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Le immagini sullo schermo passano velocemente. Sono frammenti, ricordi di una vita tanto vicina, quanto ormai lontanissima. Era lei, ma non sembrava lei. Forse era qualcun’altra che le aveva rubato la faccia. Un impostore, che era salito sul palco e si era finto lei. Un inganno talmente ben congeniato che sembrava reale. Lì vicino la bottiglia. Quel liquido così familiare, caldo e accogliente, che tante volte le aveva dato conforto nelle serate fredde e desolate. Un rifugio disperato. Le immagini scorrono, il liquido dentro la bottiglia diminuisce. Intanto lei, seduta sul letto, si appresta a vivere gli ultimi istanti della sua breve e intensa vita.

La mattina dopo lei è ancora lì. Senza immagini che scorrono, senza più liquido nella bottiglia. Senza più niente. È morta, scatenando una valanga di supposizioni, illazioni, teorie. Lei nella sua camera, la vodka scolata ben oltre il limite accettabile, ma comunque non in misura tale da causare il decesso. Mentre il mondo si pone milioni di domande, senza riuscirsi a dare alcuna risposta, una delle stelle più luminose del panorama musicale si spegne, stroncata da una vita di eccessi e sofferenze. Trovando forse, finalmente, un po’ di tranquillità.

Amy Winehouse muore il 23 luglio 2011. A 27 anni, come gli altri grandi membri del club: Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin. La fine di una delle cantanti che hanno segnato in maniera più nitida i primi anni 2000, di una vera e propria icona della musica. Ma anche la scomparsa prematura di una persona che nella vita ha dovuto combattere tanti demoni, dalla droga all’alcol, fino ai disturbi alimentari e ai disordini familiari. Le circostanze della morte della cantante londinese sono un mistero destinato a rimanere tale, ma la cui risoluzione è oggettivamente poco importante.

Appena sei anni prima un destino simile era toccato a uno dei più grandi calciatori di sempre, George Best, stroncato dai suoi gravi problemi di alcolismo. Un demone che ha distrutto due grandi icone e con loro tantissime altre persone. Ma la cantante londinese e il fenomeno nordirlandese hanno ben altro in comune: un’ascesa frenetica, tanto repentina quanto drammatica, una fama irresistibile e incontrollabile e dei demoni che hanno sempre dominato le loro vite.

Da qui parte la suggestione di oggi, da come il mostro dell’alcolismo può diventare un nemico insuperabile per delle star che hanno il mondo ai loro piedi, ma anche tutti gli occhi puntati addosso.

Il murale dedicato a George Best a Belfast (Foto: Neil Tingle/Allstar via Imago – OneFootball)

Quelle come me sono destinate ad avere l’anima perpetuamente in tempesta

Se Amy Winehouse è la grande icona della musica degli anni 2000, George Best è il primo giocatore “pop” della storia del calcio. Il “quinto Beatle”, come è stato soprannominato dalla stampa portoghese dopo una prestazione mostruosa contro lo storico Benfica di Eusebio, è stato uno dei primi giocatori belli da vedere, sia dentro che fuori dal campo.

Al tempo di un calcio molto sporco, pragmatico e duro, Best era un’apparizione folgorante, un’elegante saetta che calava sui fangosi campi della First Division. Aveva un’eleganza mai vista prima, col suo fisico così diverso da quelli dei massicci calciatori dell’epoca. Magrissimo e velocissimo, era una frustrazione affrontarlo. Ma uno spettacolo da ammirare per i tifosi. Best è uno dei primi esempi, nel calcio, di come la tecnica potesse vincere sull’atletismo, del talento come dono di Dio. È una delle prime star individuali in uno sport corale, un one man show da prima serata in una commedia da primo pomeriggio.

