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SUGGESTIONI

Nino non aver paura

La brezza soffia forte quella mattina. Con tutta la sua forza viene dal mare e s’infrange contro le finestre ancora chiuse, contro le tapparelle che proteggono dal sole cocente che indica l’inizio di un nuovo giorno. San Marco è la solita perla nel Cilento, bagnata dal mare e baciata dal sole. Un paese dai toni caldi, come le maglie che Agostino Di Bartolomei ha vestito per tutta la sua carriera in giro per campi da calcio.

La brezza soffia forte anche contro le finestre della splendida villa in cui l’ex calciatore vive quella sua seconda vita dopo il prato verde. Il sole si alza e un’altra giornata inizia anche per Ago, ma quel 30 maggio 1994 non sarà un giorno come gli altri. Non è nemmeno un giorno nella sua vita. È un istante, drammatico e fuggente. Ago si sveglia, scende le scale e si dirige verso un mobile della casa. Da un cassetto estrae un oggetto, piccolo e terrificante, luccicante e spietato. Lo tiene tra le mani, mentre con calma s’incammina verso la veranda. Lì, in quella drammatica cornice contornata da tanta fulgida bellezza, stringe quell’oggetto raccolto dal fondo del cassetto e se lo porta al cuore. Un tonfo, secco. E tutto è drammaticamente finito.

La mattina del 30 maggio 1994 Agostino Di Bartolomei si spara dritto nel cuore con la sua Smith e Wesson calibro 38. Pone fine alla sua esistenza, che pareva tormentata, svuotata. Giunta a un punto di non ritorno. Lo fa con un gesto semplicissimo, un dito che scivola su un’incurvatura metallica. Un movimento banale.

Sole che batte sul campo di pallone

Riavvolgendo il nastro della storia siamo nell’estate del 1982. L’Italia si appresta a diventare Campione del Mondo e dopo mesi passati nello studio “Quattro 1” di Roma, finalmente vede la luce “Titanic” di Francesco De Gregori. Il lato A dell’opera del cantautore romano contiene una traccia che sarebbe diventata presto una pietra miliare della musica italiana. Dopo la dolce “Belli Capelli” e la dedica alla folksinger fiorentina Caterina Bueno, prende il via nell’incedere del lato A del disco la dolce melodia che fa da sottofondo a La leva calcistica della classe ’68.

Una canzone che mediante la metafora calcistica, rappresentata dai primi passi nel mondo del calcio del dodicenne Nino, parla dell’aspirazione umana al coraggio. È un inno all’azione, al seguire i propri sogni, al far valere le proprie idee. Il sogno di Nino è quello di diventare un calciatore. Fanno da sfondo però le aspirazioni di un’intera generazione di uomini, forgiati dalla lotta sessantottina, dai venti del cambiamento e della rivoluzione che hanno soffiato forte, ma hanno spostato poco.

La canzone di De Gregori è entrata nell’immaginario collettivo come una dedica proprio ad Agostino Di Bartolomei, che nel 1982 era il capitano della Roma che, un anno dopo, avrebbe vinto lo Scudetto. Nonostante il cantautore abbia smentito quest’accostamento, la convinzione si è fissata e il Nino della canzone è diventato una personificazione, anzi un ricordo, del centrocampista giallorosso.

Il passo più celebre de “La leva calcistica della classe ’68” è l’invito a non aver paura di tirare un rigore, perché un calciatore non si giudica da un particolare del genere, ma da altri elementi come il coraggio, l’altruismo e la fantasia. Il messaggio è chiaro: non importa come vada, l’importante è provarci. Tirare quel rigore. Perché significa avere il coraggio di essere sé stessi. Di affermarsi e di sostenersi. E Agostino Di Bartolomei è stato uno che, nel bene e nel male, non ha mai avuto paura di calciare i propri rigori.

Da qui parte la suggestione di oggi. Da una canzone accostata per errore, ma che calza a pennello nella vicenda tragica, nel senso più classico del termine, di Agostino Di Bartolomei. Un uomo che ha sempre sostenuto con coraggio le proprio scelte, anche le più difficili.

Agostino Di Bartolomei prima di una gara
Capitano (Foto: Stefan Engels/Imago Images – OneFootball)

Nino cammina che sembra un uomo

La vita da calciatore del piccolo Ago inizia dai campetti di Tor Marancia, quartiere popolare situato nel sud di Roma. Presto su quel ragazzino taciturno e introverso si posano gli occhi del Milan, che, curiosamente proprio nel 1968, avanza un’importante proposta per portarlo in rossonero. Milano però è lontana, è una chimera. Non è mamma Roma, tenera e calamitante fino al morboso. Mentre in tutta Italia dunque impazzano quei venti rivoluzionari che poi faranno da sfondo alla canzone di De Gregori, il tredicenne Di Bartolomei fa la sua prima scelta forte. Calcia senza paura il proprio calcio di rigore. Rifiuta il Milan, che intanto si laureava campione d’Italia e si apprestava a vincere anche in Europa.

Dopo il no ai rossoneri, Ago entra nel vivaio della Roma. Una conseguenza abbastanza logica per un ragazzino così forte e così romanamente genuino. La sua carriera in giallorosso è una continua scalata, dai primi titoli con le giovanili fino all’esordio in Serie A, proprio a San Siro, ma contro l’Inter. In quello stadio che sarebbe potuto essere la sua casa. Il giallorosso diventa la sua seconda pelle e Diba piano piano costruisce la propria leggenda, legandosi al braccio la fascia da capitano della squadra capitolina.

Leader e faro del gioco giallorosso. Nel 1983 Ago viene reinventato da libero da Nils Liedholm, con risultati strabilianti. La Roma vive un’annata straordinaria, viaggiando a ritmi serrati verso il secondo scudetto della propria storia. L’8 maggio 1983, a Marassi, Diba suggella i suoi undici anni in giallorosso con un assist perfetto per la testa di Pruzzo, per il gol del vantaggio della Roma. Per quello che nella mitologia giallorossa è diventato il gol simbolo del secondo titolo nazionale della Lupa. Sempre Ago, con lo stesso coraggio con cui 15 anni prima aveva osato rifiutare il Milan, regala alla Roma la gioia suprema. E la regala a sé stesso.

La storia di Di Bartolomei con la Roma purtroppo finisce nell’estate del 1984. Sulla panchina giallorossa approda Sven-Goran Eriksson, che si libera del capitano giallorosso, considerato una pedina impossibile da incastrare nel suo scacchiere. A quel punto si compie quel destino rimasto spezzato 15 anni prima: Diba passa al Milan, non senza rammarico per la fine della sua esperienza giallorossa. E in rossonero Ago non perde il coraggio di farsi valere, di battersi per le proprie idee. Al primo incrocio contro la Roma segna e sfoga tutta la sua frustrazione per l’abbandono vissuto con un’esultanza rabbiosa. 

Come nella più classica delle storie d’amore finite male, spesso tutta quella passione una volta bruciata diventa rancore, che acceca gli occhi. Così Diba, ancora innamorato, si scaglia contro la sua Roma, che nel match di ritorno ricambia con i tifosi che rigettano la propria delusione contro l’ex capitano. Un’immagine triste dopo una storia d’amore così bella. Una logica conseguenza però della personalità con cui Di Bartolomei ha vissuto ogni momento della sua carriera. Senza paura ha fatto ciò che sentiva di fare, ha sfogato il proprio stato d’animo ferito. A testa alta ne ha pagato le conseguenze e a posteriori è arrivato il riconoscimento della sua grandezza a discapito di quell’episodio.

Il 20 settembre del 2012 Ago è stato inserito nella Hall of Fame della Roma. Tra i primi undici giocatori scelti. Una nomina che suggella quanto i tifosi giallorossi, nell’ultima partita del capitano con la Roma, avevano scritto su uno striscione:

Ti hanno tolto la Roma, ma non la tua curva.

Di Bartolomei con il Milan
In rossonero (Foto: Imago Images – OneFootball)

Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia

L’epica maturata intono a “La leva calcistica della classe ’68” si amplia di innumerevoli significati la sera del 30 maggio 1984. Il cammino per arrivare a quello storico giorno per la Roma inizia con un secco 3-0 agli svedesi del Goteborg, passa per una doppia vittoria di misura contro il CSKA Sofia e si forgia con un altro successo rotondo contro la BFC Dynamo, squadra rappresentativa della parte est di Berlino.

Tutte vittorie europee che portano la Roma, col tricolore sul petto, in semifinale di Coppa dei Campioni. Qui la cavalcata sembra incorrere in una brusca battuta d’arresto. Gli uomini di Nils Liedholm cadono 2-0 in Scozia contro il Dundee United, finendo con un piede e mezzo fuori dalla competizione. Al ritorno però va in scena una rimonta pazzesca, con la doppietta di Pruzzo che riporta in equilibrio il confronto e il rigore di Di Bartolomei che conduce i giallorossi alla finale in casa.

Qui proprio letteralmente Ago non ha paura di tirare il calcio di rigore. E non ce l’ha nemmeno in finale, dopo che le reti di Phil Neal e Roberto Pruzzo avevano portato il confronto tra Roma e Liverpool ai rigori. Diba segna il suo tiro dal dischetto, prima dello show beffardo di Groebbelaar che tra balletti e movimenti irrisori ipnotizza Conti e Graziani e regala ai Reds il successo. Tornando all’epica sulla canzone di De Gregori, Roma-Liverpool è un po’ la scintilla originaria di tante interpretazioni. Come detto, i giallorossi arrivano a giocarsi la finale di Coppa dei Campioni in casa, all’Olimpico. Di fronte c’è il Liverpool e i giallorossi perdono in maniera clamorosa quella coppa. Ai rigori.

Le immagini della serata sono sicuramente gli errori di Conti e Graziani. Ma c’è una mancata immagine che pesa ancora di più. Il rifiuto di Falcao di battere il proprio tiro dagli undici metri. La mancanza di coraggio di quello che era il giocatore più forte della squadra. La paura che vince, che impedisce di calciare, di provarci. Poi c’è l’errore di Conti, che forse non ha paura di calciare, ma ce l’ha di sbagliare. E lui, come Nino nella canzone di De Gregori, veste la maglia numero 7. Due riferimenti che non possono passare inosservati. Eppure la credenza popolare rimane convinta che la canzone parli di Di Bartolomei, che il suo rigore lo calcia. Senza paura. 

Ancora una volta Ago mette in mostra il proprio coraggio, come ha sempre fatto. Non ci pensa due volte, va per primo dal dischetto e tira. Segna, ma il gol è quasi un effetto secondario. Conta tirare, senza paura. Come sempre.

Di Bartolomei calcia il rigore contro il Liverpool
Non aver paura (Foto: Imago Images – OneFootball

Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore

Sono stati tanti i momenti della carriera di Di Bartolomei in cui la paura poteva avere la meglio, ma non l’ha fatto. In cui il coraggio ha vinto. Forse per questo ci piace pensare che De Gregori abbia scritto per lui la sua canzone. Perché in parte è così. Perché il significato universale di un inno al coraggio si sposa bene con la carriera dell’ex capitano giallorosso. Per questo, nonostante possibili riferimenti, ben più evidenti, ad altri individui e ad altre situazioni, sentendo “La leva calcistica della classe ’68” istintivamente si pensa immediatamente a Di Bartolomei, è un rilesso incondizionato.

Ago nel bene e nel male non si è mai tirato indietro. Ha sempre portato avanti le sue scelte. E lo ha fatto anche il 30 maggio del 1994. Dieci anni esatti dopo la finale col Liverpool. Dieci anni esatti dopo essersi svegliato con all’orizzonte la partita più importante della sua vita. Stavolta anche intravede un punto d’arrivo, definitivo.

Sul suicidio di Di Bartolomei si è sviluppata un’altra epica che ricalca in pieno la tendenza gossippara e morbosamente curiosa italiana. Depressioni, problemi economici, disagio esistenziale. In tanti hanno cercato di sviscerare le ragioni che hanno portato il leggendario campione a compiere quel gesto estremo. Perdendo di vista il fatto però che, in fin dei conti, non contano nulla. 

Nella filosofia stoica, una delle più importanti correnti di pensiero del mondo antico, il suicidio viene considerato come il più grande atto di libertà dell’uomo. Quando un singolo non riesce a imporsi nel mondo a proprio modo, il suicido viene visto come l’estremo gesto di realizzazione identitaria. L’unico modo per mantenere il proprio controllo sul mondo. Il suicidio, dunque, altro non è che un estremo atto di coraggio. 

Quel 30 maggio 1994 Di Bartolomei ha impugnato la pistola allo stesso modo in cui dieci anni prima ha calciato quel rigore contro il Liverpool. In una lettera, strappata e poi ricostruita dai carabinieri, Ago ha scritto Mi sento chiuso in un buco. L’unico modo per uscirne, secondo lui, era quello ed è una scelta che va rispettata. Sulla morte di Diba si è speculato tanto, è emersa la morbosità dell’uomo di dover trovare necessariamente una spiegazione razionale a ogni cosa. Spesso però bisogna solo accettare il corso degli eventi, come gli stoici che praticavano l’atarassia, ovvero la libertà da ogni sentimento umano.

“La leva calcistica della classe ’68” parla della realizzazione di sé stessi, della vittoria del coraggio sulla paura. Del tirare sempre i calci di rigore che capitano nella vita, a costo di sbagliare. Solo chi non tira non sbaglia, ma nemmeno segna. Un universo di concetti che si applicano perfettamente alla vita di Agostino Di Bartolomei. E in fondo pazienza se la canzone non è stata scritta per lui. Spesso nello studio dei grandi autori della letteratura ci si sofferma troppo sul significato che questi volevano veicolare, e poco su quello che poi hanno effettivamente manifestato. Ribaltiamo la tendenza, e Nino diventa il piccolo Ago che rifiuta il Milan, vince lo Scudetto in giallorosso, tira il rigore contro il Liverpool, ha il coraggio di esultare contro la sua Roma e arriva tragicamente a togliersi la vita.

Nella vita di Agostino Di Bartolomei ci sono due 30 maggio e, nonostante i destini e i significati completamente diversi, sono entrambi la testimonianza di un grande uomo che ha sempre vissuto con coraggio e che i propri calci di rigore non ha mai avuto la paura di tirarli.

Autore

Romano, follemente innamorato della città eterna. Cresciuto col pallone in testa, da che ho memoria ho cercato di raccontarlo in tutte le sue sfaccettature.

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