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CALCIO ESTERO

Francese, messicano, gitano

A Saintes-Maries-de-la-Mer (sì, con tutti questi trattini), villaggio di duemila e rotte anime nel cuore della selvaggia Camargue, ogni anno – il 24 e il 25 maggio – si svolge una grande festa. Per le bianche viuzze che si intrecciano sfociando nel Mediterraneo, decine di migliaia di gitani celebrano Sara la Nera. Il perché della location è presto spiegato: tradizione vuole che proprio su queste rive sia sbarcata la serva Sara con le sue padrone – le Marie Jacobè e Salomè -, perseguitate in Palestina e alla mercé della corrente dopo essere state abbandonate in mare, su di una barca senza vele né cibo.

A quanto pare, Sara gettò il proprio mantello in acqua e questo diventò barca, permettendo al gruppo di esuli di navigare sino alle coste di Francia. I gitani credono che Sara la Nera fosse una di loro. Quello che sposta decine di migliaia di zingari di ogni etnia e da tutta Europa è un variopinto pellegrinaggio di carovane che viaggiano con statue nere dalle vesti sgargianti e si spostano come orchestre pellegrine al ritmo di fiati, corde, piccoli archi.

La strada tiene a un’ora di distanza questo luogo e la città di Martigues, dove è presente una folta comunità zingara, precisamente manouche, nome per i sinti francesi. Caso vuole che a Martigues, da famiglia gitana, nasca, cresca e prenda a calci un pallone fino alla soglia della maggiore età Andrè-Pierre Gignac.

La mia famiglia vive in caravan, lavora nei mercati. A volte vado con mia mamma e sto alla bancarella. Sono cresciuto coi Manouches, ho sposato una Manouche, mio figlio è Manouche.

Ecco da che luogo e da che cultura parte Andrè-Pierre Gignac, che a 35 anni possiamo considerare francese, gitano, messicano.

Io, Gignac, dove vado?

Il suo personale pellegrinaggio gli fa attraversare in diagonale la Francia ancora minorenne, direzione Lorient, che si affaccia su un mare diverso, più freddo, più torbido. Ma le radici contano dappertutto, e dappertutto ti possono aiutare. Non gli serve tempo per integrarsi nella comunità manouche del posto, a cui “piace fare festa grande. Cucinano per 100 anche se si è in 30. Si mangia molto, si beve molto, si va a caccia. Ora non credo si possa più fare, ma io mi sono divertito un sacco ad cacciare conigli e cervi“. Probabilmente anche la sicurezza dettata da questo contesto – non casalingo ma comunque familiare – contribuisce a farlo affacciare in prima squadra a 19 anni, coi “merluzzi” che militano in Ligue 2. 

Al suo esordio da professionista impiega una manciata di secondi per segnare il gol decisivo. Seguiranno spezzoni senza infamia e senza lode e, nella stagione successiva, un prestito al Pau, in terza divisione. Qui, alle pendici dei Pirenei, trova continuità ed esprime colpi e numeri tali da meritare il richiamo a Lorient, che nel mentre è salito di categoria, in una Ligue 1 dominata dall’Olympique Lione, ai tempi di un mondo in cui – per dire – George W. Bush è ancora Presidente degli Stati Uniti e la Lehman Brothers non ancora fallita. 

Gignac Lorient
APG coi “merluzzi” (Foto: Fred Tanneau/AFP via Getty Images – OneFootball)

Gignac – ma possiamo chiamarlo anche APG, o Dédé, come fanno gli amiconi – non parte coi favori del pronostico. Nelle idee di Christian Gourcouff è una scelta di emergenza, che viene dopo l’usato sicuro di Marlet e Fiorèse, ma anche dopo carneadi come M’Bodji. Quindi, per le prime tre partite, Dédé si limita a familiarizzare con le panchine di Parigi e di Lens – oltre che con quella di casa – vedendo i suoi prendere 4 punti. Però poi succede che a causa – vien da pensare – di una moria di attaccanti in Bretagna, alla quarta giornata tocchi a lui partire dall’inizio contro il Nantes.

Bene, dopo 27 minuti Gignac si è già guadagnato il diritto di portarsi il pallone a casa, siglando i tre gol che decideranno il match. Difficile trovare chances meglio sfruttate di questa, che gli permetterà di avere un discreto credito da spendere nel resto della stagione, in cui distribuisce altre 6 reti e 6 assist.

A fine anno su di lui si avventano club con ambizioni diverse dalla tranquilla salvezza raggiunta con i bretoni, quali Tolosa e LOSC Lille. Tra le due società viene fuori una guerra di parole, di documenti e di moneta, con il Lille che raggiunge un’intesa finanziaria col Lorient e un pre-accordo con Gignac, ma viene travolto sul filo di lana dal Tolosa, che pareggia l’offerta e offre il doppio dello stipendio al ragazzo. La scelta è facile.

