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Le sette vite del gatto Sepp Maier

Chi convive con un gatto lo sa. Ora sonnecchia beato accartocciato sul letto, con l’aria appagata di chi sogna una cascata di crocchette al salmone, un secondo dopo è in cima all’armadio in camera da letto, quasi a ricordarti chi è che comanda in casa. Prepara agguati a elastici dimenticati sul tavolo o a insetti arrampicati alla finestra con la sagacia tattica di un assaltatore delle forze speciali, quindi gigioneggia pancia all’aria con lo sguardo in equilibrio fra il docile e lo scemo del villaggio, alla ricerca di attenzioni umane. Il gatto ha un’idea tutta sua dei limiti. L’altezza? Nulla di insuperabile con un balzo o con un’arrampicata ad artigli nudi. I riflessi? Tempi di risposta prossimi allo zero. La vita? Non una, ma sette.

L’associazione fra gatto e portiere è più telefonata di un tiraccio senza pretese dalla trequarti. Nel caso di Sepp Maier – Die Katze von Anzing, il gatto dell’Anzing – il paragone assume un valore che trascende la semplice – seppur notevole – agilità nei movimenti.

Proprio come un gatto, Sepp Maier è un abile predatore dall’animo giocherellone. Negli anni ’70 conquista tutto quello che c’è da vincere: un Mondiale (1974), un Europeo (1972), una Coppa Intercontinentale, tre Coppe dei Campioni, quattro campionati e quattro coppe nazionali. Un’epoca d’oro per il calcio tedesco, con Bayern Monaco e nazionale in cima al mondo grazie al Kaiser Franz Beckenbauer, classe e carisma, a Torpedo Gerd Muller, sgraziato e letale, e al clown Sepp, spericolato e buffo. Disposto a tuffarsi per acchiappare un’anatra inspiegabilmente a bordo campo e regalare una risata ai tifosi in tribuna con la stessa disinvoltura con cui vola verso il palo più lontano per deviare una deviazione ravvicinata dell’avversario. E riuscirci.

Sebbene sia stato fra i migliori portieri della sua generazione, la sua carriera ha conosciuto tonfi rumorosi e cadute temerarie. Ogni volta però, esattamente come un gatto finito rovinosamente sul pavimento dopo un salto calcolato male, Sepp ha saputo rialzarsi e rimettersi subito in piedi, come se nulla fosse accaduto. Per una vita intera, da uomo e calciatore. Per sette vite, proprio come un gatto.

Sepp Maier, l’ala sinistra scarsa

All’inizio della sua ventennale carriera da calciatore Sepp Maier aveva ben altri progetti. I gol voleva segnarli, altro che impedirli. Fine anni ‘50. La maglia è quella delle giovanili del TSV Haar, la posizione è la fascia sinistra. Il mandato dell’allenatore, un tale Weiss, è semplice e chiaro: fare gol. La palla però decisamente non voleva entrare:

Partite e partite senza segnare. Prendiamoci una pausa, mi disse allora il mister, gioca per una partita in porta: potrebbe aiutarti. Mi sembrava una procedura strana. Di certo la cosa aiutò gli altri. Gli avversari, dico. Vinsero 12-0.

Una batosta. Sarebbe abbastanza per ritirarsi ma Sepp non demorde. Del resto nella sua mente l’avventura in porta era provvisoria. Si sbagliava.

Alla successiva partita sono di nuovo in porta. Vincemmo 3-1 e parai due rigori. Cosa che per inciso non mi è mai più successo. Ma le cose succedono quando devono.

Weiss ci aveva visto giusto. Adesso occorre solo aspettare.

Sepp Maier Bayern
Una delle sette vite di Sepp Maier (Foto: Imago/HJS – OneFootball)

I primi successi col Bayern Monaco

Quando Sepp Maier arriva al Bayern Monaco, la squadra non è ancora la corazzata che avrebbe dominato il calcio europeo fra il 1971 e il 1976. Nel bel mezzo del riordino dei campionati tedeschi, la federazione decide di iscrivere alla neonata Bundesliga non più di una squadra per città. Il Monaco 1960 viene preferito al Bayern, così Maier, con Beckenbauer e Muller, dovranno riscaldare i motori nel purgatorio della Regionalliga per ben due anni prima di sovvertire le gerarchie del calcio tedesco.

All’esordio in Bundesliga, il Bayern conquista terzo posto e coppa di Germania. L’anno successivo, a Norimberga, sconfigge il Rangers in finale di Coppa delle Coppe. Il primo trofeo europeo dei bavaresi è frutto di un gol di Ruth ai supplementari e di un prodigioso intervento di Sepp Maier nel primo tempo. Alex Smith mette al centro dell’area un pallone che Roger Hynd – di professione difensore centrale ma promosso attaccante per una notte al posto del titolare Alex Willoughby – deve semplicemente toccare in rete dal limite dell’area piccola, completamente libero da marcature avversarie. Sarebbe già gol, se solo Maier non esaltasse il suo istinto in una presa bassa un po’ balbettante ma efficace. La prima preda è a casa. Dopo due stagioni arriva la prima Bundesliga e la maglia da titolare in nazionale.

Sepp a Messico ’70

Die Katze esordisce a Messico 1970 contro il Marocco. Dopo appena 21’ il carneade Jarir Houmane approfitta di una colossale incomprensione fra Sepp e un terzino tedesco per segnare un gol dal sapore di Corea. Alla fine sistema tutto il solito avvoltoio Muller. Finisce 2-1.

Passaggio del turno da imbattuti (5-2 alla Bulgaria e 3-1 al Perù) e riecco lo spettro dell’Inghilterra a tormentare i sogni di gloria dei tedeschi. Il gol fantasma di Geoff Hurst nei supplementari di Inghilterra ’66 è uno sgarbo ancora indigesto. Quel pomeriggio Sepp era in panchina. Chissà se avrebbe protestato con lo stesso aplomb mostrato in quell’occasione dal suo compagno di squadra Hans Tilkowski, portiere titolare.

A Leon la Germania va sotto 2-0 e Maier non è particolarmente brillante sul secondo gol inglese. Il destino però sta tessendo la trama di quella che diventerà la partita del secolo. Beckenbauer, Seeler e Muller confezionano l’impresa che porta la Germania nuovamente fra le prime 4 del mondo. E Maier allo scadere del secondo tempo supplementare schiaffeggia un bolide di Newton quel tanto che basta da mandare il pallone oltre la traversa e rispedire gli inglesi dal loro amato the delle 5. Un incubo è in soffitta ma sta per arrivarne uno nuovo.

Il 17 giugno 1970 scocca l’ora della partita del secolo, mimetizzata per buoni 90 minuti nel catenaccio operaio degli azzurri. Se Schnellinger non incappasse quasi per caso nel piattone destro con cui segna l’1-1 su cross di Grabowski a pochi secondi dalla fine, la rete di Boninsegna al 6′ sarebbe stato l’unico assolo di una partita soffocata dall’altura dell’Azteca e dal muro innalzato dagli italiani a difesa di Albertosi. E dalle sviste arbitrali che, secondo Sepp, avrebbero negato due rigori netti su Beckenbauer e Seeler.

Erano falli evidenti, almeno uno andava concesso, ma l’arbitro ha fatto proseguire. Sono sicuro che avremmo vinto noi e saremmo andati a giocare la finale contro il Brasile che era fortissimo, ma forse avremmo vinto noi, sicuramente non avremmo perso 1-4 come l’Italia.

I tempi supplementari di Italia-Germania Ovest mettono a dura prova le coronarie di quanti al di qua dell’Oceano Atlantico si saranno chiesti se quella fosse davvero una partita o piuttosto uno di quei film di Alfred Hitchcock in cui il respiro si riacquista solo all’ultimo fotogramma.

Muller estrae l’ennesimo gol della sua carriera da un pallone controllato maldestramente dalla difesa azzurra, 2-1. Burgnich, nel suo derby personale con Schnellinger, trova la via del 2-2. Gigi Riva supera Maier con un gran sinistro al limite dell’area ma Muller, tanto per cambiare, approfitta dell’ennesima mischia per il 3-3, con Albertosi che visibilmente urla qualsiasi cosa a Gianni Rivera in versione bell’addormentato sul secondo palo.

L’epilogo della partita del secolo però prevedeva la catarsi dal nostro giocatore più talentuoso. Ripartenza, la palla finisce a Boninsegna. Dall’out sinistro Bonimba mette al centro dove Rivera, con un perfetto interno destro, spiazza Maier nella perfetta esecuzione di un calcio di rigore in movimento. Per Martellini è una meravigliosa partita degli azzurri. Per Maier è la prima partita in nazionale in cui è costretto a raccogliere il pallone dal fondo della rete per la quarta volta. Non capiterà mai più. Forse anche per questo la partita dell’Azteca gli brucia così tanto da aver deciso di non rivederla mai più.

Ho osato farlo una volta, ho visto la partita per un’ora, ma poi ero troppo infastidito dall’arbitro e ho interrotto la visione.

Poco male. Di lì a poco la storia sarebbe cambiata.

Germania Ovest 1970
La Germania Ovest a Messico ’70 (Foto: Express/Express/Getty Images – OneFootball)

Sepp Maier, il gatto che diventa Topolino

Nei primi anni ’70 Maier colleziona titoli e primati. Due campionati di fila, quindi l’Europeo in Belgio nel 1972. Il calcio tedesco consolida il suo primato con i soliti gol di Muller, nonché la crescita di Breitner, Schwarzenback, Heynckes e Hoeness sotto l’ala protettiva di Beckenbauer, sempre più insostituibile faro della Germania Ovest. Anche contro l’URSS a Bruxelles, nella finale dell’Europeo, Maier strappa applausi dopo un tuffo prodigioso che blocca uno degli ultimi attacchi della nazionale sovietica.

Nel 1973 è una sua intuizione a cambiare per sempre la storia dei portieri.

Un giorno, in allenamento, asciugando un pallone con un telo, mi accorgo che il lattice fa attrito. Mmm. Ci penso, ci ripenso. Idea. I guanti. I guanti da portiere.

I guanti sono un optional a cui i portieri possono anche rinunciare. Difendono la porta a mani nude o con dei normalissimi guanti di lana. Al limite dei guanti in gomma che non aggiungono nulla alla presa dell’estremo difensore.

Al massimo li trovavi con delle puntine sopra: ma il pallone scivolava lo stesso. Ne parlai con Gebhard Reusch, il proprietario dell’azienda che li fabbricava. Facemmo un po’ di tentativi e Reusch inventò i guanti in schiuma di lattice. Ne cambiavo due o tre a settimana, si consumavano in fretta. Poi Reusch intuì che bisognava cucire il lattice su ogni dito. I miei guanti erano giganti. Li chiamavano i guanti di Topolino. E diventammo campioni del mondo.

L’anno di Sparwasser, dell’arancia meccanica e vinci casomai i Mondiali

Il Mondiale in casa per una superpotenza del calcio è la miglior occasione per vincere su campi di gioco di cui si conoscono alla perfezione le zolle, le bandierine, la temperatura del pubblico e persino delle docce. Per la Germania Ovest è l’occasione d’oro: una generazione di fenomeni nel pieno della maturità sportiva può conquistare il titolo che manca dalla vittoria sospetta del 1954.

Fra l’ambizione e la Coppa del Mondo che sostituisce da questa edizione la Coppa Rimet ci sono però 7 partite. La prima, suggestiva e dall’intenso valore politico, contro i cugini comunisti della Germania Est al loro esordio Mondiale. Maier ci arriva imbattuto dopo le vittorie della Germania con Cile (1-0) e Australia (3-0). Mancano 13 minuti al terzo clean sheet quando Sparwasser addomestica al limite dell’area un lungo lancio da destra, supera il checkpoint Vogts con un perfetto taglio diagonale quindi scavalca il muro di Maier con un perfetto colpo sul secondo palo. La Trabant che sorpassa la Mercedes a destra, il vento della rivoluzione che muta per qualche giorno le gerarchie calcistiche fra est e ovest.

La sconfitta, di fatto, evita alla Germania Ovest e a Maier il girone della seconda fase dove erano finiti Brasile, compassato ma pur sempre campione in carica, e soprattutto all’Olanda delle meraviglie, orchestrata magistralmente da Cruijff e protetta dall’eccentrico portiere Jongbloed. Quest’ultimo è l’unico al mondo a contendere a Sepp il titolo di estremo difensore più sui generis del pianeta, con l’insolito numero 8 sulle spalle e una inusitata propensione al palleggio che lo rende, di fatto, il primo regista degli Orange. Basta solo pazientare.

Il 7 luglio Germania Ovest-Olanda è lo scontro finale fra due filosofie del pallone: organizzazione tedesca contro calcio totale olandese, geometrie contro disegno libero, Beckenbauer contro Cruijff e perché no, Maier contro Jongbloed. I primi sessanta secondi sono il manifesto del calcio globale. Quindici passaggi consecutivi, con la palla saldamente controllata dagli Orange.

Ricordo la corsa all’indietro che fece Cruijff per andare a prendersi un pallone a ridosso della sua area. Poi rimase lì, a centrocampo, e al quindicesimo passaggio consecutivo, senza che noi tedeschi toccassimo mai il pallone, lo vidi partire verso di me. Accelerò in uno spazio vuoto che forse aveva visto solo lui, forse neppure c’era, lo aveva creato da solo. Toccò il pallone otto volte tenendolo sempre incollato al piede destro, collo, esterno, collo. Non c’era niente da fare. Mi avrebbe fatto gol, dovemmo buttarlo giù. Calcio di rigore. Neppure un minuto di partita, neppure un minuto della finale che giocavamo in casa contro l’Olanda, e c’era rigore per loro.

Neeskens piazza la palla sul dischetto. Forse non prende neppure la mira. Un bolide centrale contro cui Maier non può far nulla. Il risultato finale però premia i tedeschi, a cui basta un solo tempo ribaltare l’esito della gara.

Quando ripenso a quel giorno, io ripenso a quel minuto. Il primo. Ripenso allo sbuffo di gesso che Neeskens sollevò calciando. E mi dico che se abbiamo battuto una squadra che in un minuto rinchiuse tutto quello che nel calcio si può fare – passaggi, accelerazioni, scatto, qualità – allora i migliori eravamo noi.

Il rigore di Johan Neeskens (Foto: STAFF/AFP via Getty Images – OneFootball)

Lžíce, ovvero il cucchiaio cecoslovacco

La vittoria del Mondiale casalingo apre il triennio più vittorioso della storia del calcio tedesco. Alla Coppa del Mondo si aggiungono le due Coppe dei Campioni e la Coppa Intercontinentale vinte dal Bayern Monaco nelle due stagioni successive. Maier ferma gli attacchi dei Leeds United, del Saint-Etienne e del Cruzeiro.

Le competizioni internazionali sono diventate una cosa tedesca e i pronostici della finale dell’Europeo 1976 sembrano confermare questa tendenza. A Belgrado a sfidare la solita Germania Ovest c’è la sorprendente Cecoslovacchia, giunta all’atto finale dopo aver eliminato l’Unione Sovietica e l’Olanda.

La Germania Ovest fa fatica, va sotto di due reti ma con la caparbietà che è ormai il suo marchio di fabbrica riagguanta il risultato a pochi secondi dal termine. Nei tempi supplementari il risultato resta bloccato sul 2-2. Per la prima volta l’epilogo dell’Europeo sarà deciso dai calci di rigore.

Quando Hoeness manda il suo in orbita, di fronte a Antonin Panenka si spalanca l’occasione della vita: associare il proprio nome al primo titolo internazionale della storia del calcio cecoslovacco. Per superare un portiere monumentale ci vuole qualcosa di leggendario, magari inaspettato. Alla rincorsa lunga non segue un tiro potente e angolato ma un chirurgico pallonetto centrale, che beffardo supera Maier già proteso verso la sua sinistra. Il Panenka, che oggi chiamiamo cucchiaio, è un marchio di fabbrica del centrocampista cecoslovacco ma al di qua della Cortina di Ferro non lo conosce nessuno. Ne fa le spese Sepp, che a questo punto potrebbe credere di aver visto proprio di tutto. Non sa ancora cosa lo attende.

L’incidente

1979. Sepp Maier pregusta la fine della propria carriera fra i pali, magari da over 40 come Zoff e Banks. È estate ma piove sulle strade dell’Anzing. Maier è alla guida della sua auto verso casa. All’ultimo momento compare la sagoma di un’altra macchina in direzione contraria. È il tuffo più difficile della sua vita. Sterza, si schianta, va in coma. Sarebbe morto se il suo compagno di squadra Hoeness non lo facesse trasferire in un ospedale più grande, allestito per operazioni delicate come questa.

Il referto finale è impietoso e l’addio al calcio è improrogabile. Qualcuno dirà di averlo visto finalmente nei panni di un clown al circo Krone di Monaco di Baviera. Che sia vero oppure no, poco importa. Non aveva mai avuto bisogno di un naso rosso per ridersela della vita e del calcio che iniziava a farsi già da allora troppo serio.

Eravamo dei professionisti, ma il calcio rimaneva un gioco. Ai solenni banchetti che il Bayern dava per festeggiare le vittorie, mi nascondevo sotto i tavoli del buffet e mi divertivo a legare fra di loro i lacci delle scarpe di chi veniva a prendere qualcosa da mangiare. Ne ho visti tanti andare giù. Volevo solo far ridere la gente. Per dire: una volta infilai un coniglio dentro la borsa del dottore. E la mia faccia di oggi racconta quanto sia stata felice la mia vita.

Sepp Maier e Neuer 2020
Generazioni a confronto: Manuel Neuer e Sepp Maier (Foto: Alexander Hassenstein/Getty Images – OneFootball)

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