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Hamsik, il pensiero al servizio del gioco

Capire l’ordine di grandezza di qualcosa che ci è estremamente vicino, è complesso. Siamo spesso portati a sottovalutare quello che diamo per scontato; la stranezza sarebbe se ciò a cui siamo abituati venisse clamorosamente meno. Marek Hamsik è stato per più di un decennio uno degli uomini cardine di una squadra di media-alta classifica in Italia. Una squadra che prima di lui, solo con Maradona e Careca aveva accarezzato (e in quel caso anche conquistato) il sogno di essere Campione d’Italia. Una squadra che – anche per questioni prettamente geografiche, in una nazione che tende sempre a considerare poco o nulla ciò che avviene sotto Roma – per anni è stata a bazzicare tra la C e la B. Per noi italiani insomma, Hamsik era banale. Solo una volta andato a svernare tra la Cina, la Svezia e la Turchia, con le giuste distanze fisiche e cronologiche, si è avuta (forse?) la percezione completa del giocatore devastante che è stato lo slovacco.

Hamsik in posa che saluta i tifosi con la fascia di capitano
Un simbolo per la città di Napoli. (Foto: Francesco Pecoraro/Getty Images-OneFootball)

Nato grande

Chiunque vada a ripescare vecchi video di Hamisk, quando si aggirava come un tornado nei tornei giovanili tra nazionale slovacca e le giovanili dello Slovan Bratislava, potrà notare come l’ex capitano del Napoli abbia avuto sempre lo stesso body language, lo stesso modo di portare i calzettoni, la stessa cresta, la stessa andatura con il pallone incollato al piede sinistro. Quando il Brescia nel 2004 lo prelevò a diciassette anni – grazie all’influenza di Roberto Baggio, o almeno così narra la leggenda – dalla squadra della capitale slovacca, dopo i primi due anni di assestamento, fu formidabile come la cresta di Hamsik diventò subito iconica in un campionato come la Serie B italiana.

Nel 2006-2007 alla seconda stagione da professionista, Marek sembrava già sapere sempre cosa fare con e senza il pallone. Gestiva la sua furia impetuosa, capace di percorrere il campo andando sempre a riempire gli spazi che i suoi compagni gli ricavavano, senza perdere, per questo, lucidità. Dopo una pre-season un po’ in giro per il campo, Mario Somma capì che la mezz’ala era il ruolo adatto a lui. E già alla terza giornata Hamsik diede a tutti l’impressione di essere più grande di quello che la sua carta d’identità volesse dimostrare. Al novantacinquesimo di una sfida in bilico sull’1-1 (contro il Treviso) fu Possanzini a riconoscere il suo valore umano, la sua freddezza, consegnandogli il rigore del possibile 2-1. Ovviamente, gol.

A fine stagione lo score dirà ben 10 gol in campionato, a soli diciannove anni, nella Serie B in cui tra le altre, c’erano Juventus e Napoli (a cui manco a dirlo, ovviamente segnò). Per Pierpaolo Marino non è stata in ogni caso la partita contro il Napoli a decretare l’amore per lo slovacco. L’ex DS del Napoli, probabilmente uno dei più grandi sostenitori di Hamsik nel mondo, in diverse interviste ci ha tenuto a precisare l’aneddoto che lo ha portato a far diventare il ragazzino con la cresta, Marekiaro, capitano e simbolo della rinascita del Calcio Napoli. Perché fa sempre molta impressione sentire persone con la conoscenza calcistica di Marino, dire di come in una (probabilmente) fredda giornata di marzo, in un Albinoleffe-Brescia, ci si sieda per vedere se Omar Milanetto possa essere l’uomo giusto per la mediana partenopea e ci si alzi convinti che vada preso un teen-ager slovacco perché “lo aveva folgorato“.

Al Napoli, Hamsik arriva non senza scetticismo da parte del tifo e dell’allenatore dell’epoca Edi Reja. Si ricrederanno, tutti.