Ma scelte facili non significano tempi facili. Dédé esordisce in Champions, poi, a seguito della sconfitta al turno preliminare, in Europa League. Ma se al termine della stagione 2007/2008 aveste chiesto a qualche tifoso del Tolosa di indicare la delusione più grande in una squadra salva solo all’ultima giornata, probabilmente vi avrebbero indicato proprio quel giovanotto lì in sovrappeso, pagato troppo e che ha segnato 2 gol, insomma Gignac. L’investimento pare sbagliato, ma APG non si smuove, e ci riprova. 

Il secondo ciak di Tolosa è decisamente quello buono: 24 reti in Ligue 1, squadra trascinata di peso al quarto posto, convocazione in Nazionale. L’interesse su di lui si riattizza, vengono fuori nomi di grandi club, volano cifre grosse. Tanto casino per nulla: Dédé resta una terza stagione in viola, dove non spacca il mondo – 8 reti in campionato – ma riesce comunque a convincere il simpatico CT Domenech ad inserirlo nei ranghi per il non memorabile Mondiale 2010. In Sudafrica la nazionale francese visse uno psicodramma tra scenate, litigate, “talpe” e 1 punto in tre partite.

Esultare, quell’anno, sembrava un lavoro a parte (Foto: Pascal Pavani/AFP via Getty Images – OneFootball)

Torno

Ormai più di un club si è convinto della bontà del talento in dote a Gignac, e quello che pare volerlo più di tutti è anche quello che Dédé stesso vuole più di tutti. L’Olympique Marsiglia si presenta con un’offerta piuttosto sostanziosa e lo riporta a mezz’ora di macchina da casa.

Gignac
Con indosso la maglia/pigiama dell’OM (Foto: Nicolas Tucat/AFP via Getty Images – OneFootball)

A 25 anni da compiere, Gignac sembra aver chiuso il suo tour, tornando a casa per giocare indossando la maglia della squadra che tifa. Il pellegrino è tornato da dove è partito, respirando il suo mare e ritrovando la sua gente. Sembra tutto apparecchiato per un bell’inizio, che così tanto bello, però, non sarà. Al termine della prima stagione non combina chissà che – nonostante un Marsiglia campione di Coppa e secondo solo al Lille di Rudi Garcia in campionato -, e già si comincia a storcere il naso. All’avvento della seconda riemergono i soliti problemi di gestione del peso e della forma, viene addirittura spedito in una clinica di Merano per apprendere l’arte del regolarsi: i golosi – chiedetelo a Ciacco – vanno all’Inferno.

Si mette anche a litigare col suo allenatore Didier Deschamps, finendo per fare il separato in casa. A distanza di anni, nel 2016, verranno sbattuti in prima pagina stralci di intercettazioni proprio tra Deschamps e il suo agente, dove il campione del Mondo elargisce parole al miele per Dédé del tipo:

Datemi chiunque altro invece di Gignac, chiunque. Può essere solo meglio.

Non solo: gli si dà anche del boulet – palla di cannone -. Un peso morto, insomma. In quella stagione tocca il suo fondo sportivo: poche presenze, un apporto minimo in termini di reti – due -, e uno sfottò tutto per lui che riecheggia in più stadi al di là delle Alpi, Un Big Mac pour Gignac.

Deschamps e Gignac
Dédé et Didier (Foto: Gerard Julien/AFP via Getty Images – OneFootball)

Nell’estate 2012, quindi, le prospettive son quelle che sono: rendimento scarso e ingaggio pesante non sono buoni biglietti da visita, ma alcuni fattori intorno a lui cambiano. Deschamps viene chiamato a rifondare les Bleus – e sei anni dopo si potrà dire missione compiuta -, mentre il suo compagno d’attacco Loïc Rémy ha qualche fastidio e inizia ai box. È una di quelle occasioni – quelle dettate da cambiamenti nel contesto – che APG sa sfruttare: riconquista la titolarità da “9“, infilando 13 centri nel suo terzo anno a Marsiglia, 18 nel quarto. 

Al Vélodrome si respira aria di festa quando sulla panchina subentra Marcelo Bielsa, Imperatore dell’Over 2,5, Santo Patrono degli attaccanti. Tra i massimi beneficiari della stagione c’è proprio il nostro Dédé, che con 21 reti in Ligue 1 sarà secondo solo ad un sontuosissimo Lacazette.  Marsiglia ha finalmente trovato un Gignac a cui dare fiducia, Bielsa lo battezza leader:

È un calciatore che spinge gli altri a livello mentale, di voglia.

Gignac e Bielsa
Il sempre super-espansivo Loco (Foto: Bertrand Langlois/AFP via Getty Images – OneFootball)

Che è una risposta coerente con l’immagine che APG ha di se stesso. Quando gli viene chiesto se e come le sue origini gitane influenzassero il suo modo di giocare, lui la mette sul piano della combattività: sul non saper far altro che dare, ancora dare, sempre dare:

Lottare su tutti i palloni a costo di crepare sul campo: questo è il lato gitano del giocatore.

Questo leader però ha il contratto in scadenza. L’OM prova a trattenerlo; Dédé ringrazia, ma ha già la testa altrove. E le opzioni da vagliare beh, stavolta son tante. A 29 anni splende come non ha mai fatto, il suo cartellino è conteso sia in patria sia fuori, in lungo e in largo, dagli Emirati Arabi agli Stati Uniti. Top club cantano come sirene, DS di tutta Europa tempestano il suo agente con proposte di ingaggi, bonus, controbonus, progetti tecnici, promesse. Dédé ringrazia, ma ha già la testa altrove, e  altrove ha un nome.

Riparto

Proprio nei giorni in cui viene ufficializzato che non rinnoverà col Marsiglia, APG è a Cancùn, nei dintorni dello stesso hotel in cui si tiene il cosiddetto draft, che in parole poverissime è una riunione di DS in cui vengono ufficializzate le trattative già precedentemente negoziate. Se si chiedono a Google informazioni, diciamo digitando “Gignac Cancùn“, il primo risultato rimanda a quell’enorme vasca di discussioni che è Reddit. Sul sito – termometro della vox populi – appena si sparge la voce di un possibile incastro fra la presenza di APG e un ingaggio nella Liga MX, volano le opinioni. Molti tacciano il rumour di infondatezza, facendosene beffe: “È a sbronzarsi e a sballarsi prima dell’inizio della stagione”, “È la tipica speculazione idiota dei media”.

Fatto sta che, quando la nebbia delle dicerie si dirada, la verità è una e una sola. APG ha portato i suoi talenti al Tigres UANL, la squadra di San Nicolás de los Garza, area metropolitana di Monterrey, Messico.

Gignac
Come in un ritratto dal vero (Foto: Julio Cesar Aguilar/AFP via Getty Images – OneFootball)

Il velo tra fantasiosa supposizione e cruda realtà è stato squarciato, e parte la corsa alla spiegazione, alla ricerca della combinazione di fattori che meglio illustrino questa decisione che – di per sé – risulta incomprensibile. Qui sento di dover fare mea culpa, perché l’unica risposta plausibile con cui al tempo mi spiegai la scelta fu dettata da una forte miopia di pensiero. Vedevo i “nuovi mondi” del calcio come cimiteri per elefanti, in linea con la loro reputazione e narrazione mainstream.

In particolare, il Messico mi parve una scelta per svernare, pure lautamente ricambiata, punto. Beata ignoranza. Quello che avevo in testa erano immagini, figurine, di grandi giocatori che furono – Guardiola, Bebeto, Butragueño – con indosso maglie dalle maniche troppo lunghe e larghe, che si divertono a tirare gli ultimi calci in un contesto esotico, scarsamente professionale e poco competitivo. A corroborare questa convinzione, a settembre 2014 il Querétaro si era messo a ingaggiare un Ronaldinho che – forse condividendo i miei stessi preconcetti -, non si era calato con chissà quale impegno nella realtà della calcio messicano, portandolo in nove mesi a risolvere il contratto.

Mai avrei pensato di vedere Dinho con la 49 (Foto: Alfredo Estrella/AFP via Getty Images – OneFootball)

La Liga MX invece, oltre a essere in crescita economica costante da diversi anni, deve essere considerata quantomeno sul podio delle leghe dei continenti americani. Ha un impatto enorme nel vicino a stelle e strisce, dove risulta tra i campionati più visti. Ampio merito va dato al format inaugurato nel 2012, quando si divise l’anno solare in due campionati distinti – Apertura e Clausura – e Carlos Slim, magnate delle telecomunicazioni, cominciò ad interessarsi ai diritti TV. Non mancano scelte “di format” che lasciano dubbi. Ad esempio la Tabla de Cocientes, ovvero un ranking che determina le retrocessioni secondo machiavellici calcoli basati sul lustro, sostituita proprio quest’anno da un altro strumento che fa sorgere più di un interrogativo: il blocco totale fino al 2026 di promozioni e retrocessioni.

Dinho, probabilmente, in mente aveva altro. Peccato perché, proprio quando il Gaúcho rescinde, Gignac arriva, deputato sin da subito ad essere l’alfiere non solo della squadra, ma dell’intera Liga MX. A dirlo sono anche le cifre del suo stipendio, fuori mercato rispetto al resto dei colleghi del campionato: i 4,5 milioni di dollari annuali, infatti, segnano un record storico.

Inoltre, quando APG arriva, lo fa in un momento in cui il Tigres UANL è nel pieno del suo sforzo per vincere la Copa Libertadores, trofeo che le squadre messicane – che ricevono wild cards dal 1998 per parteciparvi, in quanto non appartenenti alla federazione sudamericana – hanno solo annusato. Fa presto a vestire i panni del protagonista: dopo la semifinale d’andata persa 2-1 a Porto Alegre, al ritorno Gignac apre le danze del 3-1 che manda il Tigres in finale.

Il successo proietta di diritto i gialloblu nei grandi del Meso-Sudamerica: per il club questo momento rappresenta l’apice di un percorso iniziato nel 1996 con la dissociazione del club dalla gestione dell’Università Autonoma del Nuevo Leòn (che è quello per cui sta UANL) e la sua affiliazione alla galassia della Cemex, multinazionale dell’edilizia di sede proprio a Monterrey.

In finale, dicevamo. Qui il River Plate del Muñeco Gallardo, nel pieno del suo ciclo triennale di trionfi internazionali, si dimostra insuperabile e, dopo lo 0-0 in Messico, è 3-0 a Buenos Aires. Ma Dédé ha già il popolo dell’Estadio Universitario, chiamato El Volcàn, ai suoi piedi, e non è poca cosa: 40000 persone affollano ogni due settimane lo stadio, zeppo all’inverosimile nelle partite di punta, infuocandosi per il loro idolo.

Il suo impatto sulla Liga MX è ciclonico, e ben presto miete i successi promessi: vince subito il campionato di Apertura, bissando 12 mesi più tardi, concedendo il tris a dicembre 2017, quest’ultimo il più drammatico e godurioso, con la vittoria nel derby – il cosiddetto regiomontano – contro il Monterrey. Raggiunge quota quattro con la vittoria del Clausura 2019, sempre sotto la guida tecnica del “Tuca” Ferretti. Nel mezzo, con le sue prestazioni si guadagna anche la chiamata a Euro 2016, roba affatto scontata dopo il suo addio ai palcoscenici europei. Non so se lo ricordate, ma in finale, con un minuto da giocare, coglie un palo dal sapore profetico. 

Le statistiche riflettono piuttosto bene la centralità di Gignac nel Tigres e nell’intero sistema calcistico messicano. Se le cifre, con le 139 reti in 240 presenze e i record di miglior marcatore della storia del club e scorer europeo all-time della Liga MX già lo mostrano, le giocate lo dimostrano – e tra mostrare e dimostrare, come ripeteva spesso la mia professoressa di filosofia al liceo, ce ne passa -. Gignac segna in tutte le maniere: fa cantare dalla distanza – anche da fermo – quel discreto destro che si ritrova, va di testa battendo difensori e portieri che sembrano semplicemente troppo piccoli, si inventa acrobazie contro-intuitive, ma tremendamente efficaci. Da anni lo vediamo pulire gli incroci dei pali dalle ragnatele (pazzo io o le porte nelle Americhe sono più profonde?) con la 10 sulle spalle e ci chiediamo cosa ci faccia “” un giocatore del genere.

Un Re e il suo popolo (Foto: Hector Vivas/Getty Images – OneFootball)

Io, Gignac, resto

Lo si vede, lo dimostra in campo: Dédé “” si diverte da morire, anzi, sembra proprio felice. Nel posto del mondo in cui ha scelto di andare a giocare, in cui ha scelto di far crescere i propri figli, pare ami tutto: la gente, la vita, il calcio e, chiaro, anche lo stipendio. Scrollandosi di dosso quel blablabla sul calciatore che non si vuol più impegnare e parte per far cassa, venendo ripagato col sentimento e la devozione del suo nuovo popolo. Si è fatto amici gli ultras e pare che il Tigres gli farà una statua.

Il viaggio messicano di APG dà la netta sensazione – ma magari sono io un romanticone – di un “solo andata” verso un altro, ulteriore posto da poter chiamare casa. Certo: affrontando dubbi e timori di chi si allontana dai luoghi natii, dai volti conosciuti e a cui si vuol bene. Ma sapendo di muoversi sotto l’egida di Sara la Nera, patrona dei gitani, protettrice di chi si mette in viaggio.

¡Vamos! (Foto: Azael Rodriguez/Getty Images – OneFootball)

1 Commento

  1. Francesco Marra Reply

    Grande articolo, scorrevole, partecipato! Non solo un commento sul valore tecnico, ma un’analisi accurata e documentata anche sulle criticità personali del personaggio…aspettando il prossimo, continua così!

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