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La corsa all’Oro dell’Ungheria

Nel 1875, il football arrivò anche in terra magiara, precisamente in Ungheria, grazie – come accadeva spesso tra l’Ottocento e il Novecento – a commercianti inglesi che vendevano prodotti all’Impero Asburgico.

Nel 1879 si cominciò a giocare a calcio frequentemente in tutta la nazione, fino a che, grazie alla riforma costituzionale, detta “Ausgleich”, firmata dall’imperatore d’Austria nel 1867, che dichiarava l’uguaglianza di diritti tra Austria e Ungheria, gli aristocratici ungheresi appassionati di questo nuovo sport poterono fondare il 19 gennaio 1901 una delle federazioni più antiche d’Europa: la Magyar Labdarùgò Vàlogatott, la Federcalcio ungherese.

Venti di cambiamento in Ungheria

Il 21 giugno 1941, l’Ungheria entra in guerra, al fianco di Germania e Italia: sarà disastrosa. Perderà, nel giro di cinque anni, il 70% delle proprie terre. Alla fine della seconda guerra mondiale, intorno al 1945, verrà invasa dall’Armata Rossa, e il governo precedente – di destra -, verrà rovesciato con un colpo di stato da una dittatura militare filo-comunista, sotto l’influenza sovietica, entrando nel Patto di Varsavia sotto il nome di Repubblica Popolare d’Ungheria.

Nel dopo guerra, in terra magiara, soffiano forte venti di cambiamento, riguardanti sia la società che il mondo del calcio, sport che andava fortissimo allora. La gente non è molto convinta di questa protezione sovietica – diffidenza che sfocerà con la rivoluzione dell’ottobre del 1956 -, e lo sport, con un’iniziativa della dittatura, viene riformato. A partire dagli anni ’50, nessuna associazione sportiva non poteva non essere affiliata ad un’istituzione statale o militare. Nascono, quindi, le squadre del ministero degli interni, della polizia, dei vigili del fuoco, o dell’esercito. Proprio le squadre di quest’ultima istituzione andavano fortissime nel panorama sportivo ungherese, anche nel calcio. La squadra dell’esercito, nel football, era l’Honved di Budapest. Nata sulle macerie della vecchia Kispest, prese il nome di Honved, in ungherese “difesa della patria“.

La costruzione

Come detto, la Honved dell’esercito era la squadra più forte di Ungheria. Vinse i campionati nel ’52, ’54 e ’55. Una macchina da guerra. Probabilmente, anche la squadra più forte del mondo. Non essendoci ancora competizioni europee per club – la Coppa dei Campioni nasce solo nel 1955 -, ci dobbiamo fidare dei giornali ungheresi e degli inviati esteri, tra cui il nostro Gianni Brera, che rimase estasiato da una partita degli ungheresi.

Il calcio magiaro diventò sempre più grande ed importante a livello europeo, conquistandosi il ruolo centrale in una delle più grandi rivoluzioni calcistiche degli anni ’40 e ’50, condotte da grandissimi allenatori, come il maestro Bela Guttman, che allenò la Honved una sola stagione – 1947/1948 -, ma mettendo le basi solide per i successi futuri. Bela rinnovò il calcio ungherese, grazie alla sua politica del “passa-repassa-chuta” (“passa-ripassa-tira“). Una sorta di Guardiola ante-litteram.

Seduto sulla panchina della nazionale, a partire dal 1949, c’era Gusztav Sebes. Non un grande visionario, ma un ottimo gestore, che dichiarò:

Per me il calcio è una questione esistenziale.

Da quel 1949, proprio per rendere migliore la sua esistenza, creò la squadra dei sogni. Sebes dovette, al suo primo anno, rinunciare al mondiale in Brasile nel 1950, perché la Federazione, colpita dalla crisi post guerra, non aveva abbastanza soldi per organizzare la spedizione, e quindi si ritirò. Il tecnico fece la cosa più semplice del mondo, al contempo la più efficace: riunì i maggiori talenti ungheresi, divisi quasi equamente tra Honved – chiaramente – e Voros Lobogo, squadra che faceva da sparring partner ai successi dell’esercito, e li mise in campo con le idee più avanguardistiche di quel periodo.

Ecco che creò la squadra più vincente, quella che portò in alto la bandiera verde bianca e rossa a strisce orizzontali in tutto il mondo. In porta, Grosics, un fuoriclasse del ruolo, con disegnata una svastica sul costato, proprio per questo mal voluto da tutta la squadra ma li perché grande amico dell’uomo che aveva in mano tutto quanto. Difesa: Buzansky, Lorant, Lantos. Tre difensori non fuoriclasse, ma molto solidi. Centrocampo: Bozsik, per gli ungheresi e non solo il più grande mediano di ogni epoca, Zakarias, corsa e volontà da vendere. Davanti: come trequartista Kocsis, esterni Budai e Czibor, punta Hidegkuti. Come vedete sono dieci, ne manca uno. Manca lui, l’eletto. Senza pagavi un biglietto, con ne pagavi un altro, più costoso, perché vedevi un’opera d’arte che, in quel momento, solo tu e pochi altri, potevano ammirare. Ferenc Puskas. Ogni volta che la palla transitava sul suo piede sinistro, la partita, in un modo o nell’altro, cambiava. Per come giocava, era moderno per oggi, cinquant’anni fa. L’esule del pallone.

Sebes non inventò nulla, si limitò a mettere i giocatori al proprio posto, schierandoli con il “sistema“. Quel WM in voga negli ’50. Una cosa però fu farina del suo sacco, probabilmente quella decisiva: il centravanti. Fino al 1950, la punta titolare era un certo “Bamba” Deak. Uomo da sessantasei gol in una stagione. Centravanti di sfondamento, immarcabile in aerea di rigore. Ma nel 1950, sparì. Lui, che si era ribellato al regime comunista, era andato via dal paese. O era stato caldamente invitato a lasciare il Paese: lasciamoci questo dubbio. Allora Sebes, che voleva un centravanti di manovra, mise come 9 un esterno. Nandor Hidegkuti. Esterno della Hovend, uomo assist per eccellenza. Divenne il primo falso nueve della storia. Da lì, l’Ungheria, svoltò.

Ungheria
L’11 tipo dell’Ungheria di Sebes (Foto: STAFF/INTERCONTINENTALE/AFP via Getty Images – OneFootball)

L’Ungheria divenne Aranycsapat

Saltato per motivi economici il mondiale brasiliano, due anni dopo l’Ungheria si presenta alle Olimpiadi di Helsinki 1952. A quel tempo, il torneo olimpico di calcio era decisamente più considerato rispetto ad ora dalle varie nazionali. Proprio per questo, la spedizione ungherese aveva un unico obiettivo: stupire. Ed infatti stupisce il mondo. Stravince tutte le partite, intraprendendo un gioco divino, mai visto prima, con il falso centravanti Hidegkuti che veniva incontro, creando lo spazio per i trequartisti Puskas e Kocsis.

L’Ungheria arriva dritta dritta in finale, dove incontra, la Jugoslavia. La Jugo era fondata sul blocco di Stella Rossa e Partizan, le due squadre di Belgrado, con in campo il Puskas degli slavi: Vujadin Boskov. Tra l’altro, il giocatore più forte della rosa, non apparteneva, né alla Stella né al Partizan, lui era il faro del Vojvodina – squadra in cui giocherà anche Sinisa Mihaijlovic. È una partita stupenda fin dall’inizio, con entrambe le squadre che creano occasioni da una parte all’altra del campo.

Al 30′ del primo tempo, Kocsis viene falciato in area. Calcio di rigore. Dal dischetto si presenta, ovviamente, Puskas. Incredibilmente, Beara, portiere della Jugo, para. Ma Puskas è Puskas, ed uno da 352 gol in 341 presenze con la Honved e 156 gol in 180 presenze con il Real, non può sbagliare due volte nella stessa partita. Ed infatti, nel secondo tempo, Ferenc salta il portiere e l’appoggia dolcemente in porta.

Dopo pochi minuti arriva il secondo gol, firmato da quel fantastico esterno di nome Czibor. L’Ungheria è in paradiso. Il telecronista ungherese al seguito della nazionale associa l’oro olimpico alla squadra. Da lì, e per sempre, quell’Ungheria rimarrà nei cuori degli ungheresi, con il nome di “Aranycsapat“. L’anno dopo, però, si supera. Gli inglesi, fino agli anni ’70, avevano l’usanza di invitare, per un’amichevole, la squadra più forte del momento. E quindi, il 25 novembre 1953, nel maestoso Wembley, si gioca Inghilterra-Ungheria.

Gli ungheresi arrivavano da una partita perfetta. Avevano battuto l’Italia per 3-0, a Roma, nella partita inaugurale del nuovo stadio Olimpico. Ferenc e compagni si sentono, quindi, abbastanza tranquilli, ma quando vedono gli inglesi nel tunnel l’ansia e la paura salgono. L’Ungheria è almeno trenta centimetri di media più bassa rispetto all’Inghilterra. Il capitano inglese Billy Wright deride Puskas per l’aspetto fisico. Classico atteggiamento inglese. Dopo due ore di gioco, il tabellino recita 3-6 per l’Ungheria. Trentacinque tiri nello specchio. Un gioco che oltremanica non avevano mai visto prima. Una sinfonia unica. Addirittura sei giocatori di quella nazionale inglese – tra cui il futuro CT campione del mondo Alf Ramsey – non verrano più convocati in nazionale. Wright torna con la coda tra le gambe negli spogliatoi. Dirà in seguito:

In quella partita mi sono sentito un pompiere che arrivava all’incendio tardi, eppure a quello sbagliato.

Puskas, Inghilterra-Ungheria
25 novembre 1953. Il capitano ungherese Puskas, dopo un’azione memorabile, firma il momentaneo 1-3 per l’Ungheria (Foto: William Vanderson/Fox Photos/Getty Images – OneFootball)

Tornati a casa, alla stazione di Budapest, i giocatori trovarono ad accoglierli una folla immensa. Quattrocentomila persone solo per loro. I festeggiamenti però durarono poco, c’era un Mondiale da preparare. Nell’estate del 1954, l’Ungheria si presenta ai nastri di partenza della competizione iridata in Svizzera. Anche lì, come ad Helsinki, domina in lungo e in largo. La prima partita li vede contrapposti alla Corea del Sud: giocano con il pallottoliere, 9-0.

Nella seconda partita incontrano la fortissima Germania. Puskas è in giornata di grazia, sbeffeggia tutti gli avversari che provavano a contrastarlo. Cadendo, come capita spesso in questi casi, nell’eccesso. Al quarto tunnel, il difensore tedesco Libreght avvisa Puskas che al quinto gli farà male. Ferenc lo ignora. L’azione dopo succede quello che non doveva succedere. Libreght lo aggancia da dietro, colpendolo sul malleolo. L’Ungheria perde il suo punto di riferimento fino alla finale.

Il matchpoint definitivo viene centrato battendo il Brasile – la favorita del Mondiale – e l’Uruguay, trascinati dalle giocate e dai gol di Koscics. All’ultimo atto si ripresenta la Germania. Puskas è al quaranta per cento. Ma visto che è Ferenc, a scambiare il gagliardetto c’è lui. Anche quel pomeriggio, calcio champagne per trenta minuti. 2-0 nella prima mezz’ora. La palla è un oggetto sconosciuto alla Germania nel primo tempo. Però, come successe anche vent’anni dopo – contro l’Olanda -, i tedeschi non muoiono mai e distruggono una macchina perfetta.

Nel secondo tempo, infatti, è dominio tedesco. 3-2 e la Germania si porta a casa il Mondiale, il primo della sua storia. Per i tedeschi, quel pomeriggio svizzero sarà per sempre chiamato “il miracolo di Berna“. Il movimento calcistico tedesco nasce quel pomeriggio. L’Ungheria torna a casa, a Budapest, e quelle quattrocentomila persone presenti nel novembre dell’anno precedente, quel giorno rimasero a casa, pensierosi davanti all’inaspettata débâcle.

Berna, Svizzera. I giocatori tedeschi festeggiano dopo aver vinto 3-2 contro l’Ungheria. La Germania per la prima volta è Campione del Mondo. Il calcio tedesco nasce quel pomeriggio (Foto: STR/AFP via Getty Images – OneFootball)

Il tramonto e la fine

Quella squadra, ogni ungherese maschio che ha più di trent’anni, ve la può dire a memoria in qualsiasi momento. Per gli ungheresi è un mantra. Ogni ungherese vi dirà che se avessero vinto il mondiale del ’54, non ci sarebbero stati i morti del ’56, durante una delle più grandi proteste popolari della storia, e di contraccolpo, una delle più terribile rappresaglie sovietiche, dove gli spari erano all’ordine del giorno.

Avere una squadra campione del mondo cambia la percezione della tua vita, ma anche la percezione che hanno gli altri di te. I carrarmati sovietici, prima di sparare all’interno di una nazione campione del mondo, ci avrebbero pensato due volte. Dopo quell’estate del 1954, le cose non furono più le stesse. La gente, appagata di tanta bellezza e di tante vittorie, non digerì mai la sconfitta in finale mondiale. I quattrocentomila alla stazione di Budapest, passarono in un anno dal santificare quella fenomenale squadra a chiedere la testa di Sebes – che avranno non per voler suo ma per la Federazione, che lo esonerò – e quella di Puskas, che otterranno perché l’eterno campione, nel 1956, deciderà di andarsene dal Paese.

Come lui, anche molti altri elementi di quel gruppo stellare decideranno di lasciare l’Ungheria, dopo che la dittatura militare diventerà sempre più feroce. I giocatori più rappresentativi non potevano circolare liberamente nella capitale, e ad alcuni – come Puskas, Czibor e Hidegkuti – era stata pure impressa una squalifica a vita, perché durante una trasferta europea in Coppa dei Campioni, contro il Bilbao, l’Honved si era rifiutata di tornare in patria – siamo nel pieno degli scontri – tentando pure, tramite dei contrabbandieri, di portare le loro famiglie fuori dal paese. Per questo furono banditi dalla nazionale. Da lì, Puskas, prese la decisione di volare da Di Stefano a Madrid.

A capo di quella dittatura c’era il colonnello Mihàly Farkas, persona molto autorevole, che se non aveva fatto nulla per evitare il sanguinoso mese di ottobre del ’56, aveva fatto di tutto per creare quella squadra dei sogni. Era infatti uno degli artefici della grande Ungheria, che aveva ideato più per il consenso popolare che per portare la nazione in alto dal punto di vista sportivo.

L’Aranycsapat serviva per glorificare il regime e, soprattutto, dava ossigeno ad un periodo post bellico molto difficile. Quando la sconfitta mondiale tolse quell’ossigeno, la nazione tornò allo sbaraglio. La Squadra d’Oro è praticamente morta, così come il calcio ungherese. E non muore solo sul campo, muore anche nella vita di tutti i giorni. Grosics e Lorant sono due anticomunisti dichiarati. Addirittura quest’ultimo finanzia la produzione di documenti falsi per tutte quelle persone che vogliono scappare dalla nazione. La polizia segreta sa tutto, conosce il coinvolgimento del difensore nella distribuzione di documenti falsi. In una delle tante volte in cui Lorant cerca di scappare, viene catturato e spedito in un campo di lavoro.

Grazie all’intermediazione di Puskas e Czibor, il colonnello decide di liberare il difensore. Ma Lorant era Lorant, una delle stelle, uno degli undici titolari. Quando si trattava di riserve, o addirittura di giocatori non nel giro della nazionale, la questione era un’altra. In quegli anni, un altro giocatore tentò di scappare illegalmente. Era il difensore Sandor Szucs, idolo dei tifosi del Ujpest, squadra della polizia segreta. Ed essendo della polizia, Szucs era un poliziotto, con in dotazione una pistola. Sandor, nel 1951, tentò di scappare. Venne però trovato al confine dalla polizia e, visto che era un componente delle forze dell’ordine, venne giustiziato con l’impiccagione. In quel caso, Puskas e Czibor non poterono fare niente.

Una squadra così non tornerà mai più. Una squadra con questa armonia tattica, con quella leggiadria che nel mondo magiaro e baltico sarà difficile persino immaginarsela. Quella squadra ha reso grande una porzione di terra nascosta al mondo, contesa da varie influenze sovietiche e venti di tensione balcanici. Una nazione in cui si parla una lingua incomprensibile, che solo chi ci abita può capire. Una nazione in cui le rivoluzioni culturali, sportive, sociali, ci sono state eccome, ma troppo spesso snobbate da chi comandava in Europa.

Per tutti il primo falso nueve della storia è stato inventato da Guardiola, non sapendo che Sebes con Hidegkuti lo faceva sessant’anni prima. Tutti pensano che Sacchi abbia inventato la tattica del fuorigioco, ignorando che l’Ungheria nel ’53 mandò l’Inghilterra in fuorigioco più di venti volte. Troppo spesso ignorati, troppo spesso resi grandi solo perché Puskas decise, a 32 anni, di andare ad esporre il suo sinistro anche in Spagna.

Spesso, volente o nolente, ci ricordiamo solo delle sconfitte, è nell’animo umano. E quindi ci ricordiamo che l’Olanda di Cruijff non ha vinto niente, che quell’Ungheria ha vinto solo un oro olimpico, per di più neanche contro una grande squadra in finale. È il vecchio e amaro destino di chi, purtroppo, alla fine non conclude niente. L’Ungheria d’Oro come Icaro: tanta fatica e bellezza per costruire le sue ali, ma poi ci si ricorda solo di come ha fatto a bruciarsi e cadere in mare, ritornando nel suo silenzio e nella sua solitudine.

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