Hamsik in azione contro il Cagliari in una delle sue prime uscite, già con i parastinchi in vista
A settembre 2007 già i parastinchi di Hamsik imperversavano in serie A (Foto: Mario Laporta/AFP via Getty Images-OneFootball)

Marekiaro Hamsik

La naturalità con cui l’ex calciatore del Brescia ha conquistato prima il suo allenatore dell’epoca (Reja) e poi i suoi tifosi è quasi impressionante. Nel giro di pochissimi mesi, è passato dal simbolo di una campagna acquisti troppo scarna, al giocatore in grado di segnare dieci gol in campionato, alla sua prima stagione da titolare in un calcio estremamente reattivo e offensivamente essenziale come quello di Reja. Ma anche questo va ricondotto alle straordinarie capacità di adattamento di Hamsik.

E la capacità di adattarsi, essere duttile, malleabile, capace di evolversi in maniera dinamica, non è nient’altro che una straordinaria declinazione dell’intelligenza. Lo slovacco nel 5-3-2 dell’attuale CT dell’Albania era il collante tra una difesa estremamente bassa, che trascina con sé anche gli altri due centrocampisti e le due punte, Zalayeta e Lavezzi. Colmava l’enorme spazio che c’era tra i due blocchi di difesa e attacco degli azzurri (E colmando questo spazio faceva gol così).

Dopo Reja, sulla panchina del Napoli si è seduto Roberto Donadoni. L’ex ct della Nazionale italiana, che ha tentato di avvicinare lo slovacco alla porta, usandolo da trequartista “puro” di un centrocampo a rombo, ma compresso da aspettative e risultati, pur riesumando il 5-3-2, è stato velocemente fagocitato dall’ambiente napoletano, lasciando il posto dopo pochi mesi a Walter Mazzarri.

Qualsiasi persona appassionata di calcio, che ha potuto vedere il quadriennio non potrà non parlarvi di quanto quella squadra è riuscita ad essere competitiva, anche a livelli piuttosto alti. Nel 3-4-2-1 del tecnico toscano Hamsik, insieme a Lavezzi, formava una temibilissima linea trequarti. I suoi movimenti erano perfettamente codificati sia con gli esterni (non a caso Maggio che era l’esterno dalla parte di Hamsik aveva medie gol da trequartista) che con le punte. Prima con Quagliarella: un attaccante con la tecnica dello stabiese era perfetto per premiare le corse dello slovacco. Ma ancora di più con il successore di Quaglia-gol. Quando Edinson Cavani arriva a Napoli, per l’ormai vice-capitano del Napoli, è cominciata una vera Belle Époque.

Marekiaro adorava banchettare nelle voragini lasciate dalla caccia alla profondità del Matador. Di più, avere un rapace come Cavani in grado di catalizzare molte “seconde palle” faceva entrare in gioco un’altra caratteristica unica del calciatore slovacco: l’intuizione nell’andare a prendere palloni spioventi, vaganti, in possesso di nessuno, che lui riusciva poi a trasformare in gol, con tiri non sempre puliti, ma certamente molto efficaci. Viceversa era la stessa cosa: Cavani adorava giocare con Hamsik, un calciatore con l’argento-vivo addosso capace sia di procurargli spazi con un lavoro oscuro quanto prezioso, di cui l’uruguagio profittava in maniera letale, sia di capire perfettamente il movimento che aveva intenzione di fare, per servirgli assist perfetti. Il triumvirato Hamsik, Lavezzi e Cavani è stato un vero segno distintivo della fine dello scorso decennio. Non a caso, si parlava dei tre tenori.

Hamsik, Lavezzi, Cavani i tre tenori
I tre tenori in una delle notti più indimenticabili della storia recente del Napoli (Foto by Mike Hewitt/Getty Images-OneFootball)

Capitan Hamsik

Per un calciatore dall’intensità e capacità balistica elevata, come quella di Hamsik, non è semplice passare da un calcio come quello di Mazzari fatto di spazi creati nella propria metà-campo, ad uno più fraseggiato come quello di Benitez. Il matrimonio con lo spagnolo è stato probabilmente il meno felice della sua carriera. Portarlo al centro del 4-2-3-1 ha isolato lo slovacco, troppo vicino alla porta per le sue corse, troppo circondato da avversari per giocare il suo calcio. Nonostante la sua parentesi tattica meno esaltante, il primo anno di Benitez è conciso con l’ufficialità della fascia di capitano sul suo braccio, causa trasferimento di Paolo Cannavaro a Sassuolo.

