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A inizio ottocento Middlesbrough era poco più che una fattoria e contava appena 25 abitanti. In passato in quelle terre sorgeva un monastero benedettino e il piccolo insediamento medievale di Stainsby; il primo venne chiuso da Enrico VIII e del secondo non è rimasto che qualche rudere vicino alla A19 che unisce Seaton Burn a Doncaster. È nel 1830 che si inizia a parlare di Middlesbrough come di una città vera e propria, quando Joseph Pease, risalendo il fiume Tees, decise di crearvi un suo porto.

La finale di Champions League rappresenta, per attesa e talvolta anche cronologia, l’atto conclusivo di un’intera stagione calcistica. Liverpool e Real Madrid si sfideranno questo sabato allo Stade de France di Parigi, scelto dalla UEFA in sostituzione della Gazprom Arena di San Pietroburgo a causa del conflitto russo-ucraino. Nel calcio è sempre un po’ pretestuoso e presuntuoso parlare di giustizia, ma è indubbio che esista qualche forma di merito nel cammino di entrambe le squadre per continuità, gioco espresso e valori assoluti.

È il marzo 2014, Walter Mazzarri entra in studio sulle note de Il meglio deve ancora venire di Ligabue; ha un completo blu e la camicia azzurra con righe bianche aperta sul collo, il solito capello apparentemente disordinato e un viso non ancora rubizzo. Da poco è uscita la sua autobiografia, che spiega anche la canzone scelta: “Il meglio deve ancora venire”.

Il pullman che ha portato in trasferta la squadra riserve del Leyton Orient completa il suo tragitto arrestandosi nell’ampio spiazzo davanti al campo di gioco del Southend; i ragazzi della squadra di casa sono già arrivati quasi tutti, e sono radunati poco più avanti, all’ombra della tribuna. Più di qualcuno tra gli shrimpers alza la testa, pronto a vedere le facce di città che si troverà davanti in campo poco meno di due ore dopo. Nulla di rilevante da notare, finché tocca scendere i gradini del bus, nell’ordine, a Tony Grealish, Bobby Fisher e Laurie Cunningham.

Durante i festeggiamenti della sera del 15 luglio 2018, nello stadio olimpico Lužniki di Mosca, c’è un ragazzo che si distingue dagli altri. Non smania per prendere in mano la coppa e alzarla al cielo. Ma piuttosto aspetta in silenzio il suo turno, quasi cercando di evitare i riflettori mondiali che inevitabilmente quella sera sono anche su di lui. Si tratta di N’Golo Kanté, giocatore chiave nella formazione della Francia vittoriosa della Coppa del Mondo, e uno dei centrocampisti in assoluto più in forma di tutto il torneo.

Il 27 aprile 2014 è in ballo il destino della Premier League. Il Liverpool di Brendan Rodgers, primo in classifica con tre punti di margine sul Manchester City, ospita il Chelsea di José Mourinho, tagliato ormai fuori dalla corsa al primo posto. Si tratta dell’ultimo grande ostacolo tra i Reds e un titolo che manca da più di venti anni. Quando il Liverpool ha vinto il campionato inglese l’ultima volta, quest’ultimo nemmeno si chiamava ancora Premier League. Era il 1990. Erano ancora i tempi della First Division. In mezzo i Reds hanno avuto i loro successi, tra cui soprattutto la Champions League del 2005 con la storica rimonta di Istanbul contro il Milan. Mai però sono stati i migliori in patria.

Parlare di temi controversi e sfaccettati quali la morale e la giustizia, in un mondo favolistico come quello del calcio, non è mai semplice. C’è sempre la sensazione che la sfera globale del pallone sia immersa in una bolla che la rende impermeabile ai problemi del mondo comune. I calciatori, veri protagonisti di questa dimensione parallela, sono visti come eroi: forti, irraggiungibili, e circondati da un’aura luminosa che li rende affascinanti come attori hollywoodiani. Quando viene diffusa la notizia di un misfatto che vede coinvolto un calciatore, la reazione è spesso di trauma. Ci si chiede come, quello stesso atleta che in campo spicca per la sua leadership e per il suo rigore, abbia potuto commettere un’azione così bassa, così umana. 

Le reazioni innescate da casi come quello che ha recentemente coinvolto Kurt Zouma, difensore del West Hai di cui è stato diffuso un video nel quale il francese è intento a prendere a calci il suo gatto, hanno posto l’attenzione su importanti questioni morali, in merito alle quali è interessante ragionare in modo critico, senza cadere nell’errore di condonare il gesto abominevole del difensore, né tantomeno assumendo posizioni estremiste, facendosi accecare dalla brutalità dei video. 

La querelle Zouma ha generato due correnti di pensiero, che nell’ambito del dibattito della giustizia rappresentano da sempre le due estremità antitetiche: giustizialisti e garantisti. La prima, quella dei giustizialisti, si è infervorata chiedendo a gran voce il licenziamento del giocatore nonché l’esclusione a vita dalla Premier League; la seconda, quella garantista, ha da subito tentato di ridimensionare l’atto, riconoscendone la gravità, ma manifestando allo stesso tempo, previa una punizione adeguata, un’apertura al perdono. La sensibilità morale, la percezione che abbiamo delle azioni altrui, è quanto di più contingente esista; per questo motivo, è bene sottolineare che la risonanza assunta da un episodio mediatico rappresenta un ottimo termometro per misurare il pensiero, le posizioni, e i temi che più stanno a cuore in un dato tempo storico. È impossibile ignorare come nel mondo odierno, un ruolo decisivo sia assunto dai social media.

In termini concreti, un caso come quello di Zouma, nasce, si sviluppa, e muore sui social. Il filmato che vede coinvolto l’ex Chelsea è stato infatti diffuso da un amico ingenuo – per usare un eufemismo -proprio su un social come Snapchat; la condivisione multimediale del video, che in poche ore è rimbalzato dai social a portali inglesi come il ‘Sun’, ha immediatamente provocato un fragoroso clamore mediatico, con una conseguente esplosione di commenti offensivi e richieste di punizioni esemplari rivolte al giocatore. Inevitabilmente, in risposta al vulcano mediatico creatosi, il West Ham ha deciso di multare il giocatore (250k) e di metterlo provvisoriamente fuori rosa, mentre l’Adidas, sponsor del francese, ne ha immediatamente preso le distanze stracciando il suo contratto.

Zouma con il West Ham
Alla pubblicazione del video è seguito un vero e proprio turbine mediatico e non che ha colpito lo stesso Zouma ma anche la sua famiglia (Foto: Alex Burstow/Getty Images)

Senza entrare nel merito delle decisioni prese, è interessante ragionare sul peso che i social hanno ormai assunto nella dinamica di questi episodi: l’impressione è che le società e le multinazionali associate all’atleta in questione non prendano provvedimenti in reazione all’atto in sé, ma alla reazione che questo genera nella bolla mediatica che ruota attorno al pallone. Non è più il modello di giustizia alla radice a essere garantista o giustizialista, indulgente o intransigente, bensì la reazione che si innesca a livello social(e); una reazione, questa, fortemente legata a elementi contingenti quali, in questo caso, la sensibilizzazione crescente al tema del maltrattamento degli animali, il legame affettivo con gli animali stessi e, perché no, col singolo giocatore.

La dimostrazione dell’influenza che l’eco mediatica ha avuto nei provvedimenti presi nei confronti di Zouma è tutta nella mancanza palese di una linea coerente in relazione al caso: ventiquattr’ore dopo la diffusione dei video incriminati, infatti, l’allenatore degli Hammers ha deciso di schierare titolare il difensore francese, giustificando la scelta con la sua sfera di competenza, che deve limitarsi al campo. Queste dichiarazioni di Moyes hanno fatto parecchio rumore in Inghilterra, tanto che a poche ore dal fischio finale, i vertici di Experience Kissimmee, uno degli sponsor del West Ham, hanno dichiarato tutto il loro sconforto per la decisione di schierare Zouma in seguito ai recenti misfatti, minacciando di rivedere l’accordo di sponsorizzazione con gli Hammers. Interpellati dal portale inglese ‘The Athletic’, alcuni rappresentanti della Premier League hanno manifestato il loro disappunto per la scelta dell’allenatore, che avrebbe dovuto escludere il giocatore dalla rosa; allo stesso modo, alcuni tifosi del West Ham, tra i quali padri di famiglia accompagnati allo stadio dai propri figli, hanno trovato difficile spiegare come Zouma, a ventiquattrore da quegli atroci filmati, potesse essere in campo, come se nulla fosse accaduto. La situazione creatasi attorno al calciatore è più che mai paradossale: da un lato viene dipinto come un mostro irrecuperabile, multato e abbandonato dagli sponsor; dall’altro, però, Moyes continua a schierarlo in campo, come se il rettangolo di gioco fosse una dimensione parallela in cui Zouma non esiste più come uomo responsabile delle proprie azioni, ma solo come calciatore, utile al raggiungimento del sogno quarto posto maturato dagli Hammers.

Il rischio di un sistema di provvedimenti influenzato dalla frenesia mediatica odierna, è quello di essere ridotti a prendere decisioni a caldo, quasi come si fosse costretti a rispondere a una massa infervorata che invoca le punizioni più estreme per il giocatore in questione. I social, purtroppo, sono da sempre un veicolo pericoloso, in cui le persone sfogano rabbia e frustrazione; cedere a questi spazi la legittimità di condizionare una sfera che dovrebbe essere rigorosa, obbiettiva ed esente dalle passioni come quella della giustizia, rischia di essere deleterio.

Un calciatore, per un tifoso che twitta, può essere oggi una chiavica e domani un fenomeno; ma un essere umano, nei suoi errori, anche nelle sue azioni più riprovevoli, non può essere giudicato con la stessa leggerezza tranchant. I processi sui social network, volti alla distruzione di qualsiasi atleta/celebrità venga colta in fallo – Hollywood ne rappresenta un fulgido esempio – devono rimanere ben distanti dalle aule in cui si prendono le decisioni che determinano la vita e la carriera di un uomo. L’incoerenza con cui vengono trattati i diversi casi che vedono coinvolti personaggi mediaticamente influenti, è testimonianza di una mancanza di uniformità che può essere sì associata a una battuta al bar con gli amici, ma non certo a decisioni di una simile rilevanza.

Zouma ha gravemente sbagliato, ne ha pagato le conseguenze (multa e addio sponsor) e i suoi animali sono stati prontamente sottratti dall’ente che ne tutela i diritti in Inghilterra, l’ RSPCA (Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals). Si è scusato e chi gli sta intorno lo racconta come un uomo che si è pentito. In una società la cui giustizia si fondi sulla fiducia nella possibilità del riscatto sociale, la questione, a questo punto, sarebbe del tutto appannaggio degli organi competenti, nel caso in cui si decida di incriminare Zouma, come richiesto dalla petizione lanciata dall’Ong Anti Animal Abuse su change.org. Nel frattempo, però, la macchina del fango sui social non sembra arrestarsi, e basta scorrere i Tweet che citano Zouma per rendersi conto di come vi siano due giustizie parallele che si stanno confusamente esercitando, trasformando un atto ignobile in un pretesto per ergersi a giudici della moralità universale.

La discussione infinita sul caso Zouma è stata recentemente aizzata dalle dichiarazioni di Micheal Antonio, suo compagno di squadra al West Ham, che interpellato da Sky Sport UK, ha dichiarato:

Ho una domanda per te, credi che quello che ha fatto sia peggio del razzismo? Non sto perdonando la cosa che ha fatto, non sono affatto d’accordo con la cosa che ha fatto. Ma ci sono persone che sono state condannate in tribunale per razzismo e che in seguito hanno giocato a calcio. Sono stati puniti, hanno ricevuto una squalifica di otto partite o qualcosa del genere.

Molti hanno tacciato queste parole di benaltrismo, in quanto il fatto che il razzismo sia un’ulteriore piaga dell’umanità non rappresenta un’alibi di fronte al gesto commesso da Antonio. La dichiarazione provocatoria dell’attaccante del West Ham, però, merita una riflessione più approfondita. Il caso più eclatante in Premier League è senz’altro quello che riguarda Suarez, condannato a pagare 40k sterline – poco più di 1/6 della multa pagata da Zouma – e a scontare otto turni di squalifica per aver ripetutamente indirizzato insulti razzisti a Evra durante Manchester United-Liverpool nel 2011.

Evra e Suarez nel 2011
Il misfatto del 2011, pur generando enorme clamore inizialmente, alla fine si dimostrò poi altrettanto grave visti i provvedimenti presi (Foto: Andrew Yates/AFP via Getty Images – OneFootball)

Senza entrare nel merito di un velleitario confronto gerarchico su quale sia il male peggiore tra il razzismo e il maltrattamento degli animali, è interessante notare quali siano oggi le disposizioni della Federazione inglese in presenza di episodi di razzismo in campo: qualunque giocatore insulti un avversario per il colore della sua pelle, o per il suo orientamento religioso/sessuale, verrà squalificato per cinque turni, dieci se recidivo. Oggi Luis Suarez gioca a calcio, ha appena conquistato una Liga col suo Atletico Madrid e, nonostante non sia certo un personaggio che attira le simpatie dei tifosi avversari, nessuno metterebbe in discussione il suo diritto a esercitare la professione.

I suoi insulti razzisti sono stati spesso fatti passare come dei tentativi di provocare Evra, degli esempi di trashtalking per innervosirlo. La punizione è stata severa, ma Luis Suarez non è mai stato crocifisso in pubblica piazza. Gli sponsor non si sono mai allontanati da lui, anzi, è una delle figure di punta del colosso Puma. Nessuno ha aperto una petizione per incriminarlo o perché smettesse di giocare a calcio. Tutto quello che sta invece accadendo a Kourt Zouma, il quale ha commesso un atto altrettanto grave, ma innescando reazioni ben diverse, che dovrebbero farci riflettere sui problemi sistemici della nostra società. 

Intendo concludere questo articolo, inevitabilmente sommario per la complessità dei temi toccati, con alcune domande che mirano a suscitare una riflessione: cosa sarebbe successo se, senza essere diffuso sui social, il video di Zouma fosse semplicemente pervenuto al West Ham e ad Adidas? I provvedimenti sarebbero stati gli stessi? E ancora: i provvedimenti sarebbero stati gli stessi se, al posto di Zouma, titolare di una squadra in lotta per la Champions, il diretto interessato fosse stato una terza linea poco impiegata? Moyes lo avrebbe convocato? Ma soprattutto: fino a che punto siamo interessati al fatto che i giocatori della squadra che tifiamo, i nostri beniamini, siano modelli irreprensibili di comportamento?

Di solito questa rubrica parla di momenti che hanno fatto svoltare la carriera di un giocatore in maniera positiva. Può capitare di descrivere alcune azioni da gol che hanno proiettato un attaccante nell’ottica da supereroe del calcio. O ancora si possono contare i km corsi sulla fascia da un terzino quando questo trova finalmente l’allenatore, la squadra o i compagni giusti. E poi ci sono anche tutti quei casi curiosi in cui lo Sliding Doors fa pure un po’ sorridere, come nel caso di Maldini, che trova per strane coincidenze l’esordio dopo l’infortunio del titolare Battistini, e poi diventa uno dei migliori giocatori italiani di tutti i tempi. Per Christian Eriksen, invece, è tutto diverso.

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