I tifosi lo adoravano, si divertivano a vederlo giocare. Le tifose se ne innamoravano e gli rifilano montagne di lettere di ammirazione. George Best è il primo grande fenomeno mediatico del mondo del calcio. È l’irruzione della cultura pop in un universo chiuso e antico, regolato ancora da arcaici meccanismi di comunicazione. Una rivoluzione con i capelli lunghi e lo sguardo da playboy. Ma è anche il primo calciatore a sentire, come un macigno, il peso della fama. Con esiti spesso catastrofici.

In un calcio poco abituato ancora allo show-business, com’era quello a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, Best diventa una delle prime icone del calcio, con una fama che travalica il rettangolo verde di gioco. L’attenzione si concentra ossessivamente su di lui e sulla sua vita privata, entrando in maniera ingombrante nella routine di un uomo proveniente dalla rurale Irlanda del Nord e talmente legato al proprio focolaio familiare da lasciare la caotica Manchester dopo appena due giorni di permanenza.

Tutte queste novità ovviamente innalzano Best sull’altare delle stelle immortali del calcio, ma lo sacrificano anche in nome di una nascente morbosità per quei fenomenali atleti che piano piano deflagrerà definitivamente. Best segna una strada, inaugura una tendenza che si farà sempre più crescente, pagando il dazio che destinato a tutti gli innovatori e i rivoluzionari, anche inconsapevoli.

Che i demoni di Best fossero già in lui o si siano palesati dopo, hanno sicuramente trovato una cassa di risonanza nel peso della fama che il calciatore britannico ha dovuto sopportare. Una situazione difficile da gestire perché totalmente nuova.

Un omaggio dei tifosi del Manchester United alla loro leggenda (Foto:
Imago – OneFootball)

Mi innamoro ogni giorno

L’ascesa di Best è tanto repentina quanto fulminea. Il suo arrivo a Manchester avviene grazie a una figura leggendaria del calcio di quegli anni: Bob Bishop, “il vescovo”, uno dei grandi artefici del leggendario United di Matt Busby. Nativo di Belfast, operaio con la passione per il calcio, nel 1950 inizia a lavorare come osservatore per il Manchester United e poco più di dieci anni dopo confeziona il proprio capolavoro: porta George Best alla corte dei Red Devils.

Al tempo dell’arrivo di Best, lo United è una squadra che deve ancora fare i conti con le sanguinanti ferite di Monaco. Il 6 febbraio 1958, dopo il pareggio in Coppa dei Campioni a Belgrado con la Stella Rossa, che vale al Manchester l’accesso in semifinale, l’aereo con a bordo la squadra inglese si ferma nella città bavarese per un rifornimento di carburante e da lì non riparte più, schiantandosi dopo il terzo tentativo, fallito, di decollo.

23 dei 44 passeggeri perdono la vita in quel disastro. La spettacolare squadra di Matt Busby, uno dei più grandi tecnici della storia del calcio inglese, viene spazzata via, a un passo dalla consacrazione definitiva. E lì, nella disgraziata neve di Monaco, il leggendario tecnico dello United giura di non arrendersi e di non trovare pace finché non avrà ricostruito quella splendida squadra.

George Best arriva dunque a Manchester nel 1961 e viene inizialmente aggregato alle giovanili. Nel 1963 arriva il suo esordio in prima squadra, entrandovi in pianta stabile dalla stagione 1963-1964, in cui i Red Devils, anche grazie a quel giovane prodigio, vincono il campionato in volata con il Leeds dell’acerrimo nemico Don Revie.

George Best è un terremoto di proporzioni enormi a Manchester. È il tassello che mancava alla squadra per compiere il salto di qualità, il passo finale per la ricostruzione post-Monaco. È un giocatore rivoluzionario, che prima conquista gli onori delle cronache in Inghilterra, e poi inizia a imporsi anche in Europa. Il momento clou è la doppietta in Coppa dei Campioni contro il Benfica, nella clamorosa vittoria al Da Luz per 1-5. I portoghesi erano arrivati in finale per ben quattro volte nelle cinque precedenti edizioni della competizione. Erano un colosso, spazzato via senza pietà da Best e compagni.