Andato via dopo sole due stagioni Benitez, ad Hamsik toccherà un’esperienza tattica ancora più elaborata, col più innovativo tecnico italiano degli ultimi quindici anni: Maurizio Sarri. Il mister toscano, darà subito le chiavi del centrocampo ad Hamsik, facendolo tornare nella sua posizione ideale di mezz’ala sinistra e mostrerà ancora altre doti eccezionali dello slovacco. I movimenti maniacali a cercare i tagli interno-esterno di Insigne o esterno-interno di Callejon, saranno premiati illimitate volte dal piede di Hamsik.

Con Sarri gioca per almeno tre stagioni a livelli altissimi, entra subito a far parte dei “titolarissimi” giocando un calcio che fa invidia a tutta Europa. Il suo rapporto con l’ex allenatore del Chelsea è ben descritto anche nella sua autobiografia, Marekiaro. Si apre riguardo le sostituzioni (molto frequenti), ne parla come qualcosa che nonostante lo facesse soffrire, grazie al lavoro mentale di Sarri reputava necessarie. Riferisce poi di come non ci fossero tantissime parole nello spogliatoio, tra i calciatori e Sarri stesso, ma di come quest’ultimo colmasse i suoi lunghi silenzi col lavoro. Gli dà del maniacale e del filosofo, ma non fa trasparire mai un attimo di negatività intorno a queste parole.

D’altronde il livello toccato dal Napoli di Sarri, di cui lui era capitano, è un livello a cui solo il Napoli di Maradona era sembrato poter arrivare. La stagione 2017-2018, con la strabiliante notte di Torino, è il punto più vicino allo Scudetto dai tempi di Diego. Di più: insieme alla Lazio di Simone Inzaghi, il Napoli è stata l’unica squadra in Italia a riuscire a contrastare l’egemonia della Juventus, che per nove lunghi anni ha fatto incetta di Scudetti, Coppe Italia e Supercoppe. Uno dei pochi uomini a far percepire la Juventus dell’epoca come vulnerabile (almeno su suolo italiano) era proprio Hamsik. In grado, per esempio, di infliggere la prima e unica sconfitta alla Juve di Conte nel 2012.

Sarri dà il cinque ad Hamsik dopo una sostituzione
L’intelligenza, quella dote che ti permette di uscire dal campo dando un cinque, anziché spaccando il Mondo. (Foto: Francesco Pecoraro/Getty Images-OneFootball)

Cos’è stato Hamsik?

Torniamo alla domanda iniziale. Ma abbiamo capito quanto è stato forte Hamsik? Abbiamo intuito come i suoi anni di Serie A abbiano dato forma alla nostra idea di centrocampista completo e totale? Probabilmente no. No, perché durante la sua carriera, passata quasi interamente al Napoli, non ci siamo mai resi conto di quante cose sapesse fare così bene lo slovacco. Dribblava peggio di Pogba, lanciava meno bene di quanto facesse Pjanic, era meno bravo nel taglia-e-cuci di Jorginho e correva qualche metro in meno di Vidal.

Ma tutte queste cose lui le sapeva fare. Dribbling, lancio, dialogo, intensità. Condensate in un solo essere umano, capace di sapere prima dove era meglio trovarsi, dove sarebbe andato il pallone o ancora dove il compagno avrebbe voluto riceverlo. Per lui lo spazio, il tempo e l’oggetto erano facilmente governabili. La sua pecca, almeno fino a Benitez, sembrava poter essere l’occupazione dello spazio offensivo in maniera posizionale. Allenato da Sarri, ha superato anche questo limite, ha mostrato come la sua spiccata tensione verticale, suggellata da Reja e Mazzarri, fosse indispensabile per ibridare un po’ il sistema sarriano. Renderlo ficcante e offensivamente vario.

Una mezz’ala venuta dal futuro per mostrarci come con una comprensione del gioco sopra la media si può essere tra i più forti essendo semplicemente completi (e concreti). Se dovessimo cercare una pecca, dovremmo dire che non è un creativo puro. Che ha un’intelligenza spiccatamente pragmatica, senza vero genio, più con un piglio metodicamente scientifico che non con l’intuizione della sregolatezza. Ma staremmo cercando di giustificarci, perché non ci siamo accorti di avere sotto il naso uno dei migliori centrocampisti del Mondo.

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