito di ricordare passa il testimone.

A che serve la memoria?

A lungo la storia di Arpad Weisz è stata dimenticata dai libri di storia, calcistica e non solo. Fortunatamente, negli ultimi anni è stata recuperata ed è diventata uno spunto di riflessione molto importante. Il tema della memoria è legato a doppio filo col dramma dell’Olocausto. Ricordare è l’unica cosa che si può fare per onorare le vittime che hanno perso la vita durante la Seconda Guerra Mondiale, talmente tante che molte sono state spazzate via completamente dalla storia, senza lasciare alcun ricordo si sé.

Persone cancellate, ancor prima che uccise. Singole vite, come quella di Arpad Weisz, che hanno avuto i loro momenti felici, prima del dramma collettivo. E che è importante ricordare proprio in nome di quelle memorie, di quei momenti che hanno vissuto e che forse, nel gelo dei campi di concentramento, hanno voluto strenuamente ricordare come unica scintilla che li tenesse ancora in vita.

Perché la memoria è una forza vitale e allora proprio per questo è importante ricordare, per mantenere in vita quelle persone e il dramma che hanno vissuto. Perché il ricordare è anche un atto di giustizia, che dimostra che i nazisti non hanno ottenuto il loro fine ultimo, non sono riusciti cancellare i milioni di ebrei che hanno massacrato. Finché storie come quella di Arpad Weisz verranno raccontate, il ricordo di quelle persone resterà in vita e allora forse tutto quel male non sarà stato solo fine a sé stesso, ma magari è riuscito a lasciare alcuni spunti di riflessione d’insegnamento.

Cosa può pensare un uomo che sta compiendo gli ultimi passi verso la sua morte? Ricorda, e facendolo ci insegna che la memoria è il più grande omaggio alla vita di cui l’uomo è capace.

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Autore

Romano, follemente innamorato della città eterna. Cresciuto col pallone in testa, da che ho memoria ho cercato di raccontarlo in tutte le sue sfaccettature.

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