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CALCIO ESTERO QATAR 2022

In difesa di Didier Deschamps

Se è vero che nel calcio non devono bastare trofei e risultati a categorizzare i protagonisti del gioco, siano questi calciatori, tecnici o dirigenti, non bisogna lasciarsi trascinare da categorizzazioni affrettate su alcuni di essi, in particolare sui direttori d’orchestra. Negli ultimi anni si è formata sempre più solida e netta nell’opinione pubblica una suddivisione degli allenatori, esistente solo a livello retorico, che in italiano viene restituita con i termini giochisti e risultatisti, ma che forse la lingua inglese (nonché il gergo dell’informatica) esprime meglio con i concetti di top-down (riferito ai primi) e bottom-up (riferito ai secondi). Al di là della questione lessicale, che pure meritava questa necessaria precisazione (e meriterebbe uno specifico approfondimento, ma non è questa la sede), c’è uno schieramento di fondo per il quale, se a torto o ragione ce lo dirà la storia, si è creata una sorta di estremizzazione tra i due concetti e tra le due fazioni, per cui spesso e volentieri si guarda al dito e non alla luna. Nel corso dei dieci anni da tecnico della Francia, Didier Deschamps è passato spesso sotto le forche caudine dell’accusa di chi lo ritiene incapace di far fiorire l’immenso talento di cui dispone la selezione tecnica francese. Ma quanto è giusto accanirsi contro l’ex centrocampista della Juventus?

Arrivato sulla panchina Bleu nel 2012, Deschamps aveva il compito di risollevare la Francia da un periodo disastroso, quello successivo alla finale di Berlino persa contro la nazionale azzurra, a cui era seguito l’addio di Zizou e di buona parte di quella generazione che alzò la prima Coppa del Mondo transalpina nel 1998 e arrivò fino all’ultimo atto, perdendo, nel 2006. Una ricostruzione che Raymond Domenech e Laurent Blanc erano stati incapace di operare, fermandosi rispettivamente ai gironi tra Euro 2008 e Sudafrica 2010, e ai quarti di Euro 2012. La selezione che Deschamps prese tra le mani aveva decisamente mancato una generazione di talento, che è quella degli Anni Ottanta: sebbene quelle annate possano vantare diversi talenti generazionali, tra cui un fenomeno come Benzema e altri campioni del mondo come Lloris e Matuidi, le aspettative che si erano create all’epoca, soprattutto per la nidiata d’oro dei 1987 (di cui il centravanti madrileno fa parte), non sono state rispecchiate in pieno.

Nel mentre, una generazione più promettente si faceva largo alle spalle. Il gruppo degli Anni Novanta offrì a Deschamps già buone basi su cui incasellare il futuro nel mondiale brasiliano, dove la Francia fece bella figura anche grazie a Pogba, Griezmann e Varane, giovani fuoriclasse già integrati nel gruppo di cui all’epoca faceva ancora parte Benzema e che si spinse fino ai quarti di finale, quando è solo un episodio da calcio piazzato a far fuori Lloris e compagni: il solito Kroos perfetto mette una punizione sulla testa di Hummels che deve solo spingere dentro, la giovane nazionale francese va a casa di misura e lo fa contro i futuri campioni del mondo della Germania. Fino ad allora, quantomeno, si poteva ritenere che Didì avesse una buona reputazione, anche perché all’epoca non si era ancora inasprito il dibattito di cui sopra. Pur non brillando in assoluto per espressione di gioco, nella competizione disputata in terra sudamericana la Francia getta le basi per un futuro florido.

Hummels segna di testa il gol decisivo in Germania-Francia
Il gol di Hummels che condannò Didier Deschamps alla sua prima eliminazione ai Mondiali, l’ultima fino ad una settimana fa (Foto: Clive Rose – Getty Images)

È nel biennio successivo che qualcosa si rompe. A fine 2015, l’infausto episodio tra Benzema e Valbuena porta alla cacciata del primo dalla nazionale a tempo indeterminato (quantomeno fino al 2021). Una scelta netta, non pienamente autonoma secondo quanto riportano più fonti (si vocifera che il tecnico francese sia stato incoraggiato a tale scelta dalla FFF e anche da influenze politiche), ma che ha rafforzato la sua posizione sulla panchina della Francia: senza entrare in questioni etiche, privilegiare la serenità all’interno di un ambiente dalle mille anime come quello di una selezione nazionale è una decisione da privilegiare. Si parla spesso di quanto Deschamps avrebbe potuto – e dovuto, secondo alcuni – dare un’identità di gioco più chiara e dominante ai suoi, soprattutto visto il lungo regno sulla panchina dei Galli. Spesso, però, si trascura questo aspetto, ugualmente importante nella visione di una nazionale-club che oggi spopola, il quale gli ha permesso nel corso del tempo di plasmare un gruppo unito e solido. “[Del collettivo della nazionale] si fa garante e attraverso la sua autorità passano tutte le decisioni controverse, le punizioni, i passi indietro” scriveva Federico Raso alla vigilia di Euro 2021, aggiungendo: “L’unico modo per capire – anche senza apprezzare – Didier Deschamps è non strapparlo dal suo contesto, quando lo si valuta. Forse è uno dei pochi allenatori in grado tenere insieme un ambiente che negli anni e nei cicli precedenti è sfuggito di mano a tutti, o uno dei pochi che possono guidare dei giocatori così forti da potersi fidare di loro al punto di rimanere sul filo delle partite”. Di recente Adrien Rabiot, che ha avuto un rapporto particolare con Deschamps fatto di alti e bassi nel corso del tempo (ben spiegato da Raso nell’articolo di cui sopra), ha parlato del proprio rapporto con Deschamps – e più in generale di come il ct francese si rapporta ai suoi calciatori – in questi termini: “Penso che si sia evoluto nel tempo: è più sereno. Discute di alcuni argomenti più facilmente con la generazione più giovane”.

Didier Deschamps rincuora Mbappé
Deschamps e Mbappé hanno fatto le fortune l’uno dell’altro, e hanno un solido rapporto (Foto: Anne-Christine Poujoulat – AFP via Getty Images)

Il dibattito sul gioco espresso dalla selezione francese prende definitivamente piede durante l’Europeo di casa, senza lasciare pressoché mai più Deschamps e la sua squadra fino ad oggi. Se è vero che la Francia non si è mai imposta sugli avversari come un rullo compressore, è anche vero che probabilmente è un aspetto che non è mai stato nelle sue corde. Sin da quella competizione, la Francia ha cominciato a poggiarsi su un manipolo di calciatori prettamente verticali, con uno stile di gioco diretto e alimentato dalle loro fiammate. Di quell’Europeo, tutti ricordano le prestazioni di Moussa Sissoko, che per diverse partite di quel torneo si impose come arma della Francia per risalire il campo con le sue qualità in conduzione, nonché per i suoi ripiegamenti difensivi. Al di là dell’allora centrocampista del Tottenham, la nazionale tricolore presentava una mediana, quella composta da Kanté e Pogba, che non aveva tra le proprie fila un vero e proprio ordinatore di gioco; funzione che si è assunto, da quel torneo e per tutto il percorso successivo fino all’avventura qatariota, Antoine Griezmann.

La traiettoria disegnata da Le Petit Diable merita una considerazione a parte. Se si esclude la disastrosa avventura al Barcelona, Grizou ha militato in tutti questi anni in un sistema che l’ha responsabilizzato ai massimi livelli, come quello impostato all’Atletico Madrid dal Cholo Simeone. Dal punto di vista creativo, l’ex Real Sociedad era incaricato, soprattutto nei primi anni in Colchonero, di razionalizzare i palloni che riceveva dalla difesa, dovendo muoversi con intelligenza lungo il fronte dell’ultima linea di gioco. La perifrasi scelta per non chiamarlo fronte offensivo non è fine a sé stessa: spesso Griezmann riceveva palla poco oltre la linea di metà campo, avendo dunque di fronte a sé moltissimo campo da risalire, ben più di quanto richiesto solitamente ad un trequartista o ad una seconda punta. Integrando la sua abitudine a giocare non troppo a ridosso della porta, Deschamps ha l’ha indirizzata verso un compito di ritmi, quelli che Griezmann ha dovuto scandire per la sua nazionale in tutti questi anni. Scriveva Daniele Morrone su di lui durante i Mondiali in Russia: “Se nell’Atlético Griezmann è spesso la scarica di creatività ad un attacco altrimenti prevedibile, con la Francia diventa il giocatore che chiama la calma ad un attacco altrimenti poco razionale. Giocare limitando l’istinto e la fantasia, sfruttando al massimo il potenziale delle sue letture e la capacità di fare la giocata giusta nel momento giusto. Anche se si tratta della più banale: di un controllo orientato, di un’apertura in diagonale per cambiare gioco sul terzino che sale.”

Antoine Griezmann esulta per il gol contro la Croazia
In Russia abbiamo forse visto il miglior Griezmann di sempre, sebbene quello qatariota sia un forte contendente (Foto: Franck Fife – Getty Images)

Dalla prospettiva di Griezmann, in realtà, è possibile comprendere a pieno i valori del progetto tecnico di Deschamps. Partito esterno destro nel Mondiale del 2014, quando ancora occupava quella posizione anche nella squadra di club (alla Real Sociedad), DD lo ripropone allo stesso modo anche all’inizio di Euro 2016, constatando però dopo le prime uscite che nel frattempo il suo pupillo ha cambiato irreversibilmente pelle: il 7 assume centralità sia tecnica che geografica, diventando prima il principale realizzatore dei suoi (6 reti all’Europeo, 4 al Mondiale) per poi evolversi nel regista avanzato di cui sopra, abdicando in fase di finalizzazione alla legittima superiorità di un uragano di nome Kylian Mbappé. Superata la vincente campagna russa, Deschamps prova a sigillare ancor di più la sua squadra, con un 3-4-1-2 in cui Griezmann gravita tra le linee, alle spalle del reintegrato Benzema e del sempre più egemonico Mbappé. L’esperimento è in parte fallito: dal letame dell’eliminazione contro la Svizzera, frutto della Francia narcisista che Deschamps ha sempre voluto scacciare via, ne viene fuori il fiore del Griezmann enganche (o meglio relayeur, il box-to-box definito alla francese) che abbiamo potuto ammirare in questo mondiale. Guy Stephan, assistente del tecnico francese, ha raccontato a L’Equipe che Deschamps ha comunicato a Griezmann la sua idea solo all’inizio del raduno a Clairefontaine, e che in quei giorni si è fermato a lungo a discutere con lui per spiegargli i movimenti con e senza palla che gli avrebbe chiesto nella nuova posizione. Una soluzione che ha regalato alla Francia, all’Atletico Madrid e anche a Griezmann stesso un calciatore nuovo: identico nelle caratteristiche, rinnovato nei compiti, che si sono evoluti di partita in partita. Lavoro sul lungo e sul corto, in fase di possesso e non possesso, centralmente e largo a seconda della sua sensibilità: in queste settimane è stato definito passeur (che vuol dire passatore, sicuramente, ma anche traghettatore, corriere) e récupérateur (qui la traduzione è semplice); ancora una volta, il diavolo di Mâcon ha fatto le pentole e anche i coperchi, raccogliendo le responsabilità che gli ha dato Deschamps, e ha trasformato sé stesso e la sua squadra, potendo probabilmente allungare la sua carriera di una buona manciata di anni (questo saprà dircelo solo Padre Tempo). Sempre, però, partendo da un’intuizione fin troppo sottovalutata del suo ct, che lo usa come un prisma attraverso cui riesce a riflettere tutti i colori di una nazionale dalle tante qualità e risorse.

Didier Deschamps abbraccia Antoine Griezmann
Nonostante una finale sottotono, Griezmann ha giocato un mondiale sontuoso (Foto: Franck Fife – AFP/Getty Images)

L’avvicinamento alla finale contro l’Argentina è stato travagliato in una maniera sminuita da molti. Troppo derubricata ad incidente di percorso l’ecatombe che ha attraversato la nazionale di blu vestita – che ha perso Kimpembe, Lucas Hernandez, Kanté, Pogba e Nkunku (senza fare menzione di Benzema per cui è stata fatta ancora una volta una scelta ben precisa): mai come per una nazionale, gli equilibri dettati dai singoli sono decisivi per lo svolgimento delle partite e il raggiungimento dei risultati. Questi problemi hanno, però, potuto portare alla luce un aspetto in cui Deschamps si è dimostrato molto più ricettivo e moderno di alcuni tecnici di cui viene spesso decantata la lucidità ed elasticità: il rimpiazzo dei campioni del mondo del 2018, senza battere ciglio, senza provare quella gratitudine spesso fatale a chi guida delle nazionali. Mentre per il duetto mediano è stato il referto medico ad accelerare il processo, il caso principe è quello di Benjamin Pavard, esautorato dalla sfida contro la Danimarca per far spazio ad un Jules Koundé più in forma e più utile alla causa della Francia, da terzino bloccato che spesso scivolava accanto ai centrali per dar spazio alle sgroppate di Theo Hernandez, subentrato nei titolari proprio dopo la partita con l’Australia che ha visto il grave infortunio occorso a suo fratello Lucas. Un aggiustamento a competizione in corso avrebbe spaventato molti: non Deschamps, l’alchimista sempre pronto a trovare la giusta formula per far scoppiare i suoi (o lo chef sempre bravo a trovare l’equilibrio tra sapori, una metafora sicuramente più gradita al popolo francese).

A decimare ulteriormente la squadra francese nelle fasi finali del torneo ci ha pensato l’epidemia influenzale che ha colpito buona parte del gruppo, soprattutto nella zona arretrata della squadra. Deschamps e i suoi ragazzi non hanno fatto un plissé (a proposito di francesismi), offrendo la solita prestazione affidabile in semifinale, a cui è seguita una finale oramai fin troppo tratteggiata e raccontata (così detto sembra passato un anno almeno, eppure in meno di una settimana questa partita ha già lambito i contorni della leggenda). Nell’ultimo atto, le troppe emozioni fluite, soprattutto nei tempi supplementari, hanno fatto dimenticare in fretta la coraggiosa mossa del ct francese a pochi minuti dal termine della prima frazione, e più in generale l’ottima gestione dei cambi effettuata. Se si può effettuare un’obiezione alla gestione dalla panchina, può essere quella di aver sostituito fin troppi rigoristi, ma le uscite dal campo di Giroud, Griezmann e Theo (i principali battitori dal dischetto dei Bleus) sono arrivate in momenti in cui la preoccupazione principale era ben altra.

Troppo semplicistico limitare alla prestazione indubbiamente disumana e magica di Mbappé la rimonta francese: sicuramente la sua impronta è la principale, ma per un KM che segna a raffica c’è un Kolo Muani che si procura il rigore della scossa, un Coman che scippa dai piedi di un Messi disorientato il pallone da cui parte l’azione del 2-2, un Marcus Thuram che serve al suo numero 10 l’assist per quella epica volée. “Dopo 41 minuti, mentre la sua squadra, amorfa, paralizzata dalla sfida e sfinita da questo maledetto virus, era sotto 0-2, il mister ha rovesciato il tavolo” scrive Hugo Delom in un articolo su L’Equipe che spiega passo dopo passo la serata di Deschamps, tra lampi di genio e leggerezze (poche in realtà). “Le scelte di Deschamps sono state da re” aggiunge Delom, “un re capace di immaginare, dunque, che una squadra riportata in vita da un 4-4-2 (Coman e Thuram larghi con Mbappé accompagnato da Kolo Muani) e con Camavinga sulla fascia sinistra, possa vincere un Mondiale”. In generale, una squadra che ci ha sempre creduto: difficile non darne merito anche al proprio tecnico.

Didier Deschamps e Kylian Mbappé ricevono gli applausi del pubblico francese
Nonostante la sconfitta ai rigori in finale, al ritorno in patria la nazionale francese è stata accolta trionfalmente: giusto così. (Foto: Julien De Rosa – AFP via Getty Images)

Ad oggi ancora non si conosce il destino di Didier Deschamps e quello dell’ambitissima panchina della Francia. La candidatura di Zidane è rimasta a voce soffusa, mai confermata e mai smentita da entrambe le parti. Ciò che è certo è che non sarà semplice trovare un sostituto migliore del tecnico campione del mondo, troppo spesso vituperato semplicemente perché incastrato all’interno di una categorizzazione fin troppo frettolosa.

Autore

Classe 2001. 200 partite viste dal vivo in 15 stadi diversi (and counting). Sempre alla ricerca di nuovi talenti, di storie, di personaggi ed imprese. Socio del Centro Storico Lebowski.

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