È il 1966. L’Inghilterra si appresta a vincere il mondiale casalingo e il Manchester United continua la propria ascesa in Europa. Manca però ancora qualcosina e la corsa dei Red Devils si ferma in semifinale col Partizan, a causa però anche dell’infortunio al ginocchio di Best, costretto a giocare le semifinali in condiizoni a dir poco precarie. Tanto da non poter più scendere in campo fino al termine della stagione.

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George Best in azione con la maglia del Manchester United
(Foto: Imago – OneFootball)

È destino che i nostri sogni si avverino

Nella stagione 1966-67 lo United vince ancora la First Division, ma l’anno clou è il 1968. Mentre nel mondo soffiano i venti della rivoluzione, il Manchester United si appresta a compiere il proprio destino. Il cerchio aperto in quella maledetta notte di Monaco sta per chiudersi.

Il cammino europeo dello United inizia contro i maltesi dell’Hibernians, per poi proseguire con le sfide contro il Sarajevo e il Gornik Zabrze. Tutti confronti da cui i Red Devils escono vincitori. Ai quarti di finale va in scena poi lo scontro con il Real Madrid. La squadra che ha vinto quella Coppa dei Campioni nel 1958. Quella che avrebbe dovuto essere la grande antagonista dello United di Busby se il destino non fosse stato tanto crudele quella notte a Monaco. Ora, a dieci anni di distanza, Manchester United e Real Madrid possono fronteggiarsi come regine d’Europa.

Nel match di andata all’Old Trafford è George Best a dominare la scena, decidendo la sfida con un gran tiro da fuori. Al ritorno la situazione si complica terribilmente per gli inglesi, che a fine primo tempo si trovano sotto 3-1. Nella ripresa però i Red Devils rimontano con le firme di Sadler e Foulkes, guadagnandosi l’accesso alla finale contro il Benfica di Eusebio.

L’atto finale della Coppa dei Campioni 1968 si gioca a Wembley. Bobby Charlton, uno dei sopravvissuti di Monaco, sigla la rete dell’1-0, prima del pareggio, a dieci minuti dalla fine, di Graça. Nei supplementari sale in cattedra George Best, che viene liberato in posizione solitaria davanti al portiere, lo dribbla con la sua solita eleganza e deposita la sfera in rete per il vantaggio inglese. Kidd e ancora Charlton legittimano il successo dello United, fissando il risultato sul definitivo 4-1.

Best
Il Manchester United posa con la Champions League vinta
(Foto: Imago – OneFootball)

Le persone pazze come me, non vivono a lungo ma vivono come vogliono

Il 29 maggio 1968 il Manchester United si laurea campione d’Europa e finalmente può fare pace col proprio passato. Sir Matt Busby ha mantenuto fede al proprio giuramento. Ha ricostruito il suo Manchester e lo ha portato sul tetto d’Europa. Dove nessun’altra squadra inglese era mai stata. Il cerchio aperto a Monaco si chiude, grazie soprattutto all’apporto decisivo di un ventiduenne che sta rivoluzionando il calcio con i suoi capelli lunghi e la sua eleganza innata.

Nel 1968 George Best vince il pallone d’oro. In soli cinque anni è diventato il giocatore più forte del mondo. Ha rivoluzionato il calcio, ha introdotto un modo di giocare più libero ed elegante. Più bello. Ha imperniato il proprio essere come calciatore intorno ai concetti di libertà e bellezza. Best è un inno al 1968 ed è la consacrazione di quell’anno rivoluzionario.

A soli 22 anni Best è in cima al mondo, da dove però può solo cadere. Tanto fulminea è stata la sua ascesa, quanto repentina è la sua parabola discendente. Sei anni dopo il successo di Wembley, lo United retrocede in Second Division e Best si ritrova senza squadra, iniziando un ben poco notevole vagabondaggio attraverso addrittura quattro continenti diversi. Sempre più lontano dal calcio che conta. Dopo la Coppa dei Campioni nel 1968 lo United non vince più niente. A 22 anni Best è il calciatore più forte del mondo. A 28 anni praticamente smette di essere un calciatore.

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Uno dei tanti omaggi per il funerale di George Best
(Foto: Hoch Zwei/Imago – OneFootball)

Io sono morta un centinaio di volte

Il 25 novembre 2005 George Best si spegne al termine di una battaglia con diversi problemi di salute, derivanti dalla sua dipendenza dall’alcol. Un demone con cui il calciatore nordirlandese ha dovuto combattere per tutta la vita, senza riuscire mai a trovare la giusta pace per affrontarlo e sconfiggerlo. La bottiglia è l’altro lato della medaglia del pallone. L’eleganza che Best aveva in campo era il contraltare dell’autodistruzione che aleggiava sulla sua vita privata.

“Ho speso molti soldi per alcol, donne e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato”.

Questa massima di Best è l’effigie della sua rapida discesa. Il suo declino in campo è stato accompagnato dai crescenti problemi personali, legati quasi interamente all’alcolismo. La carriera fulminea, il pallone d’oro a 22 anni, i titoli con lo United, invece che essere un trampolino si sono rivelati un precipizio. Best è stato proiettato in una dimensione troppo più grande e quei demoni, che magari c’erano già, si sono fatti forza e hanno consumato quel fenomeno, spolpandolo in maniera drammatica e repentina.

Dopo un ricovero per gravi problemi al fegato nel 2000 e un trapianto due anni dopo, nel 2005 un’infezione epatica causa la morte di George Best. Il suo funerale, a Belfast, è un vero e proprio pellegrinaggio. Sintomo dell’ammirazione, sempre inesauribile, dei suoi tifosi. Un po’ come, sei anni dopo, migliaia di fan prenderanno d’assedio la casa al numero 30 di Camden Square. Quella dove si sono consumati gli ultimi attimi di vita di Amy Winehouse.

La vicenda della cantante londinese mostra come, anche a 40 anni di distanza, la situazione relativa a certe tematiche non sia cambiata. La fama, soprattutto se improvvisa ed esagerata, è un vettore trainante per determinate problematiche distruttive. Nella sua vita, Amy Winehouse ha dovuto lottare contro diversi demoni, dalla droga all’alcol, riconducendo la loro origine al divorzio dei genitori, affrontato in tenera età. La regina del Soul bianco non ha mai avuto modo di affrontare i propri problemi, anzi è stata catapultata in una dimensione ossessiva in cui, quei problemi, sono diventati di carattere pubblico e sempre più difficili da affrontare. Finendo per soccombere, inevitabilmente.

Le debolezze di George e Amy hanno contribuito al loro status iconico, hanno creato un legame con i fan basato sulla compassione, ma anche sulla morbosità. Ammirazione e condanna si mischiano, viene fuori un calderone di sensazioni e opinioni contrastanti, al cui centro c’è però la star, che affoga sotto gli sguardi pieni di ammirazione dei fan. E loro soccombono, perché sono troppo belli da vedere ed è impossibile smettere di farlo.

La vicenda di Best è solo la prima di tante che seguiranno. Ma in quanto prima è esemplificativa. Una fama raggiunta in tempi brevissimi, consumata altrettanto velocemente. Una fama che ha finito per rafforzare quei demoni, dandogli una cassa di risonanza enorme. Una fama che non concede un attimo di tranquillità, che non permette debolezze. Una fama che si rivela per quello che è: una condanna se non si riesce a sopportarla. È una fama che ha reso Best immortale, dopo però averlo reso tremendamente mortale.

Autore

Romano, follemente innamorato della città eterna. Cresciuto col pallone in testa, da che ho memoria ho cercato di raccontarlo in tutte le sue sfaccettature.

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