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È un Natale un po’ particolare quello del 2016. Almeno per quei giocatori che, alzando lo sguardo al cielo, non vedono alberi illuminati e lucine decorative, ma solo enormi grattacieli e lo skyline di una città troppo futuristica per quei giorni dal sapore di festa. Doha è una perla del Medio Oriente, la Capitale dello stato del Qatar. Una città all’avanguardia, ultra moderna, lontana anni luce però da quel calore tradizionale che ci si aspetta di vivere il 23 dicembre.

La morte di Giampiero Boniperti, arrivata oggi a 92 anni, ha segnato uno spartiacque, in un certo senso la fine simbolica di un’era calcistica ma anche socio-culturale del calcio italiano. La nostra giovane redazione è riuscita solo sfiorare un brillante simbolo del secondo dopoguerra italiano come il fu calciatore, dirigente e presidente della Juventus, perciò ci siamo rivolti a Enzo D’Orsi, giornalista del Corriere dello Sport che ha seguito la Juventus dal 1979 al 2000 e ha scritto diversi libri sulla squadra bianconera, tra cui i più recenti Gli Undici giorni del Trap. Atene 1983, Non era champagne. La Juve di Maifredi, Montezemolo e Baggio e Michel et Zibi. Gli amici geniali (2018, 2019 e 2020, Edizioni InContropiede). Ringraziando Enzo per la gran disponibilità mostrata nei nostri confronti, vi proponiamo questa sua riflessione su un monolite del Novecento calcistico tricolore.

C’erano tutti i presupposti per vedere finalmente l’Atalanta sollevare un trofeo, coronare anni e anni di lavoro e mettere la ciliegina sulla torta che Gian Piero Gasperini ha saputo assemblare magistralmente. E invece la ciliegina è finita su quella che più che un dolce sembrava un pasticcio, la Juventus di Andrea Pirlo. Il Maestro ne ha di motivi per brindare: ha conquistato la Coppa Italia, lo ha fatto nel giorno del suo 42° compleanno e ha messo a tacere – almeno momentaneamente – le critiche sul suo conto.

Ei fu. Siccome immobile.

Quante volte avete sentito l’incipit di questa illustre poesia? Recitata a scuola da trasognanti professori di letteratura, letta su qualche spesso librone di antologia italiana, o magari anche su alcuni pretenziosi post su Instagram. Queste parole costituiscono l’incipit del “5 maggio“, probabilmente il più famoso componimento poetico scritto in lingua italiana, o comunque tra i più celebri.

L’autore è Alessandro Manzoni, un altro di quei nomi che hanno perseguitato intere generazioni di studenti. L’austero e fenomenale autore de I Promessi Sposi, che ha scritto pagine indimenticabili della letteratura italiana. Un posto di rilievo è occupato per l’appunto dal “5 maggio”, un’ode scritta nel 1821 in occasione della morte di Napoleone Bonaparte, uno dei più grandi condottieri della storia dell’umanità.

Genio artistico e militare che s’incontrano, dando vita a uno dei capitoli più umani delle immense vicende del mondo. Il grande generale che dopo aver vinto numerose battaglie muore in esilio, solo e malato, a Sant’Elena, una porzione di terra desolata nel mezzo dell’Oceano Atlantico. La decadenza di un uomo che per tutta la vita si è sentito più vicino a una divinità, ma che la morte ha riportato alla sua dimensione drammaticamente terrena.

Il 5 maggio, però, per gli appassionati di calcio, specialmente italiani, è la data di un’altra grande caduta. Quella dell’Inter di Hector Cuper, che all’ultima giornata di campionato perde incredibilmente uno Scudetto che aveva già in tasca, rendendosi protagonista di uno dei più grandi drammi sportivi del nostro calcio.

La suggestione di oggi parte proprio da qui. Dalla poesia scritta da uno dei più grandi geni della letteratura in onore della morte di un leggendario condottiero, alla caduta, fragorosa e inaspettata, di una delle più prestigiose squadre del calcio italiano. Il tutto intorno a una data, il 5 maggio, simbolo della fragilità umana che è in grado di far crollare tutto, anche la più immaginabile grandezza.

Ronaldo non riuscì a trattenere le lacrime il 5 maggio 2002
Fenomeno (Foto: Imago Images – One Football)

Ei fu

La stagione 2001/2002 promette scintille sin dal suo inizio. La Roma, campione d’Italia in carica, è chiamata alla conferma. La Juventus per interrompere un triennio senza successi richiama sulla propria panchina Marcello Lippi. L’Inter invece si affida a Hector Cuper, reduce da un grande ciclo al Valencia, culminato però col dramma delle due finali di Champions consecutive perse.

Le tre squadre diventano presto le grandi protagoniste del campionato e lo rimarranno fino al termine della stagione. La Juventus si prende subito la vetta, ma l’Inter di Cuper già alla quinta giornata soffia il primato ai bianconeri. La grande mina vagante di inizio anno è il Chievo Verona, alla sua prima stagione in Serie A, che a ottobre raggiunge addirittura la vetta della classifica. Presto si aggiunge alla bagarre lì davanti anche la Roma, che con uno scatto improvviso si distanzia e si aggiudica il titolo di campione d’inverno, aumentando le possibilità di una clamorosa riconferma.

Nel girone di ritorno lo scenario inizia a cambiare. Il Chievo cala il proprio rendimento, deriva inevitabile per una neopromossa. Inter, Roma e Juventus invece rimangono ostinatamente in lotta per il vertice. La lotta è ferrea e agguerrita e arriva, sul filo dell’equilibrio, fino all’ultima giornata di campionato. Il 5 maggio 2002 la classifica recita: Inter 69 punti, Juventus 68 e Roma 67. 

Le tre squadre che hanno dominato quel campionato possono ancora vincere lo Scudetto all’ultima giornata e si apprestano a vivere 90 minuti di fuoco. Quella con minori possibilità è la Roma, che ha ottenuto qualche pareggio di troppo, tra cui quello clamoroso contro il Venezia già retrocesso, e ora deve battere il Torino fuori casa e sperare che Inter e Juventus non facciano lo stesso. Uno scenario molto complesso.

La Juventus di Marcello Lippi non è riuscita a concretizzare in maniera definitiva un mercato glorioso, che ha visto gli arrivi di Buffon, Thuram e Nedved. I bianconeri non hanno preso margine in classifica, come ci si poteva aspettare a più riprese durante la stagione, Al momento della verità le speranze della Vecchia Signora, impegnata in trasferta a Udine, sono aggrappate a ciò che farà l’Inter.

Un po’ a sorpresa, sono proprio i nerazzurri ad arrivare in pole position al giro finale. La squadra di Cuper ai nastri di partenza si posizionava un po’ nelle retrovie rispetto alle favorite, ma ha saputo farsi strada grazie a un’ottima organizzazione e alla leadership tecnica di giocatori come Vieri e Recoba. Ora il traguardo è vicino: basta soltanto vincere l’ultima gara di campionato, all’Olimpico contro la Lazio, per riportare nella Milano nerazzurra uno scudetto che manca addirittura dal 1989.

Il 5 maggio il campionato si decise all'Olimpico
Il teatro del 5 maggio 2002 (Foto: Andrea Staccioli/Insidefoto/Imago Images – OneFootball)

La sua cruenta polvere a calpestar verrà

Prima di addentrarci in quello storico pomeriggio, c’è bisogno di una doverosa precisazione. La narrativa intorno al 5 maggio è di quelle che, accumulati strati di dicerie e voci, si è fatta confusa e piena di false credenze. Quella principale riguarda proprio la Lazio, avversaria dell’Inter quel famoso pomeriggio. II luogo comune vuole che i biancocelesti arrivino a quella gara senza più nulla da chiedere al campionato, pronti a farsi da parte per regalare il titolo agli amici di una vita.

La realtà però è ben diversa. Probabilmente una parte di tifo davvero si augura di vedere la propria squadra sconfitta. Da una parte per lo storico gemellaggio con la curva nerazzurra, dall’altra soprattutto per scongiurare la possibilità, comunque remota, che la Roma finisca per vincere lo Scudetto, a un anno di distanza da quell’estate piena di sofferenza in cui i tifosi biancocelesti hanno visto la città tingersi di giallorosso. In Curva Nord, la casa del tifo laziale, effettivamente si possono intravedere vessilli nerazzurri, ma non c’è uno schieramento completamente a favore dell’Inter.

Il campionato della Lazio, infatti, a dispetto di gemellaggi da onorare e fantasmi da scacciare, è tutt’altro che finito quel 5 maggio. I biancocelesti hanno vissuto un’annata deludente, perdendo presto contatto con la vetta. A 90 minuti dalla fine del campionato la qualificazione in Champions League è ormai irraggiungibile per la squadra capitolina, ma è ancora possibile l’accesso in Coppa UEFA.

Serve una vittoria ai biancocelesti, che riscatti almeno parzialmente una stagione travagliata, viziata dall’eliminazione in un girone di Champions League abbordabile e l’onta della sconfitta per 5-1 al derby. In caso di successo, e di contemporanea mancata vittoria del Bologna, gli aquilotti accederebbero direttamente in Coppa UEFA, senza passare per il noioso Intertoto.

Dunque, il clima all’Olimpico è intriso della falsa convinzione che la Lazio sia pronta a scansarsi, a veder celebrare lo scudetto dell’Inter. Questo calcolo sbagliato giocherà un ruolo fondamentale nella tragedia che si sta per consumare.

David Trezeguet in bianconero
Trezeguet fu uno dei marcatori in Udinese-Juventus 0-2 (Foto: Imago Images/Sven Simon – OneFootball)

Ora dell’uom fatale

Fino a quel pomeriggio del 2002, nell’immaginario collettivo la data del 5 maggio è legata quasi esclusivamente a quella maledetta poesia su cui milioni di studenti negli anni avevano buttato ore di studio. Riporta al ricordo di Napoleone Bonaparte, alla sua morte tanto in contrapposizione rispetto alla sua vita. A quella solitudine, alla fragilità della sua grandezza, che Manzoni con eleganza ha sottolineato nella sua ode. In pochi pensano che, di lì a breve, si sarebbe consumata un’altra vicenda altrettanto tragica.

I tre match decisivi per lo scudetto si giocano tutti in contemporanea. 5 maggio 2002, ore 15:00. A rompere il ghiaccio è la Juventus, che dopo 11 minuti mette già in cassaforte il risultato a Udine. Dopo appena due minuti di gioco Conte s’invola sulla destra e crossa sul secondo palo, dove trova Trezeguet che di testa sblocca il match. All’11′ Alex Del Piero raddoppia con un gran diagonale in area di rigore. La Juventus archivia la propria pratica nel giro di pochissimo tempo. Da questo momento, per i bianconeri inizia una lunga attesa, con le orecchie rivolte allo stadio Olimpico di Roma.

Le prime notizie per la Juventus non sono confortanti. Al 12’ Christian Vieri porta in vantaggio l’Inter sfruttando un errore di Peruzzi. La strada sembra in discesa, ma i nerazzurri si trovano di fronte uno di quei personaggi piazzati lì dal destino, usciti fuori un po’ per caso. Il pomeriggio del 5 maggio 2002 è quello dell’exploit del ceco Karel Poborsky, che chiude la sua esperienza biennale nel calcio italiano entrando nella storia della Serie A. Arrivato appena un anno e mezzo prima nella Capitale, la sua avventura in Italia si consuma senza grandi acuti, almeno fino a quel giorno.

È lui nel primo tempo a tenere testa, quasi in solitaria, all’Inter: al 19’ trova il gol del pareggio, poi sul finire del primo tempo segna un’altra rete, che ristabilisce l’equilibrio dopo che l’Inter era tornata avanti con uno stacco di testa di Di Biagio. Il ceco sfrutta un erroraccio di Gresko, un altro la cui carriera in Italia finisce praticamente quel pomeriggio, con uno sciagurato retropassaggio di testa che mette solo davanti a Toldo il laziale Poborsky.

Le due squadre vanno a riposo sul 2-2, ma dagli spogliatoi riemerge una sola squadra. L’Inter è irriconoscibile, impaurita e anonima. La Lazio nella ripresa imperversa e trova due reti: prima con Simeone, che chiede addirittura scusa ai suoi ex compagni, poi con Simone Inzaghi. Nel frattempo la Roma passa in vantaggio a Torino con una rete di Cassano e i nerazzurri scivolano addirittura al terzo posto. Dimenticati dalla storia come Napoleone a Sant’Elena.

Proprio come l’esilio del grande generale, gli ultimi minuti di quel match agonizzante sono una desolazione totale per l’Inter. Ronaldo scoppia in lacrime in panchina, anche gli occhi di Marco Materazzi s’inumidiscono. A Milano i tifosi iniziano a sgomberare Piazza Duomo, adibita per festeggiare il trionfo nerazzurro. A testa bassa portano via stendardi e striscioni, fanno ritorno a casa provando a reprimere i singhiozzi che salgono alla gola dal profondo del cuore. Con una lentezza micidiale arriva il triplice fischio finale, che sancisce il crollo dell’Inter e dà il via ai festeggiamenti della Juventus a Udine.

A fine partita scoppia naturalmente il putiferio, che maschera la desolazione dando libero sfogo alla rabbia. Tante voci gridano al sospetto, si parla del poco impegno dell’Udinese e del troppo della Lazio. Si cerca un modo per spiegare un qualcosa che è irrazionale, che era completamente inatteso. La lotta però è diretta contro un nemico invisibile, contro il destino che quel pomeriggio si è divertito a scherzare con le vicende umane. Tra eroi improbabili come Poborsky e vittime sacrificali come il povero Gresko, il 5 maggio diventa il giorno del dramma dell’Inter. Una data destinata a lasciare un’impronta indelebile nella storia del calcio, dopo averlo fatto in quella dell’umanità.

Hector Cuper e Christian Vieri
Hector Cuper e Christian Vieri (Foto: Imago Images/Buzzi – OneFootball)

Stette la spoglia immemore

Il destino si è divertito ad accomunare la vicenda di Napoleone a quella della squadra nerazzurra. A primo impatto semplicemente sul piano temporale, ma in un senso più profondo non è difficile vedere nelle due tragedie un filo comune, esaltato tra l’altro da Alessandro Manzoni nella famosissima ode.

Quel tema è quello della fragilità umana di fronte alla grandezza, anche a quella più assoluta. La morte di Napoleone cozza terribilmente con la sua vita. Astro nascente dell’esercito francese, il giovane soldato scala in maniera velocissima i ranghi militari e riesce ad approfittare dello scompiglio causato dalla Rivoluzione francese per assumere la condotta dello stato e cambiare per sempre la storia della Francia.

Di lui si ricordano le straordinarie campagne militari in Italia e in Egitto, il colpo di stato e la nomina a imperatore dei francesi. Giunto sul tetto del mondo, la caduta è stata particolarmente fragorosa. Ritardata da quei sensazionali 100 giorni, dal ritorno al potere dopo l’esilio all’Isola d’Elba. La famosa sconfitta nella battaglia di Waterloo segna poi la capitolazione del leggendario generale. Sant’Elena regala alla storia solo un uomo malato e sconfitto, l’ombra pallida e smunta di quell’invincibile imperatore.

Allo stesso modo, il 5 maggio diffonde al mondo l’immagine di un’Inter domata e sconfitta. Svuotata. Consegna ai posteri le lacrime di Ronaldo, che per la delusione non riuscirà più a giocare all’Inter. I tormenti di Cuper, che all’Olimpico ha rivisto i fantasmi delle due finali di Coppa dei Campioni perse consecutivamente col Valencia. Restituisce il dramma dei tifosi che sognavano quella vittoria dal 1989, ma hanno visto quel desiderio sbriciolarsi davanti ai loro occhi, nel modo più crudele possibile. Di migliaia di persone pronte a festeggiare, che sono dovute tornare a casa con gli occhi gonfi di lacrime.

Il 5 maggio è il giorno degli sconfitti, dei grandi che cadono e fanno un rumore assordante. È il giorno che smaschera in maniera definitiva la fragilità della condizione umana, il nulla che la avvolge. Il tempo erode qualsiasi cosa, si disinteressa di ciò che è stato e la deriva dell’esperienza umana porta con sé la propria cancellazione. L’uomo è talmente fragile che può vedere in un secondo dissolversi davanti ai propri occhi tutto ciò che ha fatto nella sua vita. Se ne è reso contro Napoleone a Sant’Elena, lo hanno capito i tifosi nerazzurri all’Olimpico.

Lo ha scritto Manzoni, che con la sua ode ha canonizzato il 5 maggio come giorno del fallimento umano, della denuncia della sua fragilità. Perché dopo cadute del genere la terra rimane così, “percossa, attonita”, e non c’è modo di celebrare il passato, ma solo di ammirare quel fragoroso crollo. Delle battaglie di Napoleone il 5 maggio 1821 non resta niente. Della grande stagione dell’Inter il 5 maggio 2002 non rimane nulla. Se non una lezione, compresa per prima da Manzoni: l’umanità è irrimediabilmente fragile.

Poco meno di una settimana fa, il mondo del calcio veniva stravolto dall’annuncio di una fantomatica Super League. Un progetto rivoluzionario e divisivo, che si è incamminato sul viale del tramonto a poche ore dalla sua nascita. Un’iniziativa che, a detta delle partecipanti, voleva includere le compagini più blasonate d’Europa. Mettiamo le diatribe ai piani alti del calcio europeo da parte, restringendo il cerchio: “blasone” e “calcio italiano” accompagnano benissimo Torino nella stessa frase.

A sei giornate dalla fine del campionato, la Juventus vincitrice degli ultimi 9 scudetti è impelagata nella lotta per un posto nella prossima Champions League, a soli 2 punti di margine sul Napoli quinto. La squadra di Andrea Pirlo ha vissuto una stagione altalenante, i cui bassi sono coincisi con sanguinosi punti persi contro squadre della parte destra della classifica, che a conti fatti potrebbero costar caro.

Dopo i gol di Cristiano Ronaldo, nell’istante che precede la sua più famosa esultanza, penso a che momento di completa consapevolezza televisiva sia quel siuuu. La coreografia del gesto è perfettamente costruita. Dal punto di vista fisico, attivando la potenza di ogni parte del corpo, ma anche da un punto di vista narrativo e inevitabilmente televisivo. L’esultanza del portoghese non scoppia in un lampo, ma è come se vivesse di un iniziale momento di caricamento, un vuoto pneumatico sottolineato dalla rotazione della mano in aria, che assorbe tutte le emozioni, quasi a lasciare il tempo ai fotografi di alzare l’obiettivo.

Ci sono partite che sembrano durare un’eternità, incontri che non sembrano avere un termine. Sfide che durano “una vita”, dove ogni azione compiuta può avere delle conseguenze irreparabili. Il karma, nella religione e nella filosofia indiana, incarna più o meno questo: il frutto delle azioni di un essere vivente può determinare una diversa rinascita nella gerarchia degli esseri ed un diverso destino nella vita successiva. Anche nello sport esiste implicitamente il concetto di karma e, probabilmente, il 20 ottobre 2013 ci sono stati degli eventi che potrebbero essere tranquillamente ricollegati a tale legge. Fiorentina-Juventus è stata la partita che, per i tifosi viola, è stata decisa e ricondotta sui giusti binari da una giustizia divina, portando Firenze in estasi per un intero pomeriggio (e, forse, anche qualcosa in più